Oltre il terreno della memoria

Negli anni, Milano ha rappresentato il luogo delle opportunità per più di una generazione: dalla “leggenda privata” dei Mari, col nonno Gino trasferitosi da Spinazzola nelle Murge, all’educazione milanese di Rollo, originario di Lecce, fino agli immigrati raccontati da Giuseppe Lupo in Gli anni del nostro incanto. Un romanzo, un’ autobiografia in senso proprio e un’autobiografia leggendaria raccontano ciascuno a proprio modo il mito della Milano del secondo Novecento. Un mito fatto di contraddizioni, ma dalle molte chiavi interpretative.
 
Un’accoglienza critica pressoché unanimemente positiva ha salutato l’uscita dell’ultimo libro di Michele Mari, Leggenda privata. Qualcuno s’è spinto ad affermare che si tratta del suo libro migliore: giudizio, in verità, non privo di fondatezza. Un argomento in particolare brilla per arguzia: in passato Mari scriveva romanzi che, in filigrana, tradivano l’autobiografia; ora, mettendo mano a un libro dichiaratamente autobiografico, ha scritto il suo romanzo più riuscito. Un’interpretazione forse non vera alla lettera, ma meritevole di approfondimento.
Il titolo, tanto per cominciare: Leggenda privata. Entrambi i termini celano sottili paradossi. Applicato a qualcosa che viene reso pubblico, l’aggettivo “privato” implica di per sé un’auto-smentita; il sostantivo “leggenda” evoca l’idea di meraviglie che poco si curano della corrispondenza con i fatti reali, in plateale contraddizione con la veridicità documentaria annunciata – se non promessa – dalla fotografia riprodotta in copertina (l’autore all’età di sette anni, in montagna, con la madre). E tuttavia è difficile figurarsi un titolo più calzante, più preciso, più definitivo di questo.
Oltre all’immagine della copertina, Leggenda privata ne comprende una trentina circa, in massima parte prelevate dall’album di famiglia; a esse s’aggiungono alcuni disegni infantili, tra i quali spiccano un ritratto del padre, uno della madre, e il frontespizio di un racconto intitolato L’incubo del treno, confezionato come un libretto, con tanto di indicazione editoriale (“Libri neri”), e regalato al padre per il Natale del 1964. Intercalate al testo e commentate con attenzione, le immagini assumono dunque una funzione strutturale; e, in linea di principio, parrebbero avvalorare l’aderenza del racconto al vissuto. Nella medesima direzione dovrebbe muovere l’abbondanza dei riferimenti a luoghi precisi, oggetti concreti, personaggi conosciuti, che s’incontrano durante la narrazione; e lo stesso vale per la confessione di dettagli intimi, come l’enuresi notturna protrattasi fino all’adolescenza, o la tardiva iniziazione sessuale.
Quello che invece accade è che, inoltrandosi nella lettura, ci si dimentica abbastanza in fretta dell’ipoteca autobiografica. Leggenda privata si legge davvero come un romanzo: che le vicende narrate corrispondano o no a eventi realmente accaduti (cosa di cui, a freddo, non abbiamo ragione di dubitare) importa poco o nulla. Del resto, è plausibile che non altra fosse l’intenzione dell’autore. La storia della famiglia Mari è infatti incorniciata da dialoghi tra il narratore-protagonista ed esponenti di fantastiche Accademie, dalle denominazioni sinistre (Quello che Gorgoglia, Quello che Biascica, Quella dalle Orbite Vuote), che lo spronano a scrivere finalmente la sua autobiografia, con modi meno brutali, ma altrettanto minacciosi dei seviziatori di Roderick Duddle (2014), che all’inizio e alla fine del libro fustigavano, rispettivamente, Michele Mari e l’eroe del titolo. Non è questa l’unica apertura visionaria di Leggenda privata: basti citare l’ultima apparizione della principale figura femminile della storia, la cameriera della Trattoria Bergonzi, giovane popolana disinvolta e volgarotta conosciuta quando il protagonista era ragazzino, da subito ammirata e concupita, presto scomparsa, e quindi vagheggiata in silenzio per tutti i decenni a seguire.
Non un’autobiografia nel senso più schietto della parola, dunque, bensì una narrazione che germina sul terreno della memoria per spingersi oltre. Ciò non di meno, mi pare che la forza romanzesca del libro consista soprattutto nelle pagine più realistiche: nei ricordi esatti, nei ritratti, negli episodi. Se Leggenda privata è un romanzo, non lo è per l’intrusione di sparsi elementi palesemente fittizi all’interno di un resoconto veridico, quanto perché i fatti realmente accaduti assurgono a una dimensione favolosa – appunto, “leggendaria”. Volendo, ci si potrebbe dedicare al riscontro fra i motivi che ricorrono in questo libro e le trame di libri precedenti, come Di bestia in bestia (1989, 2013) o La stiva e l’abisso (1992); e non sarebbe esercizio inutile. Il dato essenziale è però che tutta la narrativa di Michele Mari ha trovato alimento nel modo in cui, prima ancora di metter mano al suo primo romanzo, egli si è raccontato la propria infanzia e adolescenza, dando un senso complessivo a una storia di formazione difficile, dolorosa per molti versi, densa, intensa, della quale ha saputo cogliere l’unicità. Questo libro riprende e stilizza quella Ur-narrazione di sé: e lo fa con tutta la libertà, la leggerezza, il divertimento perfino, che nascono dall’averne incassato, nel frattempo, dividendi cospicui sul piano della creatività letteraria.
Al centro della vicenda campeggiano i rapporti con (e fra) i genitori: il padre Enzo, gloria del design italiano, e la madre Gabriella detta Iela, raffinata disegnatrice e autrice di storie per bambini. Lui geniale, collerico, dispotico, oggetto di un inestricato groviglio di ammirazione e di terrore; lei introversa e umbratile, caparbiamente votata al sacrificio, orgogliosa artefice della propria infelicità. La traumatica separazione dei genitori è in un certo senso il vero oggetto della fotografia riportata in copertina, quale che fosse, in quel momento, lo stato d’animo dei personaggi coinvolti. Lo scatto ritrae il bambino e la madre, l’uno davanti all’altra, gli occhi fissi sul maschio adulto fotografo con espressioni destituite di qualunque serenità («autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: “Dovrai passare sul mio cadavere”»). E tuttavia, se c’è un eroe nella storia, questo è il nonno paterno, il capostipite. Rimasto orfano di entrambi i genitori a dodici anni durante la Grande Guerra, e con un fratellino di cinque, Luigi Mari detto Gino, nato a Spinazzola nelle Murge, salta su un treno e viene a Milano. La vita è dura, ma la sua tempra lo è di più. Riesce a cavarsela, fa mille lavori, risparmia («come un personaggio di Jack London»), mette su bottega, si sposa, ha tre figli, li fa studiare tutti. E il primogenito Enzo, iscritto alla Scuola Tipografica del Castello, concorre a una borsa di studio per l’Accademia di Brera (una sola per cinquecento iscritti), la vince, e di lì comincia la sua luminosa carriera, una leggenda nella leggenda.
Un luogo importante del libro è la casa dei nonni materni, nei pressi del Lago Maggiore – il lettore di Mari non fatica a riconoscere lo scenario di Verderame (2007) – dove il protagonista trascorre le estati. Qui entrano in scena vari altri personaggi, come la già citata cameriera, insieme anonima e dai molti (tutti inventati) nomi, Donatella-Ivana-Loretta, non rovescio carnale d’una madonna da stilnovo, ma rovescio stilnovistico d’una muliebrità realisticamente terragna; o come la laida, grottesca domestica Velia, uno dei personaggi più disgustosi mai inventati nella narrativa italiana. Topograficamente, se ne potrebbe concludere che Leggenda privata ha quindi forma ellittica, con due poli di eguale importanza: da un lato la rustica Nasca, frazione di Castelveccana sul versante lacustre del Varesotto, dall’altro Milano, la metropoli dove tutto può succedere.
Interamente su Milano gravita invece l’esordio letterario di Alberto Rollo, autorevole figura della nostra editoria, che all’età di sessantacinque anni si cimenta come autore in proprio. Per la verità, l’origine di Un’educazione milanese (Manni 2016) risale a oltre vent’anni fa: fu la storica rivista di Goffredo Fofi, «Linea d’ombra», a ospitare nel 1995 il «torso» di questo libro (come è ricordato fra i ringraziamenti conclusivi). Anche Rollo racconta la storia di un’emigrazione dalla Puglia, questa volta da Lecce (la scelta dell’editore varrà quindi come una specie di ritorno alle origini). E anche qui gli ascendenti sono costretti a crescere in fretta: a dodici anni il padre del protagonista comincia a lavorare come apprendista metalmeccanico. Ma a differenza di Leggenda privata, Uri educazione milanese è un’autobiografia in senso proprio, dove tutto reca il segno dell’autenticità vissuta. La fluida trasparenza della scrittura è funzionale a un resoconto di fatti accaduti, nella loro prosaica inesorabilità: «Con il Guzzi rosso di mio padre non si poteva andare lontano, e nessuno in famiglia possedeva un’automobile. La prima auto sulla quale sono salito è una Balilla, una Balilla nera di conoscenti con cui andammo a far ciliegie dalle parti di Magenta». In compenso, la vita del protagonista si presenta davvero come il pezzo della storia di una città, la Milano operaia degni anni cinquanta e sessanta, gli ambienti popolari di viale Certosa e della Ghisolfa, la metamorfosi sociale che vede le famiglie contadine meridionali diventare proletariato industriale ed evolvere poi verso i ceti medi (e, parallelamente, l’arcigna morale della tradizione dischiudersi a tempi nuovi); quindi la Milano degli anni settanta, l’università, le agitazioni studentesche, il miraggio di un rivolgimento politico epocale, e il suo dissolversi nella realtà di una città ricca di energie e dinamismo, ma a ben vedere tenacemente incapace di elaborare un’autonoma, autoctona, coerente forma urbis.
È un fatto, peraltro, che in qualche misura le scelte compositive dipendono anche dall’anagrafe. La scrittura d’impianto memoriale è spesso sollecitata dalla presa di coscienza che si va ampliando il campo dei ricordi dei quali si è, se non gli unici, certo tra gli ultimi depositari. Così sta avvenendo ora per la generazione dei baby-boomers. E poiché fra i tempi e gli spazi il legame è inesorabilmente stretto, ecco che si moltiplicano le storie in cui la città, nella sua mutevole, mutata fisionomia, ha un ruolo centrale. Milano ancora è protagonista dell’ultimo romanzo di Giuseppe Lupo, Gli anni del nostro incanto (Marsilio 2017). Come nel caso di Leggenda privata, un ruolo importante tocca a una fotografia di copertina: una famigliola in Vespa negli anni sessanta, il padre davanti, la madre dietro con una bimba in braccio, il fratellino più grande tra le gambe del guidatore (i vigili allora erano tolleranti, per lo più, e l’obbligo del casco è stato introdotto in Italia solo nel 1986). Di autobiografico non c’è nulla, almeno dal punto di vista formale: siamo nel campo della pura fiction. Ma anche qui è rievocata una Milano proiettata verso il futuro, vista attraverso gli occhi di una famiglia di immigrati. La madre proviene dalla sponda veronese del Garda, il padre è un ragazzo del Sud che, aviere scelto al comando dell’aeronautica di piazza Novelli, aveva deciso di rimanere e farsi una vita «all’altezza degli anni». La narrazione è condotta in prima persona da Vittoria, che nel 1982, poco più che ventenne, assiste la madre precocemente vedova, colpita da amnesia («Dove sono finiti i tuoi ricordi?»). E l’epoca dei mondiali di calcio in Spagna. Mentre tutti gli italiani seguono le gesta della Nazionale di Enzo Bearzot, che alla fine vincerà il titolo, la giovane s’impegna a ridestare i ricordi della madre parlandole del passato, rievocando la «vita sbarluscenta» di quel tempo in cui tutto sembrava possibile, c’era lavoro e si metteva su famiglia, in casa entravano via via la televisione, il frigorifero, la lavatrice, dopo la Vespa arrivava la Cinquecento, e così via.
Una parte non piccola dell’efficacia di questi libri – soprattutto degli ultimi due – è affidata alla forza evocativa dei nomi propri, che per i coetanei degli autori (Rollo 1951, Mari 1955, Lupo 1963) non possono non avere risonanze profonde. Nomi di luoghi, soprattutto. Brera e il bar Jamaica, via Larga e il Teatro Lirico, piazza Fontana, Casoretto, l’Ortica, il ponte della Ghisolfa: le molte facce di una città che nel suo insieme è apparsa, a più di una generazione, come il paese delle opportunità. Narrativa d’invenzione, autobiografia dispiegata, memorie lievitanti a misura leggendaria convergono, ciascuna a proprio modo e con le proprie forze, nel celebrare il mito della Milano del secondo Novecento. Un mito, com’è giusto, intrinsecamente ambiguo («Ma è proprio questa la città di cui andava fiero mio padre?» si chiede a un certo punto Vittoria). E giocabile, quindi, in molte chiavi diverse.