Lo sconforto dei letterati doc

Sulle pagine dei quotidiani la «polemica» dal tipico tono assertivo è ancora il modo di confronto privilegiato dai letterati. Ma di che cosa si discute? Si va dalla salute della narrativa italiana alla rilettura della tradizione letteraria novecentesca sino al ruolo dell’intellettuale nella società moderna. Comunque sia, tutti i protagonisti dei maggiori dibattiti; al di là delle loro differenze ideologiche e metodologiche, esprimono un comune stato d’animo di disillusione e pessimismo sulla progressiva «marginalizzazione della letteratura».

I numeri delle polemiche
«Basta con le solite polemiche ripetitive e superficiali!»: anche quest’anno, come sempre, la recriminazione è rimbalzata sulle pagine culturali di quotidiani e settimanali. Ma quali sono stati in effetti i temi discussi della stampa nazionale dal luglio 1998 al giugno 1999? In che modo si è sviluppato il confronto? Quali i protagonisti? Conservare memoria delle discussioni giornalistiche non solo permette di rispondere a queste e ad altre domande, ma aiuta a individuare le principali preoccupazioni di una società intellettuale. Dai dibattiti su letteratura, lettura e editoria emergono alcuni aspetti qualificanti di quello che si potrebbe chiamare «senso comune critico», quell’insieme di atteggiamenti e idee che riguardano le principali componenti dell’universo culturale e letterario (l’offerta testuale, il pubblico, la critica, i meccanismi editoriali, la tradizione, ecc. ), certo frutto di autonoma elaborazione concettuale, ma a volte anche semplice riflesso di luoghi comuni.
La nostra rassegna prende in considerazione soltanto le discussioni di argomento letterario e editoriale, oltre a quelle dedicate al ruolo dell’intellettuale. Sono quindi escluse questioni come la riforma della scuola superiore e dell’università, la querelle attorno a La vita è bella di Roberto Benigni, i molteplici interrogativi sulle nuove frontiere della bioetica e sui confini della privacy, oltre naturalmente ai numerosi confronti sulla storia del Novecento: la guerra di Spagna riletta da Sergio Romano, il revisionismo e la questione del totalitarismo, la storiografia di Renzo De Felice, la contestata eredità di Carlo Rosselli. Le testate prese in considerazione sono sette, tre quotidiani, tre supplementi e un settimanale: «Corriere della sera», «l’Unità» e «la Repubblica»; «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «Alias» – il supplemento del «manifesto» che esce il sabato – e «l’Espresso». Ma varie volte si è fatto riferimento anche ad articoli apparsi in altre sedi.
A spogli finiti, il numero di testi inventariati non risulta certo imponente, ma nemmeno trascurabile: l’insieme assomma infatti a poco più di 170 pezzi. Esaminando l’andamento quantitativo dei dibattiti nel corso dei dodici mesi che vanno dal luglio 1998 al giugno 1999, valutando cioè il numero di interventi pubblicati mensilmente in questo arco di tempo, saltano subito all’occhio due periodi di notevole concentrazione, uno estivo (luglio, agosto e settembre) e uno invernale (novembre, dicembre e gennaio, da considerarsi non come inizio dell’anno nuovo ma coda di quello precedente). In queste due fasi appare il 71 % degli articoli considerati, in proporzioni analoghe: il 3 7 % durante l’estate e il 34% nel periodo novembre-gennaio. Se è piuttosto evidente la corrispondenza fra vacanze estive e maggiore disponibilità delle testate a ospitare discussioni e polemiche, una analoga apertura al dibattito sembra contrassegnare pure i mesi centrali dell’inverno, che contengono la seconda grande pausa lavorativa dell’anno. Il restante 29% dei contributi si dispone in modo abbastanza omogeneo negli altri sei mesi, con il minimo di aprile (due soli pezzi) e il massimo di maggio, che conta ben 15 articoli, un record giustificato dalla polemica suscitata dal rifiuto da parte di Einaudi della prefazione-intervista di Gustav Herling ai racconti di Shalamov. Da segnalare anche la performance di febbraio, con 10 testi, la metà dei quali dedicati alla questione dei rapporti di Ignazio Silone con la polizia politica fascista, il dibattito più «longevo» di tutti: la prima tappa è del primo maggio 1998 (Dario Fertilio, Sifone è una spia al di sopra di ogni sospetto, «Corriere della sera»), l’ultima del 10 giugno 1999 (Chiara Valentini, Una spia al di sopra di ogni sospetto, «l’Espresso»). Non sempre il dibattito assume la forma compiuta di un confronto a più voci, a volte si configura come un semplice dialogo affidato a due soli articoli, come nel botta e risposta fra Giovanni Pacchiano e Filippo La Porta sulla seconda edizione ampliata del libro di quest’ultimo La nuova narrativa italiana («Corriere della sera», 15 e 23 maggio 1999), sempre edito da Bollati Boringhieri.
La testata di gran lunga dominante è il «Corriere»: quasi il 70% degli articoli considerati viene pubblicato qui. A un livello quantitativamente molto distanziato ecco il gruppo formato – nell’ordine – da «l’Unità», «la Repubblica», «Tuttolibri» e «l’Espresso», mentre l’inserto del «Sole» e quello del «manifesto» tendono a non accogliere la polemica. Il monopolio del quotidiano di via Solferino suggerisce in via indiretta una caratteristica tipica di tutte queste pagine culturali. Le testate dialogano fra di loro solo occasionalmente: di solito un dibattito si sviluppa proprio sulle pagine dove è nato. È il caso della discussione sulla scarsa presenza di scrittori cattolici in Italia e di quella avviata da Raffaele La Capria su Comisso «scrittore senza maschera», entrambe esclusivamente targate «Corriere». Al contrario, a suscitare l’intervento del maggior numero di testate è l’a/fa ire Silone, che mobilita firme di ben nove giornali: se ne occupano il «Corriere», «Il Sole», «L’Avvenire», «la Repubblica», «La Stampa», «Diario», «l’Espresso», «il Giornale» e «il manifesto», oltre alla rivista che ha suscitato il caso, «Nuova Storia Contemporanea». Infine, è facile identificare le firme che ricorrono di più: a conferma di quanto il lettore può intuitivamente sospettare, Giulio Ferroni, Giovanni Raboni, Giovanni Pacchiano, Alfonso Berardinelli e Stefano Giovanardi sono, insieme a Franco Cordelli, le stelle fisse dell’universo delle polemiche.

Di che cosa si discute?
I circa 170 pezzi qui censiti si occupano di una quantità di argomenti non elevata, ciascuno sviluppato in un numero variabile di articoli. Con una ventina di interventi, il tema di gran lunga più discusso è lo stato di salute della narrativa italiana, una vera e propria costellazione di dibattiti il cui nucleo centrale è costituito da tre gruppi di interventi collegati fra loro. Il primo raccoglie le reazioni al saggio di Goffredo Fofi Sotto l’ulivo. Politica e cultura negli anni ‘90 (Minimum Fax), inaugurate dal «giro di pareri» raccolti da Cinzia Fiori sul «Corriere» del 25 novembre 1998, e il secondo riguarda la discussione suscitata sull’ «Unità» dall’intervento di La Porta sul tema (novembre-dicembre 1998). A sua volta La Porta si richiama all’impietosa diagnosi pronunciata da Berardinelli in un’intervista dell’ «Espresso» (29 ottobre 1998), collegata al suo Autoritratto italiano. Di poco inferiore la quantità di articoli dedicata a una tendenza particolare della recente fiction italiana, il pulp, soggetto privilegiato delle polemiche nostrane sin dall’inizio del 1996. A lanciare l’argomento è un bell’articolo di Sandra Modeo («Corriere della sera», 10 agosto 1998), a rispondere sono sia critici (Raboni, Pacchiano, Ferroni, Barilli) sia alcuni degli scrittori chiamati in causa, Aldo Nove e Tiziano Scarpa. Caso a parte, la fitta controversia su Silone, a cavallo fra letteratura e storia.
Una serie meno nutrita di dibattiti tratta questioni in vario modo collegate a una rilettura della tradizione letteraria nazionale di questo secolo. È la direzione in cui vanno le polemiche sul canone del Novecento, gli elenchi «d’autore» dei dieci più importanti scrittori del secolo sollecitati nel luglio del 1998 dal «Corriere» (fra gli altri compilano la propria personale classifica Gramigna, Lagorio, Cordelli). Si collocano qui anche la riflessione sul ruolo degli autori cattolici nella letteratura italiana degli ultimi cento anni (Bo, De Rosa, Rumi, Doninelli, Raboni, Giudici sul «Corriere» nel settembre 1998) e i ragionamenti avviati da La Capria, il quale divide i più importanti scrittori del secolo fra chi esibisce le maschere della stilizzazione (come Gadda o Calvino) e i narratori «naturali», rappresentati dal prediletto Giovanni Comisso (Scrittori in maschera, leggete Comisso, «Corriere della sera», 6 novembre 1998). Fatto positivo, circa un quarto dei dibattiti presi in considerazione riguarda la narrativa contemporanea e la sua tradizione novecentesca: le pagine culturali dei maggiori quotidiani sembrano davvero concentrarsi sull’attualità letteraria, tenendo fede al proprio principale compito istituzionale.
La riflessione sul passato si spinge però ben oltre le soglie dell’ultimo secolo: il 14 settembre 1998 Patrizia Valduga denuncia l’assenza dai cataloghi degli editori di tanti testi secondo lei capitali per la nostra tradizione; tra dicembre e gennaio, Mengaldo, Santagata, Sabatini e Renzi ragionano sull’opportunità di «tradurre» in italiano corrente un classico come Leopardi; sempre sul «Corriere», nel maggio 1999 Raboni, Ferroni e Brevini discutono su quale sia il maggior poeta dell’Ottocento italiano. Se la questione dell’adattamento linguistico dei classici italiani non è nuova, basti pensare alle polemiche suscitate nel 1992 dalla versione del Principe di Piero Melograni e dai due volumi del Decamerone da un italiano all’altro (1991-1992) firmati da Aldo Busi, il rovello sulla legittimità delle stroncature è un vero e proprio tormentone. A partire dal 1988 sul «Sole 24 Ore» Mamurio Lancillotto fece del genere stroncatura il suo cavallo di battaglia; il 5 giugno 1994 sul «Corriere della sera» Giovanni Mariotti suggeriva Ma perché non stronchiamo la stroncatura?, e poco più di un anno dopo Antonio Debenedetti riprende il tema con il pezzo Stroncature in cerca d’autore («Corriere della sera», 5 dicembre 1995): tre diversi episodi al centro di altrettante discussioni. Di recente, la querelle riparte grazie a un breve intervento di Carla Benedetti in difesa del romanzo Gli esordi di Antonio Moresco, a suo dire troppo frettolosamente liquidato («Corriere della sera», 22 dicembre 1998), cui seguono altri sette articoli, escludendo naturalmente quanto è apparso sulle testate non incluse in questa panoramica. Un episodio preceduto fra l’altro dall’intervento di Raboni favorevole alle stroncature («Corriere della sera», 4 settembre 1998) e dal ragionamento critico di Bruno Pischedda («Linea d’ombra», ottobre 1998).
Analogo andamento ricorrente ha la vexata quaestio del ruolo dell’intellettuale, oggetto di un dibattito estivo in otto puntate promosso da un ampio intervento di Giulio Ferroni (Contro gli intellettuali, «l’Unità», 27 giugno 1998), incorniciato alla lontana dalla pubblicazione nell’autunno 1997 del libro di Alfonso Berardinelli L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno e da La scena intellettuale. Tipi italiani di Ferroni in libreria nel novembre 1998, accompagnati da relative recensioni incrociate. Un uguale rilievo quantitativo hanno infine due altri argomenti saliti alla ribalta delle polemiche d’annata. Da una parte il rapporto fra i giovani e il libro, dall’altra un insieme piuttosto polverizzato di temi che hanno tutti a che vedere con il mercato editoriale e le sue strategie. Il solito «Corriere» pubblica almeno dieci interventi, concentrati in soli 11 giorni (fra il 23 agosto e il 3 settembre 1998), aperti da un pezzo di Ernesto Galli della Loggia dedicato al primato europeo di non lettura dei giovani italiani («Corriere della sera», 23 agosto 1998). Per quanto riguarda il mercato e le sue strategie, gli interventi riguardano singoli aspetti particolari o si riferiscono a precisi episodi: il controverso andamento delle vendite del libro di Antonio Ricci Striscia la Tivù, pubblicato nella collana einaudiana (a sua volta oggetto di dibattito) «Stile libero» o il piano dell’opera omnia di Pasolini in dieci tomi. La scarsa capacità di valorizzare la qualità letteraria nell’odierno sistema editoriale viene denunciata su «liberai» del gennaio 1999 dall’editor Elena De Angeli, quando afferma che oggi libri come quelli di Gadda, Volponi e Joyce non avrebbero avuto alcuna possibilità di essere pubblicati. La questione rimbalza subito su «La Stampa», «la Repubblica» e «Tuttolibri». Fra le polemiche più serrate di questo gruppo, la «censura» alla prefazione di Herling a Shalamov, sulla quale si contano almeno dieci interventi.

Sguardi sconsolati
Potrà sembrare paradossale, ma i protagonisti dei maggiori dibattiti, nonostante matrici culturali e posizioni metodologiche anche molto diverse, condividono una visione dell’universo culturale e letterario per vari aspetti affine, esprimono uno stato d’animo comune, disilluso e pessimistico. A essere anzitutto avvertita con sconforto è la progressiva e inevitabile «marginalizzazione della letteratura» (Ferroni, «l’Unità», 23 novembre 1998) nell’ambito dello «sviluppo, e ineluttabile degrado, della cultura di massa» (Cordelli, «Corriere della sera», 28 novembre 1998). Non solo la centralità del letterario è ormai solo un ricordo, ma l’arte della scrittura è sottoposta a processi di «inquinamento» sempre più pericolosi. Sullo sfondo di questo desolato panorama campeggia la sinistra figura del nuovo Moloch, il mercato» (Giudici, «Corriere della sera», 13 marzo 1999), che assurge in tanti articoli a entità responsabile dell’attuale decadenza delle belle lettere. All’intellettuale non resta che arrendersi, ritirandosi malinconicamente in quella che un convegno di «Letture» aveva definito la «riserva indiana» della scrittura: «come all’ avvento del Cristianesimo e alla caduta dell’Impero Romano i cultori dell’antica religione lasciavano la città spopolata per cercare un rifugio nel “pagus”, nel villaggio, così l’intellettuale dell’era globalizzata dovrà lui pure cercare sopravvivenza nei pochi “santuari” che ancora gli si apriranno» (sempre Giudici).
Lo stesso spazio della letteratura è ingombrato da oggetti che letterari non sembrano essere. A denunciare il dissolversi della narrativa nazionale, rimpiazzata da quasi-libri e da non-libri, è Stefano Giovanardi: «per quanto stupefacente sia, negli ultimi mesi la narrativa italiana è riuscita a scomparire anche dalle classifiche di vendita riguardanti la “narrativa italiana”: nelle quali impazzano, ovviamente, bravi scrittori di genere (Camilleri), scrittori di genere e basta (Manfredi, Casati Modignani), non scrittori tout court (Jovanotti)» («l’Espresso», 3 dicembre 1998). In quest’ottica, il mondo della scrittura risulta spaccato in due parti sproporzionate e radicalmente contrapposte. Da un lato una produzione commerciale in espansione crescente, dall’altro l’autentica letteratura: «da tempo i termini “letteratura di consumo” o “paraletteratura” stanno lì a marcare con la forza un’incolmabile lontananza dalla letteratura “vera”» (ancora Giovanardi). Il punto è che, se in teoria le gerarchie di valore parrebbero marcate, nella percezione comune e nella pratica editoriale la barriera fra «alto» e «basso» sembra non esistere più. Se ne lamenta Patrizia Valduga: «Oggi non c’è più distinzione fra letteratura alta e letteratura di consumo» («Corriere della sera», 8 gennaio 1999). In una situazione come questa, Raboni propone di «parlare solo dei libri che in qualche modo esistono», e di «ignorare tutti gli altri», quelli firmati dai «professionisti del successo» («Corriere della sera», 24 dicembre 1998) e aspiranti tali. Non diversamente, Pacchiano individua il principale compito del critico nelle parole di Benedetto Croce: «ricercare in prima linea ciò che al gusto esercitato e sicuro si dimostra sano e duraturo, e passar sotto silenzio quanto più si può delle altre opere» («Corriere della sera», 27 dicembre 1998). Per contrastare la pericolosa contaminazione fra tipi nobili e ignobili di scrittura, si tratta insomma di rinsaldare gli antichi confini istituzionali della letterarietà.
Forse, di fronte a un paesaggio letterario come quello odierno, tipico di una società in una fase di modernizzazione avanzata, si potrebbe provare ad assumere un punto di vista diverso, meno semplicistico e manicheo. Uno sguardo più funzionale a rendere conto dell’effettiva dinamicità del sistema, delle sue reali contraddizioni, ma anche degli aspetti positivi e delle potenzialità. Un buon punto di partenza lo offre Arbasino: «per la letteratura nessuno fa ciò che si fa per i ristoranti, una classificazione per livelli. Si mette in classifica il McDonald’s. E certo che batte tutti col suo fatturato» («l’Unità», l dicembre 1998). Occorre dunque distinguere all’interno del mondo dei libri famiglie diverse, definite da specifiche fisionomie testuali e orientate verso differenti destinatari elettivi: se le ricerche espressive di Consolo e Moresco richiedono lettori adeguatamente avvertiti, Francesco Piccolo si rivolge a un destinatario più allargato e tradizionale, mentre Jovanotti raccoglie i suoi fans anche in un pubblico legato solo occasionalmente alla lettura. Ecco perché non ha molto senso lamentarsi del fatto che ai vertici delle classifiche «non c’è Vincenzo Consolo» (Giovanardi, «l’Espresso», 3 dicembre 1998).
In questo contesto, compito della critica militante dovrebbe essere anzitutto quello di riflettere sulla varietà e le implicazioni reciproche dei livelli, tanto più considerando la mobilità dei confini interni al sistema. Inoltre, il giudizio sul singolo testo dovrebbe sempre tenere conto dell’ ambito letterario specifico in cui si colloca l’opera, ma di norma questo non accade: «io posso valutare positivamente il diario di un cantautore in relazione al tipo di prodotto che è e in relazione ai prodotti della sua fascia, poi posso valutare negativamente il romanzo di un affermato scrittore statunitense in relazione al tipo di prodotto che è e in relazione ai prodotti della sua fascia, però capita quasi sempre che queste relativizzazioni restino implicite nel discorso critico e al lettore giungano solo un elogio e una stroncatura» (Voltolini, Stroncature? No, grazie, «Alice», 2 febbraio 1999). Ciò naturalmente non toglie che un ottimo testo d’intrattenimento popolare possa essere «più bello» di un’opera sperimentale poco riuscita: in un panorama articolato come questo, il giudizio di valore è il risultato di un’operazione delicata e complessa.
Una risposta editoriale alla fluidità dell’odierno sistema letterario è quella formulata dalla nuova collana di narrativa Mondadori, «Scrittori italiani e stranieri». A farsi garante di un’offerta di qualità è l’editore, una qualità che esclude sia le scommesse intellettualistiche rivolte a lettori superesperti sia le formule troppo dichiaratamente di genere: «il mio criterio guida è la qualità che, è dimostrato, paga anche in libreria, basta guardare le classifiche dei più venduti dall’undicesimo al ventesimo posto», afferma Renata Colomi, che non pensa «affatto a una collana per un’élite, a un gioco intellettuale: la lettura deve appassionare moltissimo, divertire, ampliare la visione del mondo» (Colorni, «Corriere della sera», 3 gennaio 1999).
L’avversione per il rapporto costitutivo fra letteratura e meccanismi industriali, la nostalgia per un mondo letterario più raccolto, artigianale ed elitario emerge anche in alcuni atteggiamenti ricorrenti nelle polemiche che riguardano aspetti particolari della circolazione dell’ oggetto libro. Ad esempio, La Capria si duole che il suo Colapesce sia stato usato dall’editore Colonnese come bomboniera, e che abbia raggiunto così in pochi giorni 500 lettori, e subito dopo deplora la possibilità di acquistare libri via Internet: «a me l’idea di un libro scelto e venduto a questo modo non sembra così bella. Anche qui il libro, venduto come un oggetto qualsiasi, ne esce umiliato» («Corriere della sera», 28 febbraio 1999). Ma forse è proprio l’esclusione del libro dall’insieme degli oggetti essenziali della vita quotidiana una delle cause della difficoltà di penetrazione della lettura nella nostra società. Del resto, la sensibilità verso la dimensione propriamente commerciale del libro che emerge da questi dibattiti culturali è a dir poco modesta, basti pensare al «Catalogo dei classici dimenticati» dal «cinismo» dell’industria editoriale stilato da Patrizia Valduga («Corriere della sera», 14 settembre 1998). L’elenco comprende opere come quelle di Giovan Battista Strozzi, di Chiara Matraini e di Angelo Grillo, un insieme di titoli in molti casi poco familiari persino all’esperto. Un corpus che certamente potrebbe dare vita a una collana di pocket originalissima, in grado però di sopravvivere solo se finanziata da un illuminato mecenate.

Le forme della comunicazione
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i dibattiti non nascono quasi mai da rubriche deputate all’intervento polemico, come «Fulmini» di Orengo e «Parliamone» («Tuttolibri»), «Da buttare» («l’Unità»), «Contrappunto» («Il Sole») e «Improvvisi» di Vassalli («Corriere della sera»). In genere, la discussione parte infatti o da articoli di ampio respiro di un collaboratore autorevole che solleva una questione specifica (Ferroni e la crisi degli intellettuali di sinistra, Mengaldo e la traduzione dei classici italiani), o da un’intervista (Berardinelli che il 20 novembre 1997 su «l’Unità» parla delle Disavventure dell’impegno, i cui temi vengono ripresi anche a distanza di tempo). Altre volte il confronto prende le mosse da una o più recensioni, come nel caso della polemica sulle stroncature, suscitata dalla contrastata accoglienza critica di Gli esordi di Moresco. Diverso è invece il caso di dibattiti per così dire «precostituiti»: i giochi dei «magnifici dieci» e delle «parole da buttare» del Novecento (gennaio-febbraio 1999), organizzati dal «Corriere» come una collana di interventi con formula prefissata. Due altre ricette, funzionali però a un confronto che si esaurisce in una sola puntata, sono la coppia di opinioni contrapposte su un tema dato, e il giro di pareri raccolti da un giornalista-regista della conversazione. Se la prima formula permette una certa libertà di argomentazione e un più autentico dialogo, con la seconda ci si trova di fronte a una simulazione di dibattito, nella quale le posizioni sono più facilmente manipolate e irrigidite.
Quale che sia la «gabbia» del discorso, il tipico tono della controversia giornalistica è assertivo più che ragionativo e argomentante, e non solo per la frequente ristrettezza dello spazio a disposizione. La discussione si configura infatti non tanto come un dialogo interattivo quanto come una successione di opinioni autonome. Spesso le puntate del discorso non affrontano il tema principale ma sviluppano argomenti secondari, e perciò l’andamento complessivo del dibattito non è affatto lineare e consequenziale ma invece divagante ed elusivo. Un chiaro esempio di questa condotta è rappresentato dal confronto, piuttosto fitto, sul pulp. Si parte da un intervento analitico e denso di Modeo (Caro Nove, nel tuo trash non c’è contaminazione ma soltanto confusione, «Corriere della sera», 10 agosto 1998), che mette in campo una serie ben precisa di questioni a partire dall’analisi critica dell’opera di un singolo autore, Aldo Nove. Da qui Modeo sviluppa alcune osservazioni sui limiti del trash quale strumento per la rappresentazione della realtà, e infine solleva il problema della «difficoltà della nostra letteratura (della nostra cultura) nel rispondere alle sollecitazioni dei mutamenti socioantropologici nella società mondo». A partire da qui, Tadini sposta il discorso sulla storia della nostra lingua letteraria (ed ecco allora i riferimenti a Petrarca e ai «manieristi» del Cinquecento), Scarpa firma l’ «intervista impossibile» a Carlo Gol-doni, e Raboni ritorna sulla tradizione petrarchesca per contrapporle quella espressionista, scomodando Folengo, Ruzante, Porta, Belli e altri celebri virtuosi della parola, fino a Meneghello. Nelle puntate successive il discorso riprende occasionalmente il tema di avvio, ma certo non è possibile rintracciare un filo continuo fra il pezzo di partenza e quello conclusivo, anch’esso firmato da Modeo. Se qui l’ultima parola spetta al promotore del discorso, quasi sempre questi dibattiti restano in sospeso, come se si perdesse di vista la conclusione. Anche i singoli contributi, del resto, mostrano a volte una linea di ragionamento poco limpida, forse non solo per colpa di improvvidi (e non infrequenti) interventi redazionali. Naturalmente, non mancano casi di dibattiti di alto livello, condotti con abilità e ricchezza argomentativa, scanditi da interventi strettamente correlati, come il confronto avviato da Mengaldo sulla traduzione dei classici italiani.
Pur con evidenti differenze individuali) lo stile con cui tanti protagonisti delle polemiche letterarie e culturali ospitate sui giornali più importanti interpretano il loro ruolo merita forse alcune osservazioni conclusive. Fra i presupposti impliciti di questo modo di fare critica sono infatti degni di nota alcuni atteggiamenti caratteristici. Anzitutto, lo «sguardo sconsolato» di tanti opinion-maker testimonia la predisposizione scarsamente cordiale di questi osservatori dell’attualità verso lo stato presente di letteratura, pubblico e editoria: nelle loro riflessioni, troppo spesso l’oggi è visto con l’atteggiamento di chi rimpiange un passato – forse mitico – in cui l’arte della parola e i suoi interpreti godevano di prestigio e influenza generalmente riconosciuti. Sintomo di questa concezione è l’atteggiamento ricorrente di chi, pur esercitando l’attività critica sui principali mezzi di comunicazione di massa, tende a farlo con un ‘idea tanto selettiva di pubblico che rischia di cancellare dal suo orizzonte qualunque comune lettore: secondo Giovanardi, «i più avvertiti» fra i critici sono infatti «ben consapevoli che quando parlano non si rivolgono ai potenziali lettori di romanzi, bensì ai loro autori» («l’Espresso», 21 gennaio 1999). Ricorrente, infine, la lamentatio sulla sfortunata condizione del critico giornalistico, vittima e non protagonista del circuito comunicativo di cui è partecipe, costretto a subire impersonali volontà altrui: «oggi più che mai quasi tutte, se non tutte le polemiche culturali sui giornali sono pilotate dall’industria editoriale» («l’Unità», 17 agosto 1998), scrive Andrea Carraro condividendo un’osservazione di Raboni. Ma né loro né altri primattori di pagine e inserti culturali sembrano minimamente intenzionati a tentare di modificare questo loro triste e un po’ avvilente destino.