Donne in cerca di guai

Le scrittrici italiane ancora non sono riuscite a plasmare una figura di investigatrice in grado di imporsi su uno scenario internazionale, battagliando con Petra Delicado o Kay Scarpetta. Da noi ha largo corso un modello in cui il giallo soccombe al rosa, e l’indagine cede il passo ai sentimenti. È ciò che accade nella serie più fortunata, quella dell’Allieva di Alessia Gazzola. Ma anche chi ha preferito guardare a Montalbano, o alle crime series americane, fatica a trovare una formula convincente. Per sparigliare le carte bisognerà scavare nelle contraddizioni dell’Italia profonda.
 
Troppo spesso lo si dimentica: il giallo in Italia nasce femmina, grazie a Carolina Invernizio, che non si limitò a impastare nelle sue storie gli ingredienti più graditi al palato popolare – la violenza e il mistero – ma già sul crinale fra Otto e Novecento scodellò precoci esempi di detection. Per accorgersene basta sfogliare La sepolta viva, o considerare eroine come la temeraria operaia che nel romanzo Nina, la poliziotta dilettante si trasforma in investigatrice, pur di scoprire chi le ha ucciso il fidanzato. Di qui si sgomitola un tenace filo nero che attraversa il Novecento, saldamente retto in tempi più recenti dalle mani di Laura Grimaldi, capace di offrire declinazioni notevoli del thriller psicologico alla maniera di Patricia Highsmith.
Negli ultimi vent’anni il consolidamento della produzione italiana, in un ambito storicamente in balia delle importazioni, ha mutato in modo radicale le dinamiche del consumo. Fra le moltissime scrittrici che si sono provate a imbastire spaghetti crime con protagonista femminile nessuna però ha saputo imporsi su un palcoscenico internazionale, emulando i successi ottenuti da colleghe europee di altre latitudini: l’inglese Paula Hawkins, poniamo, la catalana Alicia Giménez-Bartlett, o la svedese Camilla Lackberg. Da noi insomma non si sono viste una ragazza del treno, una Petra Delicado, un’Erica Falck, e neppure una Noria Ghozali, la poliziotta di origine magrebina che Dominique Manotti cala negli abissi plebei di Parigi. In compenso, qualcuno potrebbe osservare, abbiamo avuto la versione nostrana di Kay Scarpetta, l’anatomopatologa che ha consentito a Patricia Cornwell di vendere oltre cento milioni di libri nell’intero pianeta. Alludo naturalmente ad Alice Allevi, star di una fortunata serie di romanzi di Alessia Gazzola, chiusa nel 2018 col Ladro gentiluomo.
Se però si va a guardare più da vicino, è facile accorgersi di come i due personaggi abbiano poco da spartire, al di là della professione di medico legale. Tanto l’americana è determinata, razionale, metodica, quanto l’italiana è imbranata, dubbiosa, istintiva. Il thriller ansiogeno della Cornwell si stempera in atmosfere più rilassate; e blande sono pure le concessioni alla pornografia della morte, che sempre più spesso trasforma il tavolo autoptico nell’altare sul quale il pubblico può venerare il cadavere, in spregio al tabù che nella vita quotidiana lo rimuove accuratamente dalla nostra vista. Il punto è che le storie della Gazzola appaiono debitrici innanzitutto al modello del medical drama televisivo, attento più agli affari di cuore che s’intrecciano in corsia che alla spettacolarizzazione del raccapricciante. Sotto il camice, in fin dei conti, si nasconde l’intramontabile Bridget Jones.
L’idea di spruzzare un po’ di sangue sulla chick lit, o almeno riverniciarla di giallo, piace parecchio alle scrittrici italiane: se poi la dinamica del delitto è pretestuosa o la suspense scarseggia, amen. Ad aprire la via è stata la curiosa professoressa Camilla Baudino di Margherita Oggero, che ha preceduto L’allieva sugli schermi della Rai, assumendo le fattezze di Veronica Pivetti. Non è più il tempo delle Miss Marple, in effetti. Le investigatrici dilettanti sono giovani, scombinate, linguacciute, insicure e sempre in trambusto per qualche uomo che non le merita. Prima che alla protagonista di Teresa Papavero e la maledizione di Strangolagalli, frizzante commedia poliziesca di Chiara Moscardelli, è un identikit che si adatta bene a Vani Sarca, la ghostwriter acidella che nei romanzi di Alice Basso veste solo di viola e nero, mangia cibo spazzatura, dice parolacce e spasima per un commissario, che aiuta a risolvere casi intricati. Come fa? Be’, l’intuito femminile e l’aver dovuto scrivere di tutto – dai manuali di neuroscienze in giù – ne fanno una geniale suggeritrice… Vani, che conduce il racconto in prima persona, si sente in dovere di piazzare una battuta ogni trenta secondi, con effetti alla lunga un po’ pesanti. Se non la salvasse l’autoironia sarebbe una figura a conti fatti respingente, sempre pronta a compatire amici e famigliari, povere menti semplici dai gusti volgari. Non sfugge al suo disprezzo neppure Henry Dark, thrillerista brianzolo di successo dai capelli improbabili, al quale nella Scrittrice del mistero spiega in quattro e quattr’otto come si fa a confezionare un bestseller all’altezza dei tempi. E che ci vuole?
Discorso differente riguarda le detective professioniste, che da tempo sono evase dal ruolo di spalla, al quale tradizionalmente venivano relegate. La facilità con cui negli anni novanta si impose sulla scena il tostissimo ispettore Grazia Negro di Carlo Lucarelli deve aver insegnato parecchio. Ma le noiriste delle ultime generazioni sembrano privilegiare un immaginario che discende dritto dritto dalle Crime Scene Investigations americane. Ecco dunque stagliarsi all’orizzonte eroine ancora l’altro ieri impensabili dalle nostre parti, come Aurora Scalviati, la giovane e tormentata profiler che Barbara Baraldi fa scontrare con una Bologna livida, lontanissima dallo stereotipo. Nell’Osservatore oscuro Aurora viene addirittura sospettata di essere coinvolta negli efferati omicidi che sconvolgono il suo giro di conoscenze, in un crescendo che dà modo all’autrice di sfoggiare un’inconsueta abilità nelle tecniche di costruzione della suspense.
Il modello televisivo è basilare anche in un altro e più frequentato filone, ispirato alle avventure del commissario Montavano, lo sceneggiato italiano più visto di ogni tempo (a oggi, oltre un miliardo di spettatori nel mondo). Su di esso Gabriella Genisi ha esemplato l’intera serie della commissaria pugliese Lolita Lobosco, ben infarcita di specialità culinarie ed espressioni locali. Sin troppo aderente al modello originale, e cioè ai romanzi di Andrea Camilleri, è invece il vicequestore della mobile di Catania Vanina Guarrasi, che in Sabbia nera, primo giallo di Cristina Cassar Scalia, appare solitaria, sgarbata con i sottoposti, maestra nel decifrare gli sguardi, negata in cucina ma pronta ad apprezzare i manicaretti lasciati per lei da persone servizievoli. Decisamente più originale il profilo della sua collega Maria Laura Gangemi, lo «sbirro femmina» etneo al quale Silvana La Spina ha dedicato una decina d’anni fa una trilogia di romanzi.
Anche sul piano dell’intreccio Sabbia nera non va oltre il riassemblaggio di materiali usati, proponendo un cold case riemerso dal dopoguerra, a partire dalla scoperta del cadavere imbalsamato di un’elegante signora in pelliccia e tailleur nel montacarichi di una villa abbandonata. Per fortuna alcuni arzilli vecchietti daranno una mano decisiva all’indagine. Sembra di stare nel Cane di terracotta, o in un’altra delle avventure vintage di Montalbano, alle quali strizza l’occhio anche Nino Motta (alias Paolo Di Stefano) nella Parrucchiera di Pizzuta, dove si è divertito a immaginare una combattiva filologa alle prese con un omicidio rimasto per decenni senza colpevoli.
Resta da esplorare un ultimo versante, lontano dagli orizzonti del noir mediterraneo. Un versante lungo il quale si incontrano riusciti aggiornamenti di un altro sottogenere da tempo acclimatato nella penisola: la crime story che si annida nei segreti di una piccola comunità in apparenza armonica, ma percorsa sottopelle da tensioni drammatiche. Penso in particolare a Fiori sopra l’inferno, dove Ilaria Tuti costringe l’attempata commissaria Teresa Battaglia a sbattere contro i silenzi di un paesino tanto bello quanto ostile, Travenì, appollaiato sulle montagne del Friuli. Il male esplode fra candidi boschi innevati, in un’aria rarefatta non troppo distante da quella che si respira nelle pagine del nostro più sottovalutato scrittore di noir, Eraldo Baldini. E penso poi al coraggioso tentativo di Marilù Oliva, che nelle Spose sepolte non rispolvera gli orrori dell’Invernizio, ma affronta di petto il tema del femminicidio. La vicenda è innescata da un serial killer che si accanisce con un feroce rituale, condito di spilloni, su uomini che a loro volta anni prima avevano assassinato le loro compagne. Le indagini conducono Micol Medici, ispettore della polizia bolognese, in un incantevole borgo incastonato sugli Appennini, Monterocca, dove a governare e a decidere tutto ciò che conta sono le donne. È una storia ben congegnata, capace di portare a galla il rimosso e le contraddizioni di una società troppo distratta o insensibile dinanzi alle questioni di genere. Riesce così a coinvolgere, a dispetto di una scrittura poco incisiva e di una protagonista che fatica a imprimersi nel cuore del lettore. Micol non si perde in sentimentalismi, è pratica e brillante, ma di lei si finisce col ricordare quasi soltanto la cicatrice che le deturpa il viso. Peccato. Per trovare un’indiscussa portabandiera del nuovo giallo italiano femminile occorre ancora un po’ di pazienza.