Stratigrafie in versi di vite femminili

Nella nicchia della poesia contemporanea le autrici donne occupano uno spazio importante, per qualità e varietà della scrittura. Lo dimostrano tre titoli recenti accomunati da una forte tensione civile: glossopetrae/tonguestones di Simona Menicocci, Sespersa di Alessandra Carnaroli e Historiae di Antonella Anedda.
 
A dispetto dei cliché correnti sullo stato della poesia contemporanea (perdita di peso sociale, morte reale o apparente, stato comatoso ecc.), la scena italiana si presenta tutt’altro che in crisi. Il fatto che non emergano con chiarezza dei grandi nomi, che le voci e i supporti della critica siano molteplici, che non esistano più, dagli anni settanta-novanta, generazioni o gruppi riconoscibili o riconosciuti, va salutato come avventurosa e necessaria evoluzione del sistema letterario, come ampliamento dei suoi confini. No, niente più vati (di partito e non), niente più arbitri dell’eleganza o padri che fissino de iure gli standard formali e ideologici della poesia. Un sano pluralismo, invece, che in nessun modo significa laissez-faire. Oggi più che mai, infatti, leggere e scrivere poesia richiede scelta ed esercizio critico; ma anche orecchio per le poetiche e occhio per le dinamiche di mercato. O meglio, di “micromercato”, dato che la poesia è una nicchia, sebbene densamente popolata. Per avere un’idea delle sue ridottissime dimensioni, secondo i dati Aie relativi al 2017, su 72.059 titoli cartacei pubblicati («novità e nuove edizioni di varia adulti e ragazzi oltre ai titoli educativi, che sono 4.037; sono esclusi gli e-book», Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2018, Sintesi, Aie, disponibile sul sito http://aie.it/) soltanto 199 appartengono alla categoria poesia/teatro (per quest’ultimo dato ringrazio Antonio Lolli dell’ufficio studi dell’Aie).
Nel piccolo mondo della poesia le autrici donne giocano un ruolo non indifferente, sebbene quantitativamente paiano in minoranza rispetto agli uomini. Un rapido sguardo al censimento dei poeti under 40 operato negli anni scorsi dal festival PordenoneLegge fornisce un dato interessante sulla disparità di genere. Su 270 poeti attualmente presenti in elenco, soltanto 73 sono donne, il 27,03 %, a fronte di 197 uomini, quasi il 73 %. Sfogliando i cataloghi delle collane poetiche più istituzionali, la “Bianca” Einaudi e «Lo specchio» Mondadori, e considerando soltanto gli autori italiani del XX e XXI secolo nel quinquennio 2014-18, si ottengono risultati leggermente diversi, che però non spostano i rapporti di forza: dei 30 titoli Einaudi 9 sono pubblicati da donne (30%); dei 20 Mondadori soltanto 3 (15%). Percentuali magre, ma comunque indicative di un progressivo incremento della presenza femminile, specie se paragonata al passato. Per esempio, nell’antologia Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000 pubblicata da Enrico Testa nel 2005 – strumento imprescindibile per studiosi e conoscitori della materia – su 43 autori figurano 5 donne (11,62%). Ad ogni modo, questi timidi accenni di ricerca quantitativa – che andrebbe intrapresa in modo sistematico – indicano un indebolimento degli habitus consolidati, che associano l’alto prestigio simbolico della poesia al genere maschile. Habitus che, va da sé, non riguardano esclusivamente chi ratifica o crea il canone, ma tutti gli attori del sistema letterario, a partire dagli autori.
Per rendere l’idea della vitalità e del valore della ricerca poetica “femminile” ho scelto tre titoli significativi pubblicati nell’anno 2018. Si tratta di libri molto diversi, che riflettono l’estrema varietà degli stili, delle ricerche e delle collocazioni editoriali. Ciò nonostante, tutti e tre sono animati da una marcata tensione conoscitiva, aprono spazi di pensiero, affrontando senza sconti temi caldi e poco battuti in poesia. Se si esclude il caso di glossopetrae/tonguestones di Simona Menicocci inoltre, le altre due raccolte hanno molto a che fare con la vita delle donne. Con Sespersa, infatti, Alessandra Carnaroli propone un poemetto-denuncia su aborto e maternità, mentre Historiae di Antonella Anedda ha come protagonista un io-lirico donna che – tra puntelli tacitiani e barattoli di sugo – affronta il passare degli anni e le sue sfide fisiche ed esistenziali.
glossopetrae/tonguestones (ikonaLiber) di Simona Menicocci appartiene all’area della cosiddetta poesia di ricerca, contraddistinta, a grandi linee, da un misto di passione politica e sperimentazione formale. Il libro è composto perlopiù da testi scientifici (informativi e regolativi) tagliati e montati liberamente in un lungo poema, caotico nell’apparenza formale ma coeso negli intenti e nei temi. Il titolo – nome medievale dato ai denti di squalo fossili, credute lingue di serpente – allude ai filoni principali della raccolta: da un lato la stratigrafia archeologica, dall’altro la riflessione linguistica e metalinguistica, con speciale riferimento alle lingue a rischio e in via di estinzione. L’incipit del libro rende l’idea del tono assertivo e impersonale scelto dalla giovane autrice, ulteriormente rafforzato dall’uso sistematico di procedimenti di cancellazione e cut up-make up: «ogni azione umana (quasi) // o ogni evento naturale (quasi) /// in un sito una traccia che si sovrappone / a esempi // l’accumulo lo scavo la costruzione il deposito / il crollo» (p. 7). Si tratta di nozioni base di stratigrafia, la disciplina che – grazie a sofisticate tecniche di scavo e datazione – permette di studiare le tracce che gli insediamenti umani hanno lasciato nel terreno. Menicocci, tuttavia, declina la stratigrafia in senso antropologico-cosmico, facendone quasi una “teoria del tutto”. Pietre, creature, popoli e lingue sono soggetti all’inesorabile legge della sovrapposizione, cioè a scalzarsi gli uni con gli altri, in un accrescimento progressivo basato su continui processi di costruzione, crollo e sedimentazione. Da qui, per esempio, l’attenzione per le lingue “quasi morte”, che vengono riportate in lunghissimi elenchi tratti dall’Atlas of the World Languages in Danger dell’Unesco e organizzati secondo la maggiore o minore prossimità all’estinzione.
glossopetree è quasi per intero il risultato di una lunga operazione di montaggio. L’autrice, infatti, non teme di ricombinare voci disparate di Wikipedia (come “Stratigrafia (archeologia)”, “Cipolla” o “Bioturbazioni”), ragionando contemporaneamente sulla moneta, sulle unità di misura, sui monstra delle lingue e della logica, ma anche sul colonialismo e sulle tribù che rifiutano i contatti col mondo esterno. A la Schwitters, Menicocci rovista, scava nelle sue fonti, realizzando dei collage bislacchi e lapidari che – come suggerisce la nota di Marco Giovenale – sono essi stessi mimesi di uno scavo stratigrafico, in cui «la distruzione dell’oggetto osservato» (p. 13) risulta inevitabile. Una distruzione che, paradossalmente, dà vita a una musica ritmata e talvolta elegante, specie grazie all’uso percussivo di schemi, enumerazioni ed elenchi, rafforzato dalla scansione versale e dalla disposizione grafica. Come in questo passaggio, che esemplifica le tecniche e i motivi (ma anche il pathos) del libro (p. 23):
 
condizioni che impediscono o rendono difficile la vita:
1. assenza
2. denaro
3. autotrofia
 
da una parte
lo scavo tecnico del mondo
 
dall’altra installazione inclusa nell’offerta
pacchetto #1: pietra
pacchetto #2: fiore
pacchetto #3 : detrito + detrito
 
Tra cancellazioni, formule, pagine stipate o bianche, la poesia di Menicocci rimane ancorata a una speciale forma di “pietà” per gli scarti, per i detriti e i fossili, per le lingue e le cose travolte dalle crudeli superfetazioni del divenire. Una pietà che, tuttavia, non ha niente di consolatorio, ma si rovescia in una condanna della vita e del suo “evoluzionismo” culturale e biologico, come prova il sabotaggio della celebre massima attribuita a Bernardo di Chartres: «Siamo come nani sulle spalle dei giganti (colluvie), e (non) possiamo vedere più cose e più lontano, nonostante siamo sollevati e innalzati dalla loro gigantesca grandezza» (p. 73).
Il secondo libro che prendo in esame è Sespersa (Vydia editore) di Alessandra Carnaroli, autrice egualmente engagée e “di ricerca” ma dallo stile esuberante e anti-intellettualistico. Vicina alla creatività irriverente di Aldo Nove, Carnaroli dedica i suoi libri a motivi di grande impegno sociale, affrontandoli con un verso pungente e comunicativo. Se spersa è dedicato a un aborto spontaneo e alle sue difficili conseguenze. La scelta del tema ha un sapore combattivo e apertamente femminista: l’immaginario poetico-letterario sulla donna, infatti, è spesso dominato da stereotipi antichi e rassicuranti (la donna-angelo, la donna soggetto/oggetto d’amore, la femme fatale, la madre che accoglie ecc.), ma perlopiù evita di discutere le reali e spesso spinose dimensioni della maternità. Sespersa, invece, affronta di petto il problema, denunciando con amara ironia le ricadute psicologiche di una gravidanza interrotta: «s’è spersa / come qualcosa / di cui hai colpa / persa la rotta / segnata / dalla prima donna / a quattro zampe / nella foresta» (p. 15). L’impossibilità di funzionare come macchina riproduttiva mina alla radice la filogenesi della donna, riassunta poco più avanti in modo sintetico e disturbante: «[da insetto sterile / per il controllo / delle specie dannose / a lupa di roma]».
La raccolta presenta un impianto narrativo e poematico, rafforzato dall’uso della prima persona e dall’assenza di titoli per i componimenti. I singoli testi funzionano come piccoli quadretti che – partendo da parole o dettagli materiali – registrano passo passo il decorso psicofisico del trauma. Abbiamo così la trasfigurazione “cannibale” dell’aborto («un’esplosione forse nel mio utero / una mina antiuomo o uoma / anti feto lungo 7/8 centimetri», p. 43); la descrizione del raschiamento, insieme cruda e compassata («questa parola onomatopeica come ribollire / che sa di metallo e lama / quindi coltello / usato per grattarmi la pancia» (p. 29); un asciugamano che «appoggiato sulla sbarra / del letto fa la spaccata» (p. 31).
Col ritorno a casa i sensi di colpa e le aspettative tradite si fanno più pressanti: l’autrice rende la voracità del trauma, il suo prendersi ogni spazio disponibile, dalla sfera affettiva («il padre mancato / mi ha cucinato un brodino […] ora è solo fidanzato e cuoco», p. 41) alla quotidianità minuta («al supermercato […] / non prendo il numero / compro già imbustato / come placente intatte», p. 38). Passato il brutto momento, è subito ora di cercare una nuova gravidanza. Si inaugura, così, una penosa trafila, tra visite mediche e comici tentativi di training autogeno («devo pensare a questa cosa di stimolare / le mie ovaie alle produzione / come gallina / covo nel letto», p. 46). Il libro si conclude con un happy ending e – forse grazie all’uso della procreazione assistita – la protagonista viene finalmente «baciata dalla specie» e smette di sentirsi in difetto (si veda la poesia a p. 67, ma anche la prefazione di Helena Janeczek).
Sespersa combina realismo narrativo e denuncia culturale grazie a scelte stilistiche piuttosto efficaci, tra cui l’uso di un’ironia obliqua e grafitante, l’altalena stilistica tra Witz e trash, le rime facili da filastrocca. Si vedano, inoltre, le molte, amarissime freddure, come la sentenza beffarda e foucaultiana «domani visita / di controllo / sul mio / corpo» (p. 36); l’aforisma disfattista «di materno / ho il diploma di scuola» (p. 57); il calembour sullo stigma sociale «ormai ho accettato il mio stato non interessante / per gli altri» (p. 59).
La raccolta ci spiega i “lati oscuri” della maternità – specie quelli legati alla pressione delle aspettative – mostrando un caso fin troppo esemplare. Attraverso tale provocazione, Carnaroli aiuta a innovare un immaginario stantio, duro a morire anche presso il lettore forte e progressista.
L’ultima raccolta che ho scelto, infine, ci trasporta in uno scenario neoclassico e senile. Nel suo Historiae (Einaudi, 2018) Antonella Anedda si appella al «grigio libro di Tacito» (p. 34) per riflettere sull’«ingiuria degli anni», oltre che per denunciare i disastri dell’attualità, dal Medio Oriente in fiamme, ai barconi di migranti fino ai terremoti del centro Italia. Antonella Anedda ha esordito negli anni novanta con Residenze invernali (Crocetti, 1992) ed è stabilmente inserita tra i poeti canonici degli anni zero. La sua maniera è apertamente lirica e il suo stile è semplice, come dimostrano la medietà linguistica, l’affabilità referenziale, la carica di pathos che attraversa i suoi testi.
In Historiae tuttavia, il “volume” lirico dell’Anedda si smorza, salvo in qualche testo epifanico di impianto montaliano. Tale sordina è il risultato di un sapiente calcolo degli ingredienti, un’operazione di cucina poetica (la cucina, del resto, è luogo ricorrente nella domesticità sbiadita della raccolta). Testo dopo testo, crepuscolarismo e classicismo, respiro civile e cronaca familiare si mescolano e compensano a vicenda. Il risultato è una sorta di immobilità, di equilibrio dinamico che non esclude picchi lirici, presenti, per esempio, nei molti testi dedicati all’assistenza e al lutto della madre. Tale distacco della poetica simula l’atarassia che è possibile sperimentare nell’età senile: una condizione di serenità e di autonomia nei confronti dell’esperienza. A questo proposito si vedano la chiusa di Dicembre («Forse la letizia / di cui parlano i santi e che non chiede niente, / è solo attenta, premuta sulla terra, distante dalle stelle», p. 15) o i versi di Anatomia, in cui l’Anedda loda gli scheletri, le ossa («il realismo glabro dell’anatomia») e invoca una liberazione dai sentimenti: «Per il paradiso forse non c’è strada migliore / che ritornare pietre, saperci senza cuore» (p. 77).
L’atmosfera della raccolta, dunque, è decisamente e dichiaratamente purgatoriale: una terra di mezzo fatta di «resti da cucinare, immondizia, piatti da lavare» (Te lucis ante, p. 78). Con questo spirito un po’ compassato, Historiae ci accompagna di fronte alle ferite dell’attualità («Lo sai, alcuni fuggono, altri sono macellati nel sonno. / A Levante il rosso confonde il nostro Occidente. / Il sangue stinge nell’Eufrate», Ghazal, p. 63), ma anche a colloquio con la sofferenza fisica, teneramente apostrofata in un rifacimento baudelairiano («Spegnetevi dolori […] Siate gentili durare tanto a lungo non è saggio», Sois sage, p. 47).
La rassegnazione serena di Historiae, tuttavia, non ha niente della resa o della facile consolazione, e non nasconde il rimpianto del tempo andato e del canto rotondo. Neppure le evocazioni del passato, come Opere, in cui l’ago della madre sarta pare cucire e intessere anche la vita della figlia, indulgono nella nostalgia. La postura emotiva di Historiae, invece, esortando all’analisi e al distacco, annoda l’esperienza del singolo a quella di molti. Tale dimensione collettiva torna con prepotenza e dolcezza in una delle poesie dedicate alla morte della madre, in cui l’andamento narrativo e monologante è complicato da un moto abnorme della sintassi. Nel mezzo di una lunga e faticosa ipotesi controfattuale, Anedda vira il dolore di uno in desiderio di tutti, per poi continuare la sua lotta privata col rimorso.
 
Se avessi avuto più tempo là nel buio estivo
con l’edera che filtrava dalle grate
nella camera che chiamano ardente per i ceri
o il rogo che ci attende, o forse davvero per l’ardore
con cui chiediamo a chi ci lascia: resta,
le avrei detto cose semplici, quotidiane,
per l’ultima volta toccandole le mani.
(Artica, II, p. 52)