All’insegna della narrativa

Un anno all’insegna della narrativa e della fiction.
Comunque la parte del leone va sempre alla produzione angloamericana anche se gli italiani se la cavano bene, soprattutto con i romanzi di Baricco e di Camilleri (e pure nella saggistica e nella varia). Il mercato librario italiano, però, appare ancora asfittico: tanti libri editi, ma pochi autori capaci di raggiungere dati di vendita davvero apprezzabili e significativi.

Un’annata all’insegna della narrativa. È la conclusione che si trae stendendo il bilancio delle classifiche pubblicate ogni settimana dal «Corriere della sera» tra il settembre 1998 e il luglio 1999. Conteggiando anche le edizioni economiche, ben trentanove dei cinquanta titoli più venduti possono venir registrati nella variegata area della fiction. Soltanto sei titoli appartengono alla saggistica, cinque alla varia. Nelle prime quindici posizioni il predominio della narrativa è tale da estromettere ogni altro genere.
Solo al sedicesimo posto fa la sua comparsa un titolo di diversa natura: Il piccolo libro della calma di Heinrich Wilson, tascabile, ma classificabile nella varia. Lo segue il diario Cara Italia di Enzo Biagi, una sorta di viaggio-inchiesta attraverso le varie regioni del Bel Paese allo scopo di indagarne le contraddizioni economiche e le risorse di autenticità morale.
Il consuntivo dei libri più venduti tra il gennaio e il dicembre 1998 esibiva un differente ordine, con al posto d’onore proprio un saggio, anzi un insieme di saggi: Il libro nero del comunismo. Nel pezzo di commento alla graduatoria il «Corriere» dava risalto all’evento, parlando enfaticamente di «primato assoluto» della saggistica. Era un po’ troppo: il successo del Libro nero, benché ragguardevole, rappresentava un caso isolato. I restanti nove titoli erano di genere narrativo, tutti di provenienza straniera e uno a fumetti (Walt Disney, Le disavventure di Paperamses).
Del resto, anche i dati di vendita delle librerie documentano un calo della non-fiction a vantaggio dell’area letterario-romanzesca, che alla fine del 1998 ha chiuso con un fatturato di 470 miliardi: se si escludono i libri scolastici e quelli per ragazzi, è una fetta che rappresenta la metà del fatturato globale (903 miliardi). La quota più consistente, 285 miliardi, si concentra sotto la sola voce della narrativa straniera che, secondo le cifre rese note da Giuliano Vigini, nel corso degli ultimi cinque anni ha conosciuto un incremento di copie vendute pari al 5%.
Come è prevedibile, la parte del leone la fa la più collaudata produzione di evasione di lingua angloamericana, programmaticamente congegnata in modo da soddisfare su scala internazionale i bisogni di ricreazione fantastica di larghe fasce di lettori. Eppure le classifiche dei best-seller lasciano affiorare un quadro del mercato librario ben più ricco di aperture di quanto ci si possa aspettare.
La narrativa d’oltreoceano occupa sì gli spazi maggiori (cinque titoli su dieci nella top ten), però non riesce a fare breccia nelle posizioni di testa, in cui peraltro non si registra nessuna novità editoriale. L’elenco è anzi aperto da tre romanzi in auge già da una o più annate: Le braci dell’ungherese Sandor Marai (1.400 punti complessivi e 25 presenze), Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1.366 punti e 20 presenze) del cileno Luis Sepulveda e, primo fra gli italiani, Novecento di Alessandro Baricco, riproposto nei tascabili (1.063 punti e 21 presenze).
I tre libri presentano caratteri di contenuto e di stile molto dissimili fra loro. Ma tutti e tre si inseriscono in un comune ambito, quello del best-seller di qualità: opere che nella loro struttura si rivelano adatte a intrattenere un dialogo con una larga utenza ma che non per questo rinunciano ai crismi della letterarietà ufficiale, riconoscibile anzitutto nelle scelte di linguaggio.
Certamente, il successo più clamoroso e meno prevedibile è quello toccato al romanzo di Marai, uno scrittore (morto, come è ormai noto, nel 1989) che appartiene a pieno titolo alla letteratura senza aggettivi. Composto quasi sessant’anni fa, nel pieno della guerra mondiale, Le braci si discosta dagli schemi più diffusi del romanzo di consumo, fondato su un intreccio distesamente articolato e con una caratterizzazione a tutto tondo degli attori principali. Qui piuttosto i fatti sono allontanati sullo sfondo della narrazione per fare emergere l’attività di coscienza dei due protagonisti principali, legati da un rapporto di amicizia di antica data e che, dopo quarant’anni di lontananza, si ritrovano in tarda età a fare i conti con le proprie inquietudini.
Il libro deve la sua fortuna editoriale soprattutto alle atmosfere morbido-amare che lo caratterizzano, in sintonia con le consuetudini dello psicologismo analitico comune a gran parte della letteratura mitteleuropea. Sul piano dei contenuti, il narratore dà voce a un senso di disfacimento dei valori, che ha le sue origini nella concretezza della realtà politica della prima metà del secolo ma che viene proiettato in una dimensione di universalità metastorica. A venire riproposto, in sostanza, è un tema frequente nella letteratura decadente, quale il fascino ambivalente dell’horror vacui, che si rivela efficace a rispecchiare il sentimento di disagio avvertito per altre ragioni da ampie fasce dei lettori di fine millennio.
Al polo opposto, Sepulveda punta sulla lievità di una storia destinata anzitutto a un pubblico di ragazzi, mischiando i modi intriganti dell’avventura fiabesca a quelli asseverativi della parabola. L’insistenza sui temi della natura, della solidarietà e della generosità disinteressata mira a restituire fiducia nell’esistenza e nei rapporti che l’io intesse con l’altro da sé. Insieme fa trasparire una filosofia del presente che può incontrare il beneplacito anche del pubblico adulto più o meno qualificato.
Per parte sua, Baricco si mantiene invece fedele a un’idea di narratività pura, che scaturisce da una sorta di impulso fabulatorio che lascia fluire episodi e situazioni unendoli in una rete di rapporti di ordine ritmico-musicale più che logico-consequenziale. Le scelte compositive hanno nel minimalismo statunitense il loro precedente più prossimo: ma i tormenti sociali che percorrono la secca prosa di Raymond Carver ed eredi si stemperano nell’opera del narratore torinese in una scrittura protesa verso i moduli di una surrealtà onirico-fantastica.
Al di là delle differenze di ispirazione e di stile, sarà tuttavia utile non sottovalutare i fattori che accomunano i primi tre classificati. Intanto si tratta di testi orchestrati su strutture compositive alquanto esili, che non oltrepassano la misura del romanzo breve, concluso in un numero esiguo di pagine. Una caratteristica che li contrappone alla maggioranza degli altri best-seller, prevalentemente articolati in strutture ad ampie volute. Dalle 347 pagine di Punto di origine di Patricia Cornwell si arriva alle 860 di Monsone di Wilbur Smith, passando per le oltre 480 di Il testamento di John Grisham e di Insieme con i lupi di Nicholas Evans, le 510 di Il fantasma di Danielle Steel, le 608 di Mucchio d’ossa di Stephen King, le 788 di Rainbow six di Tom Clancy.
Si tratta poi di libri pubblicati da editori di grandezza media: nell’ ordine Adelphi, Salani, Feltrinelli. Né è del tutto trascurabile che il prezzo di copertina sia in tutti e tre i casi molto contenuto, comunque inferiore rispetto a quello degli altri maggiori successi: Le braci 25.000, Storia di una gabbianella 18.000, Novecento 7.000. I successivi sette titoli entrati nella top ten si aggirano tra le 28.000 (è il prezzo degli altri due libri italiani presenti, Un mese con Montalbano e City) e le 34.900 del già citato Mucchio d’ossa.
Ma il fattore di maggiore rilievo è costituito dall’onda lunga che contraddistingue il consenso ottenuto da questi romanzi nell’arco di più stagioni consecutive: un consenso cresciuto sulla distanza, sotto la spinta del passaparola ben più che degli effetti della campagna promozionale (pressoché irrilevante, peraltro, nel caso del libro di Marai).
Certo, il successo di pubblico della Gabbianella e di Novecento è stato favorito dalle trasposizioni cinematografiche, a opera rispettivamente di Enzo D’Alò e di Giuseppe Tornatore: subito dopo l’uscita del film, nei soli mesi di novembre e di dicembre il libro di Sepulveda ha venduto quasi 100.000 compie (che vanno a sommarsi alle 200.000 dei dieci mesi precedenti e alle 500.000 vendute tra il 1996 e il 1997).
Tuttavia sarebbe sbagliato sopravvalutare la forza di trascinamento esercitata dal grande schermo, che infatti non riesce da solo ad assicurare prestazioni altrettanto rilevanti ad altri titoli, che pure spinge verso l’alto della graduatoria: I piccoli maestri di Meneghello (52 punti e l presenza), Trent’anni alta mora di Leonardo Pieraccioni (76 punti e 2 presenze), Sette anni in Tibet di Paul Harrer (76 punti e 2 presenze), Le parole che non ti ho detto di Nicholas Sparks (111 punti e 3 presenze), L’uomo che sussurrava a i cavalli d i Nicholas Evans (282 e 6 presenze).
In contrapposizione alla lenta progressione della triade di testa, i rimanenti titoli che si assestano nelle prime posizioni procedono in modo più rapido: si installano immediatamente al vertice della graduatoria, mantengono il primato per un numero più o meno lungo di settimane, poi si avviano a un’inesorabile discesa scomparendo in fretta dalla top ten.
È quanto accade a Il martello dell’Eden di Ken Follett. A pochi giorni dall’uscita, è già primo il 5 novembre e non si smuove dalla piazza d’onore fino al 2 dicembre. La sua autorità è tale che per quattro settimane il secondo posto viene schiacciato verso valori mediani nella classifica: a 51 la prima e la seconda settimana, a 7 6 la terza, a 73 la quarta. Scende al secondo posto nella settimana da19 al 16 dicembre (ma è a sole due lunghezze dal capolista) e in quella dal 17 al 23 (dove il distacco sale provvisoriamente a sedici). Dopo la pausa natalizia è di nuovo al comando dal 7 al 20 gennaio. La settimana successiva è fuori classifica, senza passaggi intermedi.
La diversità nei modi di procedere ha un riscontro significativo sulla media dei punti. Se si prova a ricomporre la classifica in base · al rapporto tra il numero delle presenze all’interno della top ten e i valori ottenuti a ogni puntata, si ottengono risultati sensibilmente differenti. Proprio Ken Follett è l’autore che in un minor numero di settimane riesce a totalizzare il punteggio più elevato: 972 punti in 10 settimane con l’onorevole media de197,2. Al secondo posto Stephen King, Mucchio d’ossa, 679 punti, 9 presenze, 75,4 di media. In terza fila di nuovo Baricco, ma questa volta con City, che in 9 settimane totalizza 653 punti con una media del 72,5. Lo seguono Evans, Insieme con i lupi, 1.000 punti, 14 presenze, 71,4 di media; e Cornwell, Punto di origine, 637 punti, 9 presenze, 70,7 di media.
In questa elaborazione dei dati la Storia di una gabbianella retrocede in sesta posizione: la media si assesta sui 68,3 punti a settimana. Alle sue spalle si classificano Il testamento di Grisham (67 punti), Monsone di Wilbur Smith (64 punti) e Un mese con Montalbano di Andrea Camilleri (59,8 punti). Marai è appena decimo con una media di 56 punti, Novecento viene subito dopo con 50,6 punti.
L’esperimento restituisce il primato ai marchi maggiori, che si spartiscono equamente i primi cinque posti: Mondadori occupa il primo e il quinto, Rizzoli il terzo e il quarto, mentre al secondo si sistema la Sperling & Kupfer. I risultati che così si ricavano permettono di correggere i difetti di un quadro che altrimenti finirebbe con lo sminuire una porzione cospicua del mercato dei successi. È bene ricordare che i criteri adottati nella compilazione delle classifiche fanno sì che esse abbiano un’utilità puramente indicativa: poiché il rapporto fra il venduto e i valori assegnati a ciascun titolo (100 punti al primo classificato, gli altri calcolati in proporzione) varia di settimana in settimana, a punteggi equivalenti corrisponde un numero diseguale di copie vendute.
Un bilancio più coerente permette di dare evidenza a due modalità diverse di conquista del pubblico: alla prima è comprensibile che siano più sensibili gli editori meno attrezzati ai grandi investimenti promozionali; alla seconda quelli che in virtù di una struttura aziendale articolata in più settori possono sfruttare le diverse sinergie e accelerare il ricambio dei titoli in catalogo. Sono due logiche che non si escludono a vicenda, e che possono dare in pari grado frutti apprezzabili sotto il profilo economico così come sotto quello estetico: si sbaglierebbe a ritenere che i libri di qualità stiano tutti da una parte e quelli spregiudicatamente volti al consumo dall’altra.
Ma si può ricostruire la classifica in un altro modo ancora, sommando il punteggio degli autori rubricati con più di un libro. I risultati che così si ottengono possono essere letti individuando quattro raggruppamenti di massima. Nel primo raggruppamento, al di sopra dei mille punti, si succedono sette autori: Marai con 1.935 punti e due titoli, Cornwell 1.812 punti e sei titoli, Camilleri 1.760 punti e quattro titoli, Baricco 1.749 punti e tre titoli, Sepulveda 1.575 punti e due titoli, Evans 1.282 punti e due titoli, Ken Follett 1.090 punti e due titoli.
Cinque sono invece gli autori che superano i 500 punti: Grisham (722), Stephen King (708), Valeria Massimo Manfredi (607), Wilbur Smith (606), Jovanotti (525). Trenta quelli che si attestano oltre il limite dei 100 punti, quarantaquattro infine quelli che figurano al di sotto della medesima soglia. Tra gli ottantasei autori che fanno il loro ingresso nella graduatoria dei primi dieci, solo sei conservano la posizione per più di venti settimane, quattro sono presenti oltre dieci volte, tredici oltre cinque, cinquantasette hanno meno di cinque presenze: tra costoro trenta ne hanno una sola.
Tali valori confermano le contraddizioni di un mercato librario ancora asfittico in cui all’elevata quantità dei volumi pubblicati corrisponde l’esiguità del plotone degli autori che riesce a raggiungere dati di vendita apprezzabili in termini numerici. Nello stesso tempo l’elenco riconosce il ruolo che nella logica degli acquisti è ricoperto dal legame di fedeltà che nei loro diversi ambiti gli autori hanno saputo stabilire con i destinatari.
Quanto agli italiani, nel corso della stagione 1998-1999 se la sono cavata più che egregiamente, non sfigurando affatto nel raffronto con i concorrenti stranieri: oltre a Novecento figurano tra i primi dieci Un mese con Montalbano di Andrea Camilleri, al sesto posto con 897 punti e 15 presenze, e City ancora di Baricco, all’ottavo posto con 653 punti e 9 presenze. Lo scrittore siciliano ha la sua degna collocazione anche al dodicesimo posto grazie a La mossa del cavallo, 546 punti e 8 presenze, e al ventitreesimo con Il corso delle cose, 264 punti e 5 presenze. Mentre in posizioni più basse è relegato Il ladro di merendine.
Anche in questo caso il pubblico ha premiato la qualità di uno scrittore che muovendo all’interno della narrativa di genere ha saputo affermare una sua personalità inconfondibile, coniugando in maniera originale decoro di scrittura e fruibilità accattivante. In sostanza, Camilleri rinnova i moduli del giallo d’autore, trasportando gli schemi collaudati del poliziesco psicologico in una realtà regionalmente connotata: la ricerca investigativa si accorda dunque agli intenti di analisi del costume, con una inclinazione verso il bozzetto e la caricatura di indole novellistico-cinematografica. I modelli di riferimento più vicini possono essere rintracciati probabilmente nei racconti polizieschi di Mario Soldati e in Piero Chiara. Ma fin dagli anni Trenta il giallo italiano si è dimostrato ben propenso agli innesti, frequenti nelle opere dei protagonisti di maggiore rilievo del loro tempo, da Alessandro Varaldo a Ezio D’Errico ad Augusto De Angelis.
Nelle sue prove narrative più riuscite Camilleri aggiunge di suo una disponibilità alla sperimentazione linguistica, che si traduce in un divertito pastiche, in cui le forme dell’italiano standard sono miscelate con quelle del panregionalismo siciliano, non senza qualche strizzata d’occhio al lettore colto secondo pratiche divulgate da un paio di decenni dalle poetiche postmoderne. D’altra parte, anche quello di Camilleri è un successo cresciuto poco alla volta nel corso del tempo, grazie anzitutto al passaparola: ancora una volta, inoltre, la misura prescelta è quella breve, appena superiore alla dimensione del racconto. E, last but not least, ancora una volta la scoperta si deve a una casa editrice di piccole dimensioni quale è quella di Elvira Sellerio. Solo a successo ormai stabilizzato Camilleri ha consegnato a Mondadori e Rizzoli i suoi testi recenti, riservando alla casa editrice siciliana il rilancio delle opere narrative più datate, tra cui Il corso delle cose, scritto negli anni 1967-68.
Una collocazione non spregevole l’ottiene anche il caotico e stralunato diario di Jovanotti, Il grande Bah!, che grazie alla sua verve giovanilistico-demenziale si aggiudica il tredicesimo posto con 525 punti e 9 presenze. Una fortuna minore ma non disprezzabile hanno avuto inoltre i primi due volumi della trilogia macedone di Manfredi, Aléxandros, Il figlio del sogno (421 punti, 6 presenze) e Aléxandros, Le sabbie di Amon (186 punti e 2 presenze).
Il bilancio positivo del comportamento dei narratori italiani risulta tuttavia ridimensionato se anziché sui singoli titoli si poggia l’attenzione sul settore preso nel suo insieme. Complessivamente, la narrativa nostrana porta ai vertici delle classifiche dodici titoli, totalizzando 3.703 punti, corrispondenti al 16% dei valori complessivi. La narrativa straniera conclude con trentanove titoli e un punteggio globale di 11.092 (corrispondente al 47,8%), i tascabili trentadue titoli e un punteggio di 5.003 (corrispondente al 21,6%). Seguono la saggistica, 23 titoli e 2.334 (10%) e la varia con 9 titoli e 1.076 punti (4,6% ).
Nondimeno, le posizioni di testa confermano che il pubblico italiano è tutt’altro che pregiudizialmente ostile ad accordare il proprio consenso ai libri dei propri connazionali quando essi si dimostrano all’altezza dei propri colleghi d’oltralpe e d’oltreoceano. Franco Cordelli esagera nell’affermare che «se – come ritiene Edward Said – lo stato di salute di una cultura o addirittura di una società si dovesse misurare sul romanzo, allora la società italiana è davvero in fondo al pozzo» («Corriere della sera», 3 gennaio 1999). In realtà, la storia della letteratura contemporanea è lì a dimostrare che il genere romanzo si è ormai definitivamente radicato nella civiltà culturale nostrana. Continua a essere purtroppo vero però che la narrativa italiana fatica a fare i conti con i problemi di interesse collettivo e a tenere aperto il dialogo con il pubblico di massa.
È significativo che gli italiani abbiano la meglio piuttosto nella varia e nella saggistica, dove detengono di fatto il monopolio, rispettivamente con sette titoli su nove e ventidue su ventitré. Nella saggistica in particolare emergono gli orientamenti degni di maggiore nota. Da segnalare è anzitutto la conferma di due nomi famosi della scienza italiana non nuovi al successo commerciale, Rita Levi Montalcini e Antonino Zichichi. Sia pure con diversa forza persuasiva, i due studiosi utilizzano gli strumenti della propria disciplina per affrontare due questione attualissime, quali la terza età di cui la neurobiologa si occupa in I: asso nella manica a brandelli e il dilemma religioso al quale il fisico nucleare tenta di dare risposta, per la verità in maniera alquanto corriva, in Perché io credo in colui che ha /atto il mondo. Certamente, i loro testi traggono vantaggio dalla popolarità acquisita grazie ai mezzi della comunicazione di massa. Ma hanno anche il merito (sfortunatamente poco emulato) di sfruttare le potenzialità di penetrazione nel mercato che può avere una saggistica capace di emanciparsi dalle pastoie dell’aristocraticismo accademico.
Lo spazio preponderante all’interno della saggistica è in ogni caso appannaggio dei giornalisti di riconosciuto prestigio, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Mario Cervi, Giorgio Bocca, Bruno Vespa, Roberto Gervaso, Piero e Alberto Angela, Sergio Romano, Beppe Severgnini. Sono gli autori più avvezzi per ragioni di mestiere a raccontare la realtà collettiva con un linguaggio consono alle competenze dei destinatari. Ed è questo punto di vista che essi portano nella propria produzione libraria, anche quando si fanno cronisti del passato. Forse sarebbe eccessivo affermare che questo tipo di saggistica supplisce presso il pubblico di massa al «vuoto» lasciato dalla produzione romanzesca, appagando nel contempo un bisogno di affabulazione e un bisogno di realtà. Certo, però, al di là del grado variabile di approfondimento critico questa produzione offre un buon esempio di vitalità durevole, che si esercita nel confronto spregiudicato con i lettori, non nell’arroccamento snobistico su se stessi.