Albeggia una letteratura postindustriale

Dopo la grande stagione degli anni Sessanta la letteratura industriale, o meglio postindustriale, sembra sempre più smaterializzarsi e occuparsi solo occasionalmente della grande mutazione prodotta da automazione e computer. Il romanzo postindustriale nostrano, a differenza di quello d’oltreoceano, infatti, si muove tra incomunicabilità generazionale, rappresentazione di mestieri legati al digitale e al «general intellect» e nuovi personaggi metropolitani alla ricerca delle radici della propria quotidiana infelicità.
 
Come negli anni Sessanta sembrò esserci la fioritura della «letteratura industriale», in concomitanza con il boom economico, potremmo chiederci se oggi, dentro la società dell’informazione e dei servizi, emerge una narrativa capace di raccontare le nuove modalità del lavoro, la scomparsa degli operai e il precariato diffuso (una letteratura postindustriale?).
I titoli non sono tanti, ma vorrei segnalare i libri che mi sembrano più interessanti: da una parte la collana Derive/ Approdi, con La fabbrica di paraurti di Paolo Nelli e Bassotuba non c’è di Paolo Nori, dall’altra Angelo Ferracuti con Attenti al cane, Andrea Carrara con La ragione del più forte e Sebastiano Nata con La resistenza del nuotatore. Non sempre in queste opere troviamo ambienti di lavoro precisi, descritti in modo accurato, ma nei personaggi che mettono in scena ci sembra di cogliere alcuni caratteri di fondo della civiltà postindustriale. In particolare il senso di una pervasiva, morbida irrealtà (ben al di là della classica «alienazione» industriale), alla quale si tenta di opporre l’unica «realtà», irriducibile, della morte (come già avveniva qualche anno fa nel notevole, e forse incompreso, Talk show, di Luca Doninelli).
 
Un passo indietro
A cominciare da un fascicolo monografico del 1961 della rivista «Il menabò» diretta da Elio Vittorini, innumerevoli pagine sono state dedicate ai rapporti tra letteratura e industria negli anni del boom economico italiano e della più rilevante trasformazione antropologica del nostro paese dal dopoguerra. Proprio Vittorini, nell’editoriale, auspicava una letteratura capace di stabilire un nuovo rapporto con il linguaggio: in questo senso la francese e sperimentale «école du regard» gli sembrava «molto più a livello industriale» di tanti romanzi che avevano per argomento le fabbriche. Certo in quegli anni uscirono varie opere in qualche modo legate al nuovo tessuto sociale ed economico. Bisogna citare al riguardo almeno i libri di Luciano Bianciardi (La vita agra, 1962, su un intellettuale di provincia che parte per Milano con il progetto di abbattere il grattacielo Pirelli), di Lucio Mastronardi (Il maestro di Vigevano, 1962 – e l’intera trilogia dedicata alla città lombarda), di Ottiero Ottieri (Tempi stretti, 1957 e Donnarumma all’assalto, 1959, diario di uno psicologo addetto a scrutinare test aziendali), di Italo Calvino (Marcava/do ovvero le stagioni in città, 1963 – ma le fiabe-racconto con Marcovaldo protagonista risalgono agli anni Cinquanta), di Goffredo Parise (Il padrone, 1965), di Giovanni Testori (Il ponte della Ghisolla, racconti, 1958) e anche di Giuseppe Pontiggia (La morte in banca, 1959). Opere anche molto diverse tra loro, ma che tutte hanno tentato di disegnare, attraverso le scelte espressive più varie (dalla mimesi neorealista a un grottesco espressionista), una attenta fenomenologia della nuova «civiltà» industriale, delle nuove modalità di organizzazione del lavoro e anche delle forme di alienazione a queste connesse. Ma chi ha saputo raccontare le condizioni del lavoro nella società postindustriale e terziarizzata che stiamo vivendo, dopo che si è compiuto l’ultimo grande ciclo di lotte operaie, nel 1969, legate alla fabbrica fordista e alla catena di montaggio, di cui troviamo traccia in Vogliamo tutto di Nanni Balestrini? La produzione industriale stessa tende a smaterializzarsi (la merce più importante di tutte è diventata l’informazione, la conoscenza … ); la caratteristica di quasi ogni lavoro (sia esso «intellettuale» o meno) è l’importanza crescente che assumono le relazioni interpersonali, la comunicazione continua tra reparti diversi (con i requisiti richiesti: mobilità psicologica, flessibilità, estrema adattabilità … ). E anche se la fabbrica non è scomparsa dall’orizzonte della nostra società (vedi l’autobiografico Mammut di Antonio Pennacchi, con una descrizione quasi «chapliniana» di macchinari e operazioni lavorative), automazione e computer hanno prodotto una mutazione antropologica senza precedenti, solo in minima parte rispecchiata dalla letteratura (e di computer ne troviamo anche nelle Mosche del capitale che Volponi ha scritto negli anni Ottanta). Negli anni Novanta sono usciti vari romanzi sui nuovi lavori precari, dal pony-express al fattorino e al giovane sottoccupato (Mozzi, Spinato, Voltolini, Culicchia ), ai top-manager di agenzie di carte di credito (Il dipendente di Sebastiano Nata, in qualche modo accostabile all’Assicuratore di Mastronardi, del 1975), sulle molteplici forme di lavoro «nero» (Angioni), sul mestiere stesso di giornalista e romanziere (De Carlo), sull’immigrazione extracomunitaria (i libri scritti a quattro mani da Mario Fortunato e Salah Methani, da Pap Khouma e Oreste Pivetta). Nell’alienazione «postindustriale», ha osservato il sociologo americano Daniel Beli, il lavoratore dipende non più da una macchina e dai suoi ritmi, ma da altre persone (una schiavitù a ben vedere forse più insinuante). Eppure non disponiamo ancora, a proposito di questa inedita forma di alienazione, di un libro importante e rappresentativo almeno come il già citato Padrone di Parise. Come ho avuto già modo di osservare, la nostra narrativa più recente appare sociologicamente unidimensionale, caratterizzata cioè da personaggi che assomigliano troppo esclusivamente ai loro autori: scrittori, intellettuali, docenti, redattori editoriali, ecc. Al romanzo di Parise può essere avvicinato, almeno tematicamente, uno dei racconti di Giulio Mozzi (L’apprendista), in cui si parla di un caso singolare di «toyotismo», di affezione totale, fanatica al padre-padrone. Però le pagine di Parise si imposero allora non solo per il «soggetto» ma per la loro carica fortemente innovativa sul piano espressivo (la capacità, ad esempio, di mescolare creativamente Kafka e il fumetto, la letteratura alta e i materiali «bassi» della cultura contemporanea).
 
Tecnologia rattoppata e bricolage artigianale
Da noi hanno avuto poco sviluppo le rappresentazioni molto cyberpunk di un futuro ipertecnologico che recupera però il bricolage e i mestieri artigianali. Pensiamo soltanto al protocyber Philip K. Dick, nella cui opera l’abilità a riparare è essenziale per qualsiasi sopravvivenza, e poi a Ballard e alla sua estetica dei rottami (in Crash, del 1973, sono i corpi umani a essere continuamente riparati e rattoppati) e ai vari Gibson e Sterling (dove il recupero della manualità appartiene alla controcultura e al popolo dei bassifondi, contro le multinazionali e le corporations) e ancora a un consistente filone cinematografico, dalla trilogia di MadMax a Waterworld, che si apre sul protagonista «mutante» e vestito di pezze che, su una solitaria zattera a vela fabbricata con scarti, si appresta a trasformare l’orina in acqua potabile attraverso un complicato meccanismo. Questa riscoperta della manualità in un futuro non lontanissimo presuppone però, a ben vedere, una catastrofe già avvenuta: dunque non uno sviluppo lineare, «pacifico» della tecnologia attuale, ma un’implosione, un punto di rottura, sia esso l’olocausto nucleare o un disastro ecologico tipo Chernobyl, ma molto più in grande. In una società prossima ventura, in cui l’intelligenza, la conoscenza (cioè qualcosa di immateriale) diventa la principale forza produttiva, in cui tenderanno a prevalere sempre più le professioni intellettuali e il terziario, in cui la produzione sembra appunto smaterializzarsi, si riscopre la necessità di un sapere manuale e di un’abilità pratica, di un «contatto diretto con gli oggetti» (Dick); e, in generale, si afferma una cultura del corpo e della fisicità, dalle arti marziali al piercing: ovvero bricolage del proprio corpo. Così, il nuovo soggetto del lavoro, l’ «operaio sociale» che secondo la fantasiosa teorizzazione di Antonio Negri e Michael Hardt è il cyborg, «un ibrido di macchina e organismo», si muove in una zona di confine tra materiale e immateriale (il tema della invasione tecnologica del corpo e della mente è dominante in tutta la narrativa cyberpunk, e in particolare nello splatterpunk, con biorobot e transessuali), mentre al sapersi riparare da sé le cose, richiesto in futuro dalla sopravvivenza, può corrispondere un indurimento sul piano emotivo, un necessario economizzare le energie affettive, una cancellazione della memoria. A onor del vero in Italia sono usciti almeno due romanzi di fantascienza che riecheggiano con una certa convinzione, ma anche con fatale epigonismo, questo filone d’oltreoceano: mi riferisco ai recenti Nell’Anno della Signora di Carlo Formenti e al Centenario di Oddane Camerana.
 
L’incomunicabilità tra generazioni (Nori, Nelli, Ferracuti)
«Io sono quello che non ce la faccio. Io sono stanco, anzi, stanchissimo … io sono esaurito … sembro vivo, ma sono morto. Oppure no». Così comincia, con un’anafora un po’ petroliniana e molto musicale, l’opera prima del parmigiano Nori, nato nel 1963. Il protagonista Learco, che fa il magazziniere e insieme aspira a pubblicare un romanzo, oltre a «essere sotterrato da una storia sentimentale finita male» (è stato lasciato dalla sua ragazza, Bassotuba), sembra avere caratteri inconfondibilmente autobiografici (almeno per il riferimento alla doppia attività lavorativa). Learco è esperto di letteratura russa, ha stampato il suo secondo romanzo, scrive continuamente su taccuini, ha familiarità con autori e tendenze culturali contemporanee (Wenders, Pasolini, Vattimo … ), suona la tromba in un gruppo folk, nutre qualche dubbio sul fatto che gli scrittori «producono» e lavora, grazie all’intercessione di un amico, dentro uno strano magazzino dove tutti si chiamano «lupo». Tra visite a meravigliosi supermercati, libri anarchici, corsi di pensiero positivo (e la malattia del padre – che va a Bologna a fare la chemio -, un tema ricorrente nell’ultima narrativa), messaggi alla segreteria telefonica, dialoghi del protagonista con gli angeli, traduzioni dal francese, si snoda una trama fatta di niente e scorre la scrittura secca, paratattica dell’autore, che affida alle figure della ripetizione i suoi umori comico-grotteschi. Il romanzo si impone sia per una sua inconsueta «verità» sociologica (Learco fa mille mestieri, ma il suo lavoro manuale di magazziniere lo strema e infatti è ossessionato dal tempo, perché deve lavorare tutti i giorni dalle 6 del mattino … ), sia per una sua svagata, divertente leggerezza, per un suo lunare umorismo, con quel finale tutto «aperto» (chi narra è seduto sul water e parla al telefono con un’amica). Una leggerezza a volte eccessivamente ostentata, di imbarazzante fragilità. «Mi sveglio alle cinque trallalà. Faccio il bagno trallalà. Prendo un caffè trallalà. Mangio un panino trallalà. Con il formaggio trallalà … »: alla fine quella irresistibile leggerezza, che tutto consuma con allegria menefreghista (post-tondelliana?) e che dovrebbe tra l’altro proteggerei dalle pene d’amore, ti fa sentire scarico, quasi «morto» trallalà …
Negli ultimi decenni si è avuta nel nostro paese quella fine del mondo che hanno rappresentato molti grandi scrittori (la Morante, Zanzotto, Pasolini). Proviamo ora a vedere questa fine del mondo (o di un mondo) per così dire dal basso: « … e io mi chiedo come cazzo è possibile aver resistito tutto quel tempo, capisci, a fare sempre le stesse cose sempre con le stesse persone». Così si esprime il trentenne co-protagonista dell’opera di esordio di Paolo Nelli, La fabbrica di paraurti, a proposito di un operaio sessantenne ora in pensione. Il libro, diviso in due distinti monologhi, registra in modo impassibile il salto antropologico tra due generazioni di operai, la diversità abissale di visione del mondo, di pensieri, di stili di vita. Certo, neanche nel sessantenne, ex operaio alla catena di montaggio, ritroviamo più l’etica del lavoro e l’orgoglio professionale dell’artigiano. Però il suo orientamento totale, «egoistico», sui consumi è ancora poco consapevole di sé, quasi vergognoso, umile, sempre legato alla famiglia. Il giovane invece rivendica il suo consumismo individuale gioiosamente e rumorosamente: è arrogante, del tutto cinico (si divide tra coca, discoteche a Rimini, puttane, poker, film porno, risse e atti di teppismo), vagamente berlusconiano («avrà anche rubato ma chi non l’ha fatto?»), aggressivamente consapevole del suo diritto al consumo illimitato («io penso che ognuno deve essere libero di fare più soldi che vuole dandosi da fare»), più cosmopolita (pensa di andare a Cuba, «che le fighe ti corrono dietro»), senza famiglia o ingombranti storie sentimentali. Il vecchio, che si affida al «caso» della schedina, esplora il mondo febbrilmente e niente vuole lasciare al caso (ricerca sempre l’ «occasione giusta», come si conclude il libro). La «resa» letteraria mimetica è efficace e alcune pagine sono strazianti proprio in quanto non sentimentali, come quella in cui il vecchio operaio riceve dalla fabbrica un dono natalizio diverso da quello richiesto dalla figlia; o quando il «giovane» si sveglia la notte col prurito alle mani, «come se una marea di formiche rosse mi stava rosicchiando la carne», poiché deve mettere le mani nei solventi (altro che produzione smaterializzata!). Ma il pregio del libro consiste soprattutto nel descrivere, senza giudicare, il nuovo tipo umano che caratterizza oggi il paesaggio metropolitano: è interessato solo a consumare, senza neanche più la leggerezza coatta di Learco (e consumare qualsiasi cosa: merci, sesso, rapporti, amicizie, droga). E la pietas dell’autore nei suoi riguardi deriva dal fatto che lui non ha «scelto» tutto questo e non sente affatto la mancanza di legami affettivi o scopi ulteriori. Perciò è innocente.
«Non c’è persona più triste di un uomo solo in trattoria … ».
Di una estrema, irredimibile solitudine, e di una non-comunicazione generazionale, ci parla anche Ferracuti in Attenti al cane. Il suo postino di provincia (sei ore al giorno, orario continuato e stipendio modesto) si appropria della corrispondenza che dovrebbe smistare (ma ha il terrore di essere licenziato) perché è attratto dalle esistenze degli altri, di tutte quelle persone senza volto che intravede magari solo per un attimo quando consegna le lettere, e sulle quali ama fantasticare. Eppure la scena decisiva del libro, che si compone di tante microstorie ed è abitato da una folla di «persone comuni» inedita per le patrie lettere (si pensi invece a un Carver) è l’incontro con il padre, basso e smagrito, ricoverato all’ospizio, in cui i due, tra una frase smozzicata e una premura filiale, non riescono a raccontarsi più nulla, non ne hanno voglia. A quel punto si apre un vuoto, una voragine incolmabile, lo schiudersi di una richiesta silenziosa e non esaudibile, cui fanno da pendant tutte quelle buste vuote e aperte, senza affrancatura, che qualcuno per tre anni misteriosamente imbuca.
 
La morbida irrealtà del lavoro … (Nata, Carrara)
«Anche se sulla diminuzione del tempo consacrato al lavoro ho perso tutte le speranze e so che le idee di Keynes e Russel rimarranno un sogno, da diversi giorni mi dedico meno a Transpay» (dalla Resistenza del nuotatore).
Anche il romanzo di Nata, come quello di Ferracuti, si conclude con una richiesta del padre al figlio. «Allora resti?», chiedeva al figlio, postino, il vecchio affetto dal morbo di Parkinson e ricoverato in un ospizio. Mentre la richiesta che a Matteo Fineschi rivolge il padre, ex chirurgo e ora agonizzante, appare molto più drammatica: «”Aiuto” dice papà “Ho le gambe di burro. Cado. Mettimi subito a letto”». I protagonisti dei romanzi di Nata e Carrara, pur diversissimi tra loro e come sorpresi dentro cornici narrative diverse (melodramma, commedia … ), hanno qualcosa che li accomuna: sono dei single, lavorano tutti e due (con ruoli e responsabilità certo diversi) in un settore dei «servizi», tendono a stabilire con i propri genitori (il padre o la madre) un rapporto insieme di forte dipendenza e di rifiuto, ma soprattutto si trovano a dover fare i conti con qualcosa di molto reale (la morte) rispetto a cui il lavoro fa affiorare la propria strana irrealtà, alienata e insieme protettiva. Si tratta di romanzi che certo si limitano a sfiorare il mondo del lavoro (banca o società di carte di credito), ma che sono ugualmente avvolti entro un senso luttuoso e anche straniato dell’esistenza, che in qualche modo si riflette nel linguaggio e nel tono narrativo (come di un destino che accomuna i personaggi, inerte, fiacco ma inesorabile). Certo tutti e due, ben distanti dalle suggestioni cyberpunk, ci mostrano come nell’immateriale della produzione attuale (in questo troppo «pieno», fasullo e illusorio) si insinua come una tendenza a cercare qualcosa di «reale», di non manipolabile né controllabile, nell’unica direzione possibile, cioè quella del vuoto, della morte.
«Nell’era digitale quelli in gamba scuola Citybank lavoreranno quanto lavorano adesso, non le tre ore volute da Keynes, gli altri, le mezze calzette, perderanno il posto … »: Nata sembra celebrare con amarezza il naufragio di tutte le generose utopie sulla fine (o ridimensionamento) del lavoro da Keynes fino a Marcuse. No, le ore di lavoro non sembrano proprio diminuire, né per i postini e i magazzinieri (che forse perderanno il lavoro), né per i top manager. Le riunioni alla Transpay aumentano e, come abbiamo visto, creano maggiore dipendenza dei ritmi imposti dalle macchine. Si tratta di una «irrealtà» ben remunerata, e che appare fondata su una sorta di deconcentrata attenzione. Tanto che Matteo Fineschi vi contrappone la «concentrazione» richiesta dall’apnea, e, al contrario del postino, tenta di avvicinarsi al padre, e lo fa nell’unico modo che gli riesce: con le nuotate, riproducendo alla fine, volontaristicamente (e dunque un po’ artificiosamente), le stesse sensazioni di dolore fisico.
Andrea Carrara nella Ragione del più forte ci presenta il borghese piccolo piccolo Gregorio, inetto, irresoluto, risentito verso il mondo. Ne descrive il luogo di lavoro (una banca) in modi realistico-grotteschi e poi lo precipita in una vicenda drammatica, in cui si consuma la rinuncia all’utopia dell’amore adolescente, riflessa per un momento negli occhi chiari della bellissima Sonia. Gregorio ha infatti l’opportunità irripetibile di uscire dalla confortevole irrealtà del lavoro e della convivenza con la madre (il «donnone») e poi dalla propria molle, lacrimosa cattiveria, attraverso la realtà (felicemente destabilizzante) di un rapporto con l’Altro (la futura moglie, «comprata» attraverso un’ambigua agenzia matrimoniale e venuta dall’Est). Ma non ce la fa, si sottrae.
La novità di questi romanzi non consiste dunque nel rappresentare i nuovi mestieri, legati al digitale e al «general intellect» (in questo senso Nata appare il più «futuribile»), ma nel mostrare alcune «risposte» individuali, contraddittorie e concretamente vissute, a uno «spirito del tempo» che passa anche attraverso il lavoro. Naturalmente postini, magazzinieri e bancari esistono da alcuni secoli (anche se prima non leggevano e non scrivevano in misura così abnorme … ), ma oggi è mutata la loro percezione di sé (e del lavoro). E così nel mondo della produzione smaterializzata i personaggi della nostra narrativa, malinconici cyborg metropolitani, sembrano cercare, paradossalmente, un rapporto (impervio, problematico ma almeno reale) con le radici della propria stessa infelicità.