I cantanti che sanno scrivere

Jovanotti; Ligabue, Guccini, De André, Vecchioni: non solo cantanti, ma anche scrittori con diari e romanzi di grandissimo successo di pubblico e talora anche di critica. Un modo per gli editori di «acchiappare» il pubblico giovanile presentando i loro idoli musicali come giovani autori esordienti, però con la stessa cura e la stessa promozione usate per il lancio dei dischi.
 
«Il deserto ti svuota la testa, non è un posto di pensiero, è un posto che annulla il pensiero. Il tempo si adegua allo spazio e lo spazio è senza fine, senza punto di riferimento, è aria e luce (ora ho capito che cosa intendeva Ferretti quando diceva che il confine è d’aria e luce)». Per sapere dove è andata a finire la letteratura italiana di questo fine secolo, forse bisogna anche cominciare da qui: da questo deserto, «non è importante che sia il Sahara o qualcos’altro, è un deserto e basta». Partire dalle quattro frasi iniziali del diario di un ragazzo che ha letto Chatwin, Sepulveda e Latinoamericana, il diario in motocicletta del Che, e adesso, scaraventato in un deserto qualsiasi, ci racconta la sua esperienza come se niente fosse successo prima, come potremmo ascoltare una canzone intorno a un fuoco d’estate …
Uscito nell’inverno scorso nei «Canguri», la collana di letteratura della Feltrinelli dedicata per lo più agli esordienti, Il grande Boh! di Jovanotti ha spopolato. Più di 50.000 copie vendute, buone critiche. Facile, ha detto qualcuno. Ma davvero il successo di questo diario di viaggio, tra il deserto e la Patagonia passando per la cronaca del suo matrimonio o la preparazione di una tournée, sta solo lì, nel fatto che lo ha scritto Lorenzo Cherubini, in arte, dai tempi de «La mia moto», Jovanotti?
«Fu trovato in un fosso. Immerso a metà. A testa in giù. Sotto un cavalcavia nei pressi di Carpi. Capirono che era lì da almeno tre giorni. Sufficienti perché nessuno potesse riconoscerlo». Così Ligabue, il Ligabue di «Lambrusco e popcorn» che con Fuori e dentro il borgo ha realizzato l’altro grande exploit editoriale di un cantante-scrittore, tentando una via ancora più difficile: il racconto diretto della sua esperienza giovanile. Un libro da cui è stato tratto un film, Radiofreccia, scritto e diretto dallo stesso Ligabue, come il libro, più del libro, molto visto, ben criticato, apprezzato …
Il fenomeno dei cantanti-scrittori, autori non di una loro autobiografia ma di un’opera letteraria che abbia un valore in sé, non è nuovo in Italia. Si è sviluppato soprattutto negli ultimi dieci anni con almeno tre dei cantautori della generazione dei 45-55enni. Da Francesco Guccini, che all’inizio ha firmato i suoi libri da sé e poi con Lariano Macchiavelli, sino a Roberto Vecchioni e Fabrizio De André. I due libri di Jovanotti e Ligabue, tuttavia, presentava un elemento di novità, collegando queste prove ad altri fenomeni verificatisi nella recente letteratura italiana.
Francesco Guccini, modenese, che dalla metà degli anni Sessanta ha pubblicato diciassette album, ha preso sin dall’inizio molto sul serio la carriera di scrittore. La sua sperimentazione letteraria inizia alla fine degli anni Ottanta con Cròniche Epafàniche, cui sono seguiti Vacca d’un cane, Racconti d’inverno, con Giorgio Celli e Valeria Massimo Manfredi, La legge del bar e altre comiche e la serie dei libri con Lariano Macchiavelli, da Macaronì a Un disco dei Platters. Partito con un progetto autoriale forte, con romanzi rivolti a un pubblico in crescita rispetto ad album come «Tra la via Emilia e il West» o «Via Paolo Fabbri 43», Guccini ha usato la letteratura per rinnovarsi, per svecchiarsi sul piano dei contenuti, prima affrontando il problema della lingua e poi, negli ultimi romanzi, quello della struttura della narrazione. I libri scritti con Lariano Macchiavelli, collocati in un’unità di tempo e luogo, l’Italia degli anni Sessanta e l’Appennino tasca-emiliano, con un personaggio come il maresciallo Santovito, ci introducono a una serialità da scrittore di genere.
Diversi i casi di Roberto Vecchioni e Fabrizio De André, i cui romanzi sono stati pubblicati nel 1996 da Einaudi. Nel caso di De André in particolare, l’attesa per questo libro annunciato da anni era molto forte, in considerazione del contributo dato dalla sua «voce poetica» all’innovazione della canzone italiana sia nelle coloriture del timbro, sia nell’impronta originalissima dei testi. Aspettative in parte disilluse proprio dalla diversità di timbro poetico nel tono del romanzo. Se Vecchioni, da solo, con Viaggi nel tempo immobile aveva tentato la carta della letterarietà pura, diversa era stata la sfida dell’autore di «Creuza de ma» . Scritto con Alessandro Gennari, Un destino ridicolo ci riproponeva, in gran parte, la storia stessa del cantautore genovese vista in controluce attraverso i «temi» di alcune sue canzoni, protagoniste indirette della narrazione (dalla prostituta, a Genova in via Pré, fino al pastore sardo, allo stesso protagonista Fabrizio che fa il cantautore e ama Brassens … ). Usciti nella prestigiosa collana dei narratori dello Struzzo, nonostante la notorietà dei loro autori, Un destino ridicolo e Viaggi nel tempo immobile si sono posti come opere dichiaratamente anti-popolari, andando in direzione opposta rispetto a libri come Il grande Bah! o Fuori e dentro il borgo.
Autori dei loro testi più che cantautori per definizione, Jovanotti e Ligabue hanno conquistato, negli anni, e attraverso passaggi molto diversi, credibilità di critica per la ricerca musicale, nel rap e nel rock, unita alla capacità di suscitare una sentita partecipazione del pubblico ai versi di canzoni che restano assolutamente «pop» (nel senso di popolari): un’identificazione scattata da parte di un’intera generazione-tribù con la messa in gioco dei temi del viaggio e della libertà in Jovanotti, della memoria e del racconto della provincia in Ligabue.
Nato a Correggio (Reggio Emilia) nel 1960, Ligabue ha dato voce con tutta l’energia che ha potuto, alla più genuina trasposizione nostrana di un rock springsteeniano, senza che le sue canzoni risultassero troppo artefatte da un maledettismo anfetaminico esagerato. Nel libro, e poi nel film, il cantante ha semplicemente trasfigurato il suo stile, in modo che la storia di Radiofreccia non risultasse datata agli anni Settanta (e quindi alla generazione precedente), ma senza pretese ideologiche si sintonizzasse sulla stessa lunghezza d’onda, parlasse lo stesso linguaggio del pubblico di «Certe notti», il suo più grande successo da stadio.
Jovanotti, che da «La mia moto» a «Capo Horn» è riuscito a ribaltare completamente il suo personaggio crescendoci «da dentro», come se la sua fosse stata l’evoluzione di un qualsiasi ragazzo che apre gli occhi oltre il mondo della discoteca, ne Il grande Bah.’, ha riproposto il suo giro della terra rappesco, l’universalismo positivo che gli ha fatto cantare che il mondo, «l’ombelico del mondo», è tutta «una grande Chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Con un occhio particolare, un debito riconosciuto, agli scrittori di viaggio, da Kerouac a Sepulveda: saccheggiati, citati, amati. Il rischio di scivolare nella cialtroneria, sfiorato in continuazione dal ragazzo di Cortona (Arezzo) nelle sue canzoni, si è riproposto anche nel «diario di bordo» che aveva in copertina i suoi disegni e le sue foto, a rivelare un altro contatto, quello della trasposizione visiva, con Ligabue che di Radiofreccia ha seguito tutte le fasi, anche della regia.
Racconti antiletterari, diari di un’esperienza di vita nella quale riconoscersi direttamente, narrazioni per frammenti o per flash, questi due libri involontariamente si pongono nella scia dei romanzi di alcuni giovani scrittori: sono in sintonia, per la freschezza e la novità, più con Brizzi e con Ammaniti che con i romanzi degli altri cantanti. «lo ho una piccola tenda, tre pagnotte, dieci litri d’acqua, questo quaderno, due penne, due libri, uno di Kerouac e uno di Dio, o per lo meno di gente che sostiene di conoscerlo bene» scrive Jovanotti nel suo libro, come potrebbe anche cantarlo in una canzone.
Coinvolgendo un pubblico di lettori molto simile a quello dei loro concerti, il vantaggio, rispetto agli scrittori giovani, è stato quello di un contatto già raggiunto e consolidato. Liberi dall’etichetta di cantautori di serie A, senza il peso di maestri della «chanson», al massimo guardando all’America o a MTV, Jovanotti e Ligabue, uno nato come dj e l’altro dalla radio, cercando nuovi spazi nella scrittura, non si sono sentiti schiacciati dal valore aggiunto della letteratura, consapevoli che restando fedeli a se stessi il pubblico sarebbe restato fedele a loro. Un’altra differenza rispetto agli anti-pop Guccini e De André. Se Guccini si è reso «altro» dalle sue canzoni pur mantenendo un tono regionale verace nel suo racconto (è presente in un carneo in Radiofreccia), De Andrè, forse, è arrivato troppo tardi al romanzo della sua vita, fuori dallo spirito del tempo, quando il profumo era svanito e gli echi di quelle canzoni straordinarie spenti e avrebbe potuto raccontare se stesso solo in una vera e propria autobiografia.
In conclusione. Da tempo i grandi editori librari cercavano un modo per acchiappare il pubblico giovanile con la musica, puntando su raccolte antologiche a poco prezzo come la collana Miti Musica della Mondadori o su biografie più o meno riuscite come quella di Vasco o i libri-moda di Ramazzotti. La formula del libro economico usa e getta, il ritratto della star preconfezionato modello giornale dei fans non ha funzionato nel momento in cui azzerava, rendeva dozzinale la personalità di un artista che aveva costruito il successo sul suo stile. Non è un caso che Jovanotti e Ligabue siano stati intercettati da Feltrinelli e Baldini & Castaldi, le case editrici che più di tutte le altre negli ultimi anni hanno cercato di pescare tra i nuovi scrittori. L’uovo di Colombo è stato di trattarli né come mostri sacri né come usa e getta, ma come normali giovani autori esordienti. E nello stesso tempo di fare, con il loro libro, per la cura, la promozione, il lancio, la grafica, quello che di solito si fa con un disco.