La febbre dei Festival

Da qualche tempo è scoppiata la febbre dei Festival letterari. E così non c’è Ente, Assessorato, Circolo o Associazione (da Mantova ad Asti, da Forlì a Venezia) che non si senta in dovere di lanciarsi nell’organizzazione di giornate in cui la letteratura, con formule più originali e accattivanti della usuale e un po’ sonnolenta visita in libreria, diventi la vera e unica protagonista.
 
«No, Alex Garland non è disponibile per nessun festival. È sul set con Leonardo Di Caprio, protagonista del film tratto dal suo romanzo, L’ultima spiaggia. Deve seguire la lavorazione».
Anche questa risposta è corsa sui fili del telefono che vanno dall’Italia alla «perfida Albione». Questa e molte altre, alcune delle quali un po’ meno eclatanti. Ma non troppo. Will Self, ad esempio, è stato raggiunto in Australia grazie a uno scambio di fax di cui si è fatto intermediario il suo agente londinese. Jonathan Coe era inamovibile dall’Inghilterra, per la messa a punto della sceneggiatura di un film tratto da un suo romanzo e per l’imminente allestimento del cast che di lì a poco avrebbe cominciato le riprese. Helen Fielding, l’autrice del Diario di Bridget Jones, best-seller da 600.000 copie Oltremanica e buon successo anche in Italia (ma da noi questo traguardo viene festeggiato al 10% di quella cifra … ), doveva consegnare il secondo libro e poi partiva per u n tour americano che l’avrebbe trattenuta nel Nuovo Continente per oltre un mese. Insomma, uno stress.
Chi, sul finire dell’inverno, abbia avuto la ventura di organizzare qualche incontro con uno o più scrittori stranieri, ha toccato con mano l’avvenuta immissione nello star system mediati co di molte firme letterarie che in Italia sono seguite solo da alcune ridotte, seppur fedeli, fasce di lettori. Qualche mese di anticipo non è più sufficiente per inoltrare inviti e richieste: gli scrittori, soprattutto quelli che frequentano il mercato di lingua inglese, hanno ritmi di tournée degni di Pavarotti. Ma organizzatori, uffici stampa e editori non demordono. Non possono. Sì, perché da qualche tempo è scoppiata la febbre dei Festival letterari. E non c’è Ente, Assessorato, Circolo culturale, Associazione di librai e affini – ma per lo più i soldi sono pubblici – che non si senta in dovere di lanciarsi con entusiasmo – e con sedicente originalità – nell’organizzazione di giornate in cui la letteratura sia resa avvicinabile con formule diverse dalla solita e un po’ sonnolenta visita in libreria.
Ormai è noto che in principio è stata Mantova. O meglio Hay-on-Wey, la cittadina al confine fra Galles e Inghilterra che alla città dei Gonzaga ha prestato la formula, il cui successo italiano è stato registrato fin dalla prima edizione. A Mantova, per alcuni giorni molti scrittori, italiani e stranieri, gironzolano per la città, fanno colazione con chi lo desidera (cittadini che partecipano numerosi alle giornate o visitatori che arrivano all’uopo da ogni parte .d’Italia), intervengono a incontri e dibattiti (per l’ingresso ai quali gli spettatori pagano regolare biglietto), firmano autografi e stazionano, come comuni mortali, ai tavolini di piazza delle Erbe o all’ombra dei palazzi medievali. Se un appunto si può muovere a questa iniziativa, che ha il meritorio intento di mettere in contatto diretto produttori e consumatori di libri (riflettere sulla risicata funzione della mediazione critica è problema sempre più urgente), consiste nel prestare troppo rassicurante ascolto alle ragioni delle vendite. Occasioni del genere dovrebbero favorire la conoscenza di autori meno noti piuttosto che planare sull’onda lunga del successo di scrittori che già ne hanno, da Daniel Penna c a Susan Sontag. La scorsa edizione poteva permettersi un po’ di coraggio in più. Tuttavia, benvenuta la spettacolarizzazione della cultura. Nonostante (ma forse sono inevitabili) i risvolti grotteschi. Amor di aneddotica vuole che al penultimo Festival di Mantova si sia segnalata una signora dalla pazienza moderata che, in coda per avere l’autografo di Pennac, si era spaventata per la lunga attesa. E avvicinatasi alla traduttrice dello scrittore francese le chiese una firma, quella di Pennac medesimo, da falsificare seduta stante. Piccoli incidenti di bovarismo (o di kitsch surreale) che, ovviamente, non inficiano il senso di nessuna manifestazione. Sono ineluttabili, quando il pubblico è di massa.
Così com’è stato comprensibile, ma poco ascoltato, il nervosismo manifesto di Leopoldo Mastelloni che lo scorso giugno ad Asti protestava per la presenza di bambini irrequieti e vocianti mentre leggeva, da gran professionista, alcuni brani degli autori presenti al Festival della letteratura chiamato «Chiaroscuro». Anche questa manifestazione, ormai alla terza edizione – nata, significativamente, in contemporanea a quella mantovana – ha un modello sperimentato altrove, come ha già segnalato Paolo Soraci sul numero del 1998 di Tirature: quello della Semana Negra, festa popolare e letteraria che da più di dieci anni si tiene a Gijón, in Spagna. Gli organizzatori di Asti ne hanno rivisitato l’impronta dandole un taglio tematico monografico; così dopo la letteratura dell’ esilio e il ritorno dell’eroe, quest’anno si è parlato di antagonisti. Per cinque giorni, sotto un tendone bianco che ospita una birreria e un lungo bancone di libri, di narrativa (molta) e saggistica (poca), si sono alternati scrittori, musicisti e molto pubblico in un mix di dibattiti e musica di eccellente, intelligente divertimento. Si è parlato di guardie e ladri, del lato oscuro della storia, di donne appassionate di crimine, di pirati e avventure, di storie e personaggi contro. Nella fervente convinzione che la letteratura sia affabulazione, narrazione, intreccio, racconto di note dissonanti e insieme fantastiche. Punto di ritrovo era, appunto, il tendone da grande circo di piazza San Giuseppe, ma succedeva spesso di bere l’aperitivo nei bar della città, o di fare le ore piccolissime, nel caldo delle notti astigiane, con gli scrittori presenti: come Paco Ignacio Taibo II, Luis Sepulveda, Pino Cacucci, Patrick McGrath, Daniel Chavarria, Lulu Wang, Simonetta Monesi, Laura Grimaldi.
Da tempo, la tarda primavera è la stagione in cui la tribù dell’editoria libraria e giornalistica – per non usare il termine di società letteraria, ormai decisamente al tramonto nei costumi culturali – si sposta itinerando di convegno in convegno, di festival in festival. Fino a pochi anni f a, l’unico appuntamento era al Salone del Libro di Torino. Ora invece tutti i fine settimana di maggio e giugno – senza dimenticare la ripresa settembrina per l’appuntamento mantovano – offrono la possibilità, talvolta l’obbligo, di fare le valigie.
In quel periodo, scrittori, editor, uffici stampa, critici, giornalisti culturali e appassionati di libri quasi convivono. Talvolta con qualche perplessità, qualche impressione di déjà vu. Qualche impercettibile claustrofobia. Ma tant’è.
Lo scorso anno, il calendario degli incontri ha cominciato a scandire i rendez-vous addirittura a marzo, quando il comune di Forlì, l’Università di Bologna, l’Associazione Nuova civiltà della macchine e l’Associazione per gli Studi di teoria e storia Comparata della letteratura hanno organizzato un convegno internazionale dedicato al romanzo, ai suoi spazi, ai suoi confini. Umberto Eco ha fatto un po’ il padrone di casa, privilegiando il codice del romanzo post-moderno, citazionistico, a double coding, ma si è parlato anche di narrazione come forma di conoscenza (Amitav Ghosh), di etica (Giuseppe Pontiggia, Abraham B. Yehoshua), di cinema, videoclip – forme «altre» rispetto alla narrazione letteraria, ma non meno pertinenti a proposito di postmodernità -; e ancora di scienza e narrazione – l’intervento di Daniele Del Giudice, membro del comitato scientifico, era di rigore -, di generazioni, di modelli e di tendenze nel «Romanzo italiano fra tradizione e presente». Quest’ultima tranche di serate era promossa dal centro di documentazione «Pier Vittorio Tondelli». Molti gli autori stranieri invitati, alcuni rimasti solo sulla carta, come il premio Nobel Toni Morrison. A proposito di mercato anglosassone, o peggio, americano …
La citazione del convegno di Forlì in queste righe potrebbe sembrare eterodossa rispetto a una ricognizione sui festival letterari nazionali. In realtà è la presenza degli scrittori, il loro punto di vista «teorico», a renderne pertinente l’inclusione fra le manifestazioni non accademiche, fra quei convegni che si sforzano di riflettere sulla contemporaneità, affrontando la complessità multidisciplinare e le intersecazioni che ormai la attraversano e soprattutto parlando linguaggi meno impettiti, meno settoriali, più aperti, più «popolari». Ma è evidente che a quel convegno mancava l’elemento spettacolare, l’anello di raccordo «moderno», il vero dato caratterizzante il Festival letterario di nuova fattura.
Ci hanno provato a Ferrara, al Convegno internazionale dedicato all’ «Immaginario contemporaneo» organizzato dallo scrittore Roberto Pazzi nel fine settimana dal 21 al 23 maggio. Il tema era di rilevante ampiezza e a riflettervi sono stati chiamati scrittori e soprattutto saggisti stranieri, quali James Hillman, Tzvetan Todorov, Alain Robbe-Grillet, Yves Bonnefoy e molti altri. L’intento era quello di rendere brillante un convegno che in realtà era di stampo accademico. Gli oratori – in assenza di interlocutori e di dibattito – hanno sfilato, comprimendo i loro interventi in 20 minuti, densi, densissimi di riflessioni, ma senza che fossero coordinati l’uno con l’altro. Qualche problema nell’organizzazione effettivamente ci dev’essere stato. Infatti, aneddotica vuole che si registrino le scuse della scrittrice Assia Djebar che, appena avuta la parola, ha fatto una confessione: solo in quel momento si rendeva conto che l’assise era all’insegna di un titolo e di un tema. Avrebbe improvvisato. Ma torniamo al tentativo di spettacolarizzare la cultura. Il primo giorno, con buona oculatezza tempistica sul ritorno stampa, a un certo punto hanno improvvisamente fatto irruzione sul palco gli attori del gruppo Teatro Nucleo che, ispirandosi a Farenheit 451, hanno finto il sequestro di Antonio Skàrmeta, e hanno letto un proclama a favore della morte del libro: occhiali scuri, vestiti di nero, molto compresi nella parte, hanno recitato la loro piccola provocazione di fronte a un pubblico che, numeroso in mattinata (sulle 400 presenze), è scemato nel pomeriggio. Peccato che la città di Ferrara non sia stata coinvolta, come invece succede a Mantova o a Asti, nel suo insieme di popolazione e strutture urbanistiche.
Cosa che invece si è verificata a Venezia, per la quattro giorni di «Fondamenta», svoltasi dal 3 al 6 giugno. Pochi giorni dopo Ferrara, appunto. Il progetto «di ricerca e di sperimentazione» è dell’Assessorato alla cultura del Comune di Venezia che, tuttavia, si è avvalso della collaborazione di Daniele Del Giudice, abitante a Venezia da molti anni, coadiuvato da un comitato scientifico internazionale di tutto rispetto, fra cui Claudio Magris, Predrag Matvejevic, José Saramago, Amos Luzzato, Assia Djebar.
Bene. In effetti «Fondamenta», almeno negli intenti, si pone un problema decisivo: quello del coinvolgimento dei lettori nel dibattito culturale. Leggiamo qualche riflessione sulla nascita del progetto: «L’idea di Fondamenta è nata dall’attenzione a una presenza sempre più diffusa di una “comunità di lettori”: non semplici destinatari di libri, né pubblico passivo, ma persone che scelgono e immaginano itinerari personali nella riflessione con altri lettori e nel confronto con gli autori. Librerie, biblioteche, scuole, centri sociali o culturali, ma anche caffè, bar e punti di raduno spontaneo sono luoghi in cui ci si ritrova per parlare di ciò che si è letto.
Fondamenta si è mossa dall’idea di fare incontrare le molteplici comunità di lettori e di creare una efficace rete di comunicazione che avesse a Venezia un centro dinamico».
Ottimo; almeno sulla carta. La riunione a Venezia di lettori interessati a riflettere su itinerari tematici – quello della prima edizione è stato «Il futuro necessario» -, e soprattutto la geografia almeno europea a cui appartengono le comunità dei lettori chiamate a convegno – ma ne esiste anche una newyorkese – getta una luce giustamente internazionalista sul progetto. Concretamente, poi, le giornate si sono svolte secondo modalità un po’ più tradizionali, ma mosse: lectiones magistrales, come quella di Matvejevic sui «Luoghi del futuro – Asilo, esilio, migrazioni» o quella del professore di estetica e letteratura araba Abdelfattah Kilito che a proposito di luoghi del futuro ha parlato dell’ «Esperienza del deserto»; reading di poesia, come quello con Andrea Zanzotto; conversazioni a due, come quella fra Massimo Cacciari e il sostituto procuratore Gherardo Colombo che si sono confrontati sui custodi dei diritti del futuro o quella fra Maurizio Bettini e Marcel Detienne sul futuro anteriore e la vita del mito. I momenti dello spettacolo sono stati affidati a Patti Smith e Marco Paolini. E i lettori? Loro avevano avuto, nei mesi precedenti, l’indicazione di una serie di bibliografie ragionate che sarebbe state di preparazione al taglio tematico della prima edizione del convegno. A Venezia se ne sarebbe discusso nel corso di due incontri espressamente dedicati ai lettori, ai quali avrebbero partecipato due rappresentati delle comunità di Chambéry e Salamanca. Effettivamente queste riunioni ci sono state ma, almeno dalle testimonianze, senza che si registrassero particolari vivacità nello scambio delle opinioni o approfondimenti di dibattito.
Ma l’iniziativa è in rodaggio. Conviene dunque segnalare che su Internet esistono le indicazioni per prendere contatto con le varie, e sparse, comunità dei lettori (al sito www.fondamenta.it). Segnalazione probabilmente utile perché è bene si irrobustiscano le file dei destinatari delle tante manifestazioni sparse per la penisola. È importante che cresca il numero degli appassionati dei festival letterari: ma soprattutto quello dei lettori.
Gli scrittori inglesi se lo ricordano più spesso. Forse è anche per questo che è così difficile invitarli …