Piccoli che pensano da grandi Intervista a Sandro Ferri

«Pensare da grandi, pur restando piccoli editori. In poche parole, cercare un libro da 10.000 copie, investire su un autore, pagare un buon anticipo, curare la rete dei venditori: insomma credere che un libro possa vendere come con un grande editore di modo che l’autore non si senta penalizzato, rimanendo però sempre con i piedi per terra, continuando a lavorare in maniera artigianale e portando avanti sino in fondo il proprio progetto».
 
Sandra Ferri dirige la casa editrice E/O, da lui fondata nel 1979. Negli anni Ottanta ha fatto parte del cartello dei Piccoli editori. Oggi, con un fatturato di due miliardi, la casa editrice pubblica una trentina di novità all’anno, dimostrando vitalità e capacità di crescita.
 
Sandra Ferri, qual è la situazione della sua casa editrice?
Abbastanza buona, visto che negli ultimi quattro o cinque anni siamo cresciuti in maniera regolare, senza grandi impennate ma in modo costante. Un piccolo editore può gestire senza problemi solo una crescita del 5-10% all’anno, di conseguenza abbiamo evitato di spingere verso uno sviluppo più sostenuto. Tuttavia, nonostante la crescita, restiamo pur sempre un piccolo editore e quindi per noi un libro va molto bene quando vende 10.000 copie, il che poi rappresenta circa il 10% del nostro fatturato. In questa prospettiva, la scelta del singolo titolo diventa fondamentale, giacché ogni anno abbiamo bisogno di 4 o 5 titoli da 10.000 copie per fare circa la metà del fatturato, mentre un altro quarto lo realizziamo con il catalogo, che sfruttiamo ad esempio nella collana dei tascabili: ogni anno, infatti, abbiamo una trentina di titoli che vendono dalle 1.000 alle 5.000 copie. In questo modo ci garantiamo una crescita lenta ma regolare, anche se non è per niente facile trovare ogni anno i 4 o 5 titoli da 10.000 copie.
 
Ma è indispensabile crescere o si può restare piccoli per sempre?
Io ho sempre sostenuto che bisogna pensare da grandi pur restando piccoli. Quindi non c’è bisogno di far crescere il fatturato a tutti i costi.
 
Cosa vuol dire pensare da grandi?
Ad esempio, cercare il libro da 10.000 copie, che per noi è come un best seller. Ciò significa investire anche in termini economici su un autore, pagando un buon anticipo e curando molto la rete dei venditori per lanciare il libro tra i librai. Per noi, le librerie – soprattutto le 200 più importanti – sono un canale fondamentale, di conseguenza cerchiamo di avere rapporti molto stretti, facendo promozioni, mandando gli autori, spingendo i librai a leggere i nostri libri quando riteniamo ne valga la pena. Insomma, pensare da grandi significa fare in modo che un libro possa vendere come con un grande editore. L’autore con noi non deve sentirsi penalizzato.
 
Però bisogna restare piccoli …
Sì, soprattutto bisogna restare con i piedi per terra. Anche quando un libro o una collana vanno bene, non bisogna mai dimenticare che alle spalle non abbiamo la forza finanziaria del grande editore, e quindi non bisogna mai credere di poter competere con i grandi. È inutile dissanguarsi economicamente per strappare un autore a un grande editore. Inoltre, restare piccoli significa continuare a lavorare in maniera artigianale. Io e mia moglie siamo nati editori lavorando sul singolo libro, di cui abbiamo sempre curato tutto il percorso, dal manoscritto alla libreria. Oggi continuiamo a lavorare così, anche se non possiamo più fare proprio tutto da soli. Nondimeno continuiamo a seguire ogni fase del lavoro editoriale, così ad esempio io so sempre quante copie di un titolo abbiamo in magazzino.
 
Ma questo modo di lavorare è una forza?
Direi di sì. Forse è l’unica forza del piccolo editore, che in questo modo è più agile e può prendere più in fretta le decisioni. L’agilità non serve solo nella fase decisionale, ma in ogni momento della fabbricazione e della commercializzazione del libro, nei rapporti con i fornitori come con le librerie.
 
Alcuni dicono che i piccoli editori, se vogliono sopravvivere, siano costretti a /are meglio degli altri il mestiere di editori. Cosa ne pensa?
Non credo, perché anche i grandi editori fanno libri bellissimi, e quindi fanno bene il loro lavoro. È vero però che il grande editore non può pubblicare un libro di cui non vende almeno 4/5.000 copie. Noi invece sì. Ciò può essere una condanna per quegli editori che faranno per sempre libri da mille copie, ma può essere l’occasione per scoprire e lanciare un autore che farà molta strada. Per noi l’investimento sul primo libro di uno scrittore sconosciuto è molto meno oneroso che per un grande editore, quindi le perdite eventuali saranno meno dolorose. Detto ciò, penso però che il modo di lavorare di tutti gli editori, piccoli e grandi, sia in fondo sempre lo stesso.
 
Pensare in grande significa anche avere un’identità culturale precisa, un progetto editoriale che non sia solo una somma di titoli?
Sì, certo, anche se non siamo più negli anni Settanta, quando le piccole case editrici avevano un progetto politico-ideologico assai preciso. Oggi, sebbene la situazione sia cambiata, il progetto resta comunque un aspetto importante del nostro lavoro. Progetto naturalmente significa molte cose. Per noi, tra l’altro, significa che, a partire da una scelta soggettiva che proponiamo al pubblico, siamo disposti a crescere con i nostri lettori. La dialettica con il pubblico è molto importante: i nostri lettori a volte hanno bocciato progetti che a noi sembravano interessanti, giudicandoli troppo commerciali o troppo semplici, e comunque non adatti a E/O. In certi casi ci siamo rimessi alla volontà del pubblico, abbandonando il progetto, altre volte invece abbiamo insistito, come quando abbiamo iniziato a fare narrativa non dell’Est. All’inizio infatti, il nostro primo pubblico, che era molto legato all’idea della casa editrice specializzata in libri dell’Est, ha molto resistito alle nuove scelte editoriali. Noi però abbiamo insistito e abbiamo avuto ragione, visto che a poco a poco siamo riusciti ad allargare il nostro pubblico.
 
La vostra identità quindi è cambiata …
L’identità è nel rapporto dialettico con il pubblico. Noi abbiamo iniziato a fare i libri dell’Est perché volevamo scoprire quel mondo. Poi però siamo cambiati e, nella continuità, siamo riusciti a evolverci senza tradire le nostre origini. Ciò ci è stato riconosciuto sia dai lettori sia dai librai, i quali sanno bene chi siamo e che tipo di libri facciamo. Molti piccoli editori, invece, quando hanno iniziato a ingrandirsi, sono andati in troppe direzioni, perdendo la loro identità. Insomma, quando si inizia a crescere, si affronta un passaggio molto delicato, e il problema dell’identità è forse anche più importante dei problemi economici.
 
Per il sociologo Pierre Bourdieu, il piccolo editore che diventa grande perde la sua specificità editoriale, la sua creatività e la sua originalità. È così?
Credo che sia abbastanza vero: diventando grandi bisogna adeguarsi alle regole. Tuttavia non mi sembra che oggi ci sia più molto spazio per crescere velocemente come in passato, i piccoli quindi possono pensare solo a progressioni molto lente. Negli ultimi anni non ci sono esempi di piccole case editrici diventate grandi in poco tempo, l’ultimo caso è quello di Adelphi. Il caso di Baldini & Castaldi non fa storia, anche perché non è mai stato un piccolo editore, sia per l’esperienza di Alessandro Dalai, sia per la sua concezione dell’editoria, sia per i capitali e le forze che aveva dietro di sé. Insomma, oggi il mercato non offre spazi per crescite rilevanti, a meno di non possedere molta aggressività, molti capitali e molta bravura. Ma il risultato non è comunque scontato, come per altro ha dimostrato l’esperienza negativa di Anabasi. E, più in piccolo, quella di Donzelli, che non ha saputo gestire a dovere il successo del libro di Bobbio.
 
Come fa un piccolo editore per difendersi dalla concorrenza dei grandi che arruolano i suoi autori più interessanti?
Io cerco di non rassegnarmi allo strapotere dei grandi editori. Per me difendere la casa editrice significa seguire e difendere gli autori, così ad esempio per gli autori stranieri acquistiamo da subito più titoli per legarli in maniera più stretta a noi. Non cerchiamo mai di rubare gli autori agli altri editori, ma quando abbiamo trovato un autore in cui crediamo, lo difendiamo, sia per quanto riguarda gli anticipi sia per quanto riguarda la visibilità in libreria. L’autore sa di poter contare sul nostro impegno, sa che le relazioni in una piccola casa editrice sono più facili e semplici. Tutto ciò conta. Poi, naturalmente, contro certi assegni dei grandi editori noi non possiamo combattere, ma in nove casi su dieci siamo sempre riusciti a far restare con noi gli autori che ci interessavano.
 
Quali problemi vi crea la rotazione sempre più veloce dei titoli in libreria?
La rotazione dei titoli non la fanno solo i grandi, la facciamo anche noi, visto che quando un libro non vende almeno 4-500 copie all’anno, non lo seguiamo più, lo lasciamo in catalogo ma tenendolo solo in magazzino. Naturalmente anche noi, quando siamo obbligati, mandiamo al macero, anche perché il nostro magazzino non può contenere più di 100.000 copie: il che significa, per un catalogo di 400 titoli, 250 copie a titolo. E siccome ogni anno facciamo 30 novità, lo spazio dobbiamo per forza trovarlo da qualche parte. Insomma, di fronte a un libro che non va, non credo che da parte nostra ci sia meno cinismo che in una grande casa editrice. Per noi, anzi, può essere addirittura una questione di sopravvivenza. La differenza è che noi arriviamo a questa decisione diversamente, insistendo di più, facendo scelte più meditate. A volte i grandi editori pubblicano un libro senza sapere nulla dell’autore, se poi però non va bene subito, lo scaricano. Noi invece esploriamo al massimo le potenzialità di ogni autore, cerchiamo ogni minimo segnale positivo per poter insistere. La nostra ottica è sempre quella dei long seller, di libri che devono vivere nel tempo, trovando a poco a poco il loro pubblico. Non miriamo mai a un successo immediato, né scegliamo un libro in base a circostanze esteriori. Insomma, continuiamo a lavorare come agli inizi, in modo artigianale ma molto accurato.
 
Il modello della piccola editoria rappresenta un modo di lavorare più vicino allo spirito dei primi editori moderni. Ma si può parlare di un’etica della piccola editoria come si faceva qualche anno fa?
Per me la parola etica è molto importante, anche sul piano economico. Anzi, l’eticità nasce proprio sul piano economico, perché la capacità di far quadrare i conti è la condizione dell’indipendenza editoriale. Una impresa sana può essere indipendente, non ha bisogno di alcun finanziatore esterno. Quindi, i conti costituiscono il ritmo della casa editrice, non possono mai essere disgiunti dal progetto culturale. Ma ciò non significa fare libri solo a “scopo di lucro”, come diceva Tatò: il «lucro» è importante, ma deve essere una conseguenza del progetto editoriale, non la premessa che determina ogni scelta. Noi prima decidiamo di fare certi libri che ci sembrano belli o necessari, e solo in seguito vediamo come fare per far funzionare economicamente queste scelte: il “lucro” non è la finalità dell’impresa editoriale, ma la condizione per realizzarla. Noi non facciamo libri solo per fare soldi, senza dimenticare che poi anche a volerlo – con questo lavoro è difficile arricchirsi. Quello che conta è l’aspetto artigianale e passionale dell’attività editoriale, la scoperta degli autori, la voglia d’inventarsi dei libri: sono questi gli aspetti che mi piacciono e mi spingono a continuare a fare l’editore.
 
Tuttavia i progetti di un piccolo editore si scontrano spesso con il limite delle scarse risorse finanziarie …
È vero, mi è capitato spesso di non fare certi libri o di non prendere certi autori perché non avevo abbastanza risorse economiche. È un problema che si pone soprattutto nelle fasi di crescita, dove si avrebbe bisogno di finanziamenti importanti. È per questo che noi cerchiamo di crescere lentamente, facendo compromessi e mediazioni, arrivando fin dove possiamo arrivare senza forzature. Ma non è sempre facile, anche perché ci si scontra con una concorrenza molto agguerrita.
 
Vi sentite coinvolti dalla crisi del mercato e dalla contrazione della lettura oppure siete abbastanza protetti per il tipo di libri che fate?
li nostro è un pubblico di lettori forti o comunque con abitudini consolidate di lettura, quindi sentiamo meno la crisi. Anzi direi che siamo addirittura in controtendenza. Più in generale, mi sembra che lo spazio per i piccoli editori – quelli con un fatturato tra l ,5 e 10 miliardi – continui a esistere. In realtà, la crisi mi preoccupa per le librerie, specie quelle che cercano di spingere i libri di qualità, senza lasciarsi invadere dai best-seller. Queste librerie, che sono il nostro canale di vendita privilegiato, sono quelle che soffrono di più della crisi: se dovessero chiudere, per noi sarebbe un problema enorme.
 
Non siete mai entrati nella grande distribuzione?
Sì, per un certo periodo ci abbiamo provato, poi però abbiamo smesso perché, non avendo abbastanza titoli adatti ai supermercati, non potevamo alimentare regolarmente l’offerta e il problema delle rese diventava troppo difficile da gestire. In realtà, la grande distribuzione funziona soprattutto per i grandi editori, senza dimenticare che la società che la rifornisce tende a escludere gli editori che non appartengono al gruppo dei soci. Ma a parte queste considerazioni tecniche, abbiamo smesso anche per non danneggiare le librerie situate vicine ai grandi magazzini. Se insisto sull’importanza delle librerie è perché esse svolgono una funzione essenziale nella trasmissione della lettura. In Italia, infatti, esiste uno zoccolo duro di lettori che leggono, che continueranno a farlo e che trasmetteranno la loro passione ai figli. Ma a questi lettori è necessario non far mancare un certo tipo di librerie, un certo tipo di critica, un certo tipo di informazioni o di manifestazioni in favore del libro e così via. È per questo che bisogna difendere il libro e la lettura anche politicamente, imponendo il prezzo fisso e limitando gli sconti.
 
Ma i piccoli editori si sentono difesi dalle associazioni di editori?
Assolutamente no. L’AIE è un’associazione per gli editori di scolastica, per i grandi editori e per gli editori milanesi. Noi siamo piccoli, siamo romani e pubblichiamo varia. D’altro canto, l’Associazione dei piccoli editori non ha nessuno spessore. Insomma, sul piano associativo la situazione non è certo brillante, senza dimenticare poi che sul piano politico le cose vanno anche peggio, visto che coloro che si occupano di queste problematiche sanno poco o nulla dei veri problemi del libro. Per i politici, l’editoria di cultura è l’ultima delle preoccupazioni, forse anche perché di politici che siano al contempo lettori veri ce ne sono molto pochi. Non a caso sono anni che a livello governativo non si fa nulla per il libro. Naturalmente non chiedo un’editoria sovvenzionata, ma solo un intervento per regolamentare il mercato, stimolando la lettura. Non si tratta infatti di chiedere soldi per gli editori, ma d’inventare una vera politica per il libro e per la lettura.
 
In conclusione, qual è la dote più importante per un piccolo editore?
Forse la modestia, la capacità di restare con i piedi per terra. Oggi purtroppo l’editoria è piena di narcisisti e di illusi. Invece in questo lavoro è sempre importante capire lo spazio reale che si può occupare, senza farsi accecare dall’invidia o dalle illusioni. Poi naturalmente c’è il famoso discorso del fiuto, la capacità di fare i conti, di circondarsi di persone con cui si lavora bene, ecc. Tutte cose che servono a fare i libri e a farli bene.