Lettori migranti

Dove sono i lettori? Ce ne sono sempre meno oppure stanno migrando in un territorio di comportamenti e di linguaggi dove occorre seguirli e, se si riesce, precederli?

 

Alla vigilia del 2020 ha suscitato qualche giustificato scalpore un articolo di Livio Marchese pubblicato sulla rivista «Gli asini», intitolato Noi e gli zombetti, in cui l’autore, insegnante profondamente provato dalla mission impossible di instaurare un rapporto costruttivo con i suoi studenti, traccia un ritratto della generazione Z colorito quanto apocalittico.

Al di là delle successive precisazioni dello stesso autore e traslando l’argomento in campo librario è facile porsi la domanda: parlando di libri e lettori, non è che gli zombetti sono tutt’uno con precedenti generazioni francamente zombie (millennial, post-millennial, generazione X)? Tutti uniti nella fuga dal libro che erode il numero dei lettori e tende a ridurre le tirature, aumentando gradatamente il prezzo per garantire la sopravvivenza dell’industria editoriale. Tutti uniti nel premiare comunque le opere di Fabio Volo come i film di Checco Zalone, in un surfing di fruizione istantanea che precede il passaggio a consumare altri prodotti culturali.

Se, per capire meglio la realtà, ci si affaccia alla finestra a guardar fuori (fuori dal mondo del libro), da vicino – nel settore dei quotidiani cartacei italiani – il panorama è forse ancora più disastroso. Si veda la spettacolare animazione di YouTrend sul calo della diffusione media nazionale negli ultimi anni. Più in generale la diffusione dell’informazione e il dibattito sui temi d’attualità (politica, sentimenti, giudizi storici e via dicendo) si sono definitivamente spostati da canali unidirezionali (televisione) a canali bidirezionali e interattivi (social) cui negli scorsi anni novanta un esperto di comunicazioni di massa non ingenuo come Derrick de Kerckhove preconizzava un futuro di “intelligenza connettiva” e democrazia comunicativa. Oggi la situazione reale è parecchio più complessa, con un Facebook e un Instagram sempre più infeudati alla comunicazione promozionale o autopromozionale (da quella tradizionale, di prodotto, a quella politica, di cui anche i post di insulti sono una componente), e un Twitter che oscilla tra le battute comprensibili a circoli più o meno chiusi di vario livello culturale e una funzione di servizio – indubbiamente positiva – sugli orari dei servizi pubblici.

Per essere realisti: ovviamente la crisi della carta non è la crisi della lettura, il terreno su cui si gioca la partita della lettura è un paesaggio composito in cui convivono un cartaceo indebolito ma non sconfitto e un digitale le cui promesse escatologiche non sono certo state mantenute, ma che comunque mette a portata di mano strumenti ricchissimi. Recuperare terreno nella diffusione della lettura implica necessariamente un adeguamento alle condizioni di questo terreno vario.

 

La lettura non è un’attività solitaria

Il primo dato mi pare sia l’ormai consolidata mutazione dei comportamenti del lettore: dalla lettura individuale alla lettura sempre più colorata di rapporti interpersonali e collettivi. Il successo di massa di Bookcity Milano si fonda anche sul portare alla luce (e al mercato, perché no?) una miriade di interessi diversi, ciascuno comune a un piccolo ma fortemente motivato gruppo di persone. Il che conferma un dato da sempre fondamentale: il libro (cartaceo o e-book) è trasparente rispetto al medium. Il lettore bada direttamente ai contenuti, non al canale da cui gli arrivano. Quello che conta non è la lettura, è il lettore, il contributo individuale che questi ritiene di trovare in un certo libro. Il libro dovrebbe saper sfruttare il carattere specifico dei social media: mettere in comune le individualità, scoprire condivisioni e suscitare dissidi (un flame a proposito di un libro, oggi come oggi, è un successo di marketing…).

Potrebbe quindi essere una strada da battere quella delle iniziative che rafforzano la socialità della lettura, partendo da esperienze attuali che si potrebbero definire – non appaia desueto – “militanti”: come quella delle Donne di carta, che si riuniscono come “persone libro” per tenere letture pubbliche (anzi, recitazioni pubbliche, dato che imparano a memoria e ripropongono brani interi dei libri che scelgono di volta in volta).

Sono uno strumento utile o solo una conseguenza di un clima di emergenza della lettura? Non a caso l’idea centrale viene da Fahrenheit 451. Ma è comunque una soluzione di lettura condivisa.

Più tecnologica è la versione Instagram dei tradizionali club di lettura anglosassoni: per partecipare basta inserire nel proprio post gli hashtag #books o #bookstagram, cui Mashable Italia attribuisce rispettivamente 38 e 40 milioni di post nel mondo. Il loro merito è di essere più agili dei siti come Anobii, che puntano non tanto alla lettura in comune quanto a rafforzare attraverso recensioni e dibattiti la reputazione di un titolo, e richiedono una gestione accurata, quasi da ufficio stampa.

Questi club della lettura digitali sono uno strumento in grado di coinvolgere più profondamente le persone, cui permettono di parlare facilmente di un certo libro e di sé, più efficace rispetto all’uso che di norma fanno gli editori dei social media: dirette Facebook di presentazioni di libri, inviti a incontri in libreria, post di lancio di un titolo. Tutte sostanzialmente versioni digitali, ma ancora monodirezionali, del biglietto d’invito cartaceo del tempo che fu.

Se il succo positivo di Internet è la partecipazione, i nuovi lettori si conquistano non semplicemente comunicando, ma stimolandoli a partecipare. Con qualche sfasatura di fondo in importanti strumenti digitali di lettura: valga per tutti il recente aggiornamento dell’app Libri di Apple, che dal 2019 presenta nel menu Letture, in fondo alla pagina, non solo gli ovvi “consigli per gli acquisti” ma anche gli Obiettivi di lettura: tempo trascorso in lettura e raggiungimento o meno del livello quantitativo quotidiano prestabilito, come nel jogging. Una strategia fondata sulla prestazione sportiva (e commerciale: più libri leggi, più libri compri), non sull’interesse per ciò che si legge. In questo è parente ed erede degli spot televisivi anni novanta sulla bellezza del leggere come attività in sé, dall’inutilità comprovata quanto quella di ogni iniziativa pubblicità-progresso.

 

Fare i conti con la tecnologia

Per ampliare la platea dei lettori occorre un pubblico tecnologicamente aggiornato? Verrebbe ovviamente da rispondere di sì, pensando che l’aggiornamento del software e dell’hardware (compresi, come si conviene, gli smartphone, i tablet e i router) dovrebbe essere un’abitudine ordinaria, mentre non lo è per la stragrande maggioranza degli utenti privati.

Ma bisogna tenerne conto come di un dato di fatto: la caratteristica di questi anni, per dirla con Massimo Mantellini, è la «bassa risoluzione», la disparità tra quello che la qualità della tecnologia (dallo sviluppo rapidissimo) offre e la nostra incapacità/non-volontà/inconsapevolezza/pigrizia nel non sfruttarla appieno e nell’accontentarci di risultati mediocri.

Il discorso cambia se si considera la controparte professionale dei lettori: gli autori e gli editori, per i quali l’aggiornamento tecnologico dovrebbe essere un fattore di sviluppo personale e imprenditoriale vitale.

All’inizio, negli anni novanta, la parola d’ordine era revamping: rivitalizzazione del catalogo attraverso la digitalizzazione dei testi, operazione costosa e lunga ma irrinunciabile, che ha traghettato i prodotti predigitali nel nuovo paesaggio e alla lunga ha ridotto i costi di produzione. Oggi i testi nascono digitali, ma barriere tecniche poste dalla competitività tra i grandi sistemi di distribuzione del libro digitale fanno sì che un e-book nato per un sistema di distribuzione/fruizione non sia sempre correttamente leggibile in altri sistemi e che i pur esistenti formati standard per gli e-book subiscano un’evoluzione e una differenziazione in specie e sottospecie numerose.

Le azioni che garantiscono al libro di carta un modo di fruizione unitario e condiviso da ogni lettore, quale che sia l’editore (dall’evidenza della suddivisione in capitoli alla consultazione dell’indice, al ritorno alla pagina che si sta leggendo), spesso sono, se non impossibili, non immediate da praticare con naturalezza in un e-book. È comunemente condivisa l’idea che sia più facile leggere un e-book di narrativa che non un e-book di saggistica, dove c’è maggior necessità di recuperare rimandi e informazioni, saltando rapidamente tra pagine anche lontane tra di loro.

La bassa risoluzione avvantaggia il primato del “design del libro” cartaceo evocato da Umberto Eco? O più semplicemente si tratta di un aggiornamento su cui gli editori non hanno investito abbastanza in termini di definizione e condivisione degli standard, e di formazione professionale di operatori redazionali e programmatori specializzati? Il risultato comunque non favorisce la facilità della lettura e quindi ostacola l’aumento dei lettori.

 

Fare i conti con il linguaggio

Ma c’è, per autori e editori, una fatica a adeguarsi al linguaggio digitale che va oltre l’aggiornamento della tecnologia (la quale, come si sa, non è mai neutrale ma ci cambia pensieri e vita): una perdita secca a discapito del mondo del libro e a favore di linguaggi più superficiali, meglio capaci di circolare in un contesto allargato.

Il mondo digitale (anzi, l’informatica) apre frontiere espressive ancora pressoché inesplorate, che non coincidono con la versione digitale del linguaggio narrativo o lirico cui siamo abituati (la versione e-book dei Promessi sposi, per intenderci). Vanno invece scoprendo modi nuovi di concepire la narrativa e la poesia, in cui lo strumento informatico non è un supporto, ma è intrinseco alla creazione letteraria. Un esempio per tutti: le Poesie elettroniche di Fabrizio Venerandi (Quintadicopertina-Nazione Indiana, 2016), che hanno trovato riconoscimento nel mondo della comunicazione digitale (la prefazione è di Gino Roncaglia) ma scarsissima eco al di fuori di esso.

Una sperimentazione interessante? Un classico esempio di avanguardia, si può commentare. Ma ogni avanguardia, alla lunga, ha un destino: quello di contribuire a cambiare il panorama letterario o artistico di tutti, e per questo occorre un percorso che per ora, nel caso dell’“espressività informatica” in letteratura e in editoria, non pare delinearsi.

Viene alla mente un caso relativamente recente di avanguardia artistica (che cos’è mezzo secolo per un’avanguardia che si rispetti?): l’arte cinetica e programmata degli anni sessanta. Un universo linguistico nuovo che usava la tecnologia dell’epoca per dare all’arte visiva una dimensione percettiva radicalmente differente. Oggi le esplorazioni di quegli artisti sono patrimonio culturale condiviso (da museo, nel senso migliore dell’espressione) e vivono quotidianamente integrate nel linguaggio della pubblicità e del cinema: manco ce ne accorgiamo più. C’è di mezzo un sessantennio in cui le idee dell’arte cinetica sono entrate gradatamente nella formazione artistica, sono diventate canoni e di lì sono filtrate nei linguaggi espressivi condivisi e nei generi visivi contemporanei. A Milano, in piazza del Duomo, l’albero di Natale 2019 era una declinazione, di successo ampiamente popolare, di concetti di programmazione del movimento e della percezione della luce che vengono palesemente da quell’avanguardia.

C’è un critico letterario o un editor che voglia fare per il linguaggio digitale della letteratura quello che, per citare solo alcuni nomi, hanno fatto negli anni recenti e meno recenti Gillo Dorfles, Lea Vergine, Marco Meneguzzo per l’arte cinetica e programmata? I cambiamenti espressivi vanno indirizzati dal lavoro di autori e editori che vogliano – rischiando culturalmente ed economicamente – precedere i cambiamenti e non seguirli.

Dei cambiamenti linguistici generali legati al digitale non si rendono conto i lettori, che li vivono inconsciamente. Ma se non se ne rende conto chi i libri li scrive e li pubblica, l’allontanamento dai lettori è la conseguenza inevitabile, non per inadeguatezza tecnologica, ma per inadeguatezza di linguaggio: si finisce per battere con i propri prodotti librari territori in via di spopolamento. Da qualche parte i lettori sono migrati. Aspettiamoli allo sbarco.

La ricetta (o la non-ricetta): più apertura culturale, più diffidenza sulla propria nozione acquisita di qualità del testo, più souplesse nell’applicare le strategie narrative e editoriali con intuito informato. Più fatica, anche, per star dietro a quel che succede fuori dell’editoria e nel grande pubblico.

Bella scoperta, no? Ma, come pare dicesse l’aviatrice Amelia Earhart, «il modo più concreto per fare una cosa è farla».