La luce di Pietro Citati

Per Citati i miti sono un repertorio di immagini sontuose e metafore scintillanti, «libri scritti con la calligrafia colorata dei cieli» che è bene non dissigillare sino in fondo. In luogo di offrire una terapia contro la realtà, essi ci fanno «intravedere le verità segrete dietro lo spettacolo illusorio della realtà», cioè ci orientano verso il divino – sorta di high class del mondo quotidiano, qualcosa di tremendamente più elegante attraverso cui possiamo «infuocare per secoli i nostri pensieri».

L’ultimo libro di Pietro Citati ha un titolo barocco e un sottotitolo che cela una piccola bugia: La luce della notte. I grandi miti nella storia del mondo (Mondadori, 1996). Esso ospita infatti capitoli dedicati a sistemi mitologico-religiosi pagani, cristiani, taoisti, islamici, ma altresì ritratti biografici, descrizioni di testi celebri, genealogie di opere ormai entrate nel sistema vascolare della letteratura mondiale o semisconosciute al grande pubblico. Quale rapporto potrà mai esservi tra «i grandi miti del mondo» e il fiabesco Secret Commonwealth immaginato da Robert Kirk, scrittore del Seicento noto solo a un’élite di lettori, o il Cabinet des fées edito in Francia alla fine del Settecento, o l’elaborata stesura leopardiana dellInfinito, o la descrizione apologetica dell’immaginario di uno schizofrenico? La domanda è talmente cruciale, da consigliare una triplice scansione argomentativa: il mito, Citati, il mito di Citati.
Le ricerche succedutesi a ritmo incalzante dal Settecento ai giorni nostri sono pervenute a conclusioni talvolta antitetiche: il mito sarebbe di volta in volta la rielaborazione tardiva e tecnicizzata di un sistema di credenze religiose, il racconto che avrebbe in origine accompagnato sequenze rituali di carattere mistico, un tentativo di razionalizzare in termini simbolici l’origine del mondo, la trascrizione allegorica di fenomeni atmosferici, il residuo ormai insignificante di culti praticati chissà dove e da chi. Si tratta di territori scientifici in cui il disaccordo regna sovrano. Per Roland Barthes, che li detestava cordialmente, i miti si identificavano con il buon senso, cioè con un sistema doxastico, un linguaggio che pretendeva di essere più naturale, originario, genuino di altri; quanto a Furio Jesi, la sua ipotesi era ancora più radicale: scienza del mito è ciò che si occupa di un oggetto inesistente. Una cosa resta tuttavia certa: in termini antropologici, da Max Muller a Lévi-Strauss e Hans Blumenberg, il mito non ha mai smarrito una valenza terapeutica, poiché contro l’informe e il senza nome, contro il caos e l’incalcolabile l’uomo può opporsi solo narrando delle storie, battezzando individui e fenomeni (cioè trovandogli dei nomi), mettendo in sequenza eventi apparentemente privi di relazioni causali. Il mito come dimora e strumento di impaesamento: è questa funzione sociale che si riscontra di volta in volta dietro l’edificazione moderna di mitologie, dal complesso sistema romantico focalizzato su icone cavalleresche all’aura leggendaria delle rock-star di oggi, si tratti di Jim Morrison o John Lennon. In una certa misura la letteratura ha ereditato tali funzioni conoscitivo-terapeutiche, che hanno il solo scopo di attenuare l’estraneità del reale o tout court di vanificarlo. Le parole messe-in-testo, l’elaborazione di racconti trasformano ciò che ci accade in ciò che noi o qualcuno ha deciso di far accadere; l’opacità del mondo si illumina di intenzioni; l’esercizio della volontà rende disponibili per l’uomo le cose; l’allestimento di cause, l’invenzione di origini, la fissazione dei racconti in un canone fisso di testi consentono all’individuo di estorcere una promessa utopistica alla realtà. Dove c’è mito, lì letteratura e terrore hanno trovato una autentica consanguineità. Forse solo i tabù, diceva Hans Blumenberg, custodiscono la realtà «al naturale», con la sua potenziale inimicizia, la sua condizione d’essere prima che il mito (e la sua secolare rielaborazione: la letteratura) la ricodifichi.
Nulla di tutto ciò è vero per Pietro Citati. Per lui i miti sono un repertorio di immagini sontuose e metafore scintillanti, «libri scritti con la calligrafia cifrata dei cieli» che è bene non dissigillare sino in fondo. In luogo di offrire una terapia contro la realtà, essi ci fanno intravedere «le verità segrete dietro lo spettacolo illusorio della realtà», cioè ci orientano verso il divino – sorta di high class del mondo quotidiano, qualcosa di tremendamente più elegante attraverso cui possiamo «infuocare per secoli i nostri pensieri». Essendo fregi ornamentali, è naturale che i miti ricorrano per Citati alla più barocca delle figure retoriche, l’ ossimoro, in cui gli opposti si toccano e le contraddizioni dell’esistente cessano di affliggerci: lampi di luce generati dall’oscurità notturna, piaceri dolorosi, inconsce consapevolezze. Intere catene di produzione hanno sin dall’antichità tayloristicamente manufatto ossimori: «una contraddittoria ricchezza di pensieri, di immagini, di visioni, di sentimenti, di riti, che formavano un’unità complicata». Non solo Apollo era la luce che s’immerge nella notte, un portatore di ordine e razionalità in antitesi marinistica con Ermes, il quale coltivava l’imprevisto e il caso. Erano i greci stessi a essere innamorati degli ossimori, nella consapevolezza che ogni antitesi, «dopo avere esaurito il proprio urto, deve risolversi in una conciliazione più vasta»; quanto alla letteratura, anch’essa nascerebbe da un’antitesi tra la forma apollinea, nobile e distante, armonica e tragica, e la forma ermetica, comica e onirica, scomposta e menzognera. Persino la letteratura contemporanea, «sotto mille travestimenti», può essere ricondotta a quella originaria polarità morfologica.
Né il predominio dell’ossimoro è confinato negli angusti limiti cronologici della mitologia greca: ogni mito è infatti «più sottile di Lévi-Strauss o di de Santillana», e consiste precisamente nell’ «infinita ricchezza di accostamenti che ci consente». Nerone fu un «sole tenebroso, avvolto da una nube fosca», «un sole che arde, dissecca, incenerisce tutte le cose sfiorate dal suo fiato pestilenziale»; Plutarco osservò come un feticcio il principio di contraddizione; Apuleio aveva più che mai pratica di luci notturne; Agostino fu addirittura un produttore di ossimori, uno specialista nel cogliere «il senso segreto di tutte le antitesi»; Shahrazad nelle Mille e una notte «vive nella notte ma vince le tenebre» con i suoi arabescati racconti; Giambattista Basile mescola «reale e fiabesco»; il Flauto magico nasce nel segno di un «atro splendore»; gli schizofrenici sono dei veggenti accecati dal loro sapere. Potrebbero essere le testimonianze comparate di quella logica binaria studiata da Lévi-Strauss: nato come formazione di compromesso tra il sapere e il non-sapere, strutturato secondo opposizioni semantiche trasponibili da un ambito a un altro (buono/malvagio; secco/umido; luminoso/oscuro; dolce/salato ecc. ), il mito ha inventato un alfabeto sommario e suggestivo attraverso cui narrare il mondo. Ma a Citati non interessano né le morfologie del testo, né le visioni del mondo che esse veicolano, soprattutto in virtù dell’idea aristocratico-personalistica che egli si è fatto della letteratura. Ciò ci introduce alla seconda area tematica.
Pietro Citati nasce all’inizio come un potenziale Giovanni Macchia, ma il lettore paradigmatico resta per lui Sainte-Beuve. Colto normalista, in grado di introdurre garbatamente pagine di Leo Spitzer o tradurre testi classici, ben presto egli si è orientato verso le biografie letterarie dei Grandi Autori (Goethe, Manzoni, Mansfield, Tolstoj, Kafka, Proust). Ma si cercherebbero invano minuziosi riscontri fattuali, date, eventi piccoli e grandi, resoconti circa la stesura delle opere maggiori; parimenti, a latitare sono le analisi testuali, i rilievi stilistici, le classificazioni morfologiche. La teoria della letteratura -vale a dire lo studio della funzione sociale, antropologica, culturalmente modellizzante di un testo – è per Citati un inutile o insensato discorso sul nulla. La letteratura è per lui un sintomo del Grande autore, l’indizio di una grandezza che va ammirata; l’esercizio critico saggistico un retrocammino che dall’opera conduce all’emittente; il testo un vascello che traghetta chissà dove e per quali micidiali eleganze. Nella percezione che lo scrittore «classico» ha della realtà è già sin dall’inizio presente quell’ordine di significazione entro il quale si iscrive la letteratura. L’asma di cui si narra nella Recherche non è per esempio l’asma sintattica della frase proustiana, non un elemento tematico che si contrappone alla supremazia anche biologica dei Guermantes, bensì qualcosa che noi non avremo mai la fortuna di possedere: un lenocinio dei sensi, uno strumento di potenziamento sensoriale, soprattutto una ragione di somma sofferenza. Così è per il mito: lì, in regioni di un esotismo impraticabile, senza ufficiali di dogana che chiedano il rispetto della logica aristotelica, in una extraterritorialità semantica ed etica nasce l’ossimoro, cioè il bizzarramente decorativo, l’armonizzarsi di tutto con tutto, la licenza poetica, la libertà di espatrio morfologico. Qui Citati si fa normativa. Un grande scrittore? È colui che si consente «la corposa visione dell’invisibile» poiché sa, come Shakespeare, che «le forme essenziali della realtà debbono essere visibili, palpabili, materiali». In questo senso non stupisce che almeno quattro sezioni del volume siano dedicate alla fiaba (Le mille e una notte; Lo cunto de li cunti; Le Cabinet des fées; The Secret Commonwealth), un genere letterario liberatorio per antonomasia, in apparenza privo di funzioni conoscitive, multicolore e meraviglioso – diceva Calvino – come un tappeto persiano. Eppure, è esattamente nella fiaba che si celano le più crudeli strategie di rivalsa e risarcimento (si pensi a Shahrazad), è quello il luogo in cui gli autori scelgono l’occultamento della paternità nel momento stesso in cui si rivolgono a un pubblico in erba di figli potenziali, oppure, come ha dimostrato Robert Darnton, a proposito di una versione francese settecentesca di Cappuccetto rosso, configurano strutture narrative in cui alberga il maggior numero di pulsioni primordiali e un iperfagismo generato dalla fame dei narratori-contadini. Nessuna fluorescenza velata, nessuna bizzarria decorativa sembra essere dunque all’origine degli ossimori fiabeschi, ma Citati li attraversa come si può visitare Las Vegas, dove si passa dal medievismo dell’hotel Excalibur all’Oriente fascinoso dell’Aladdin o alla fiaba faraonica del Luxor, in cui si delibano cocktail in coppe a forma di obelisco.
Più complesso – ma non certo impossibile – spiegare come si sia prodotto un mito di Citati. La sinergia giornalismo/editoria saggistica come processo di collaudo del mercato, una scrittura flebilmente immaginosa, la scelta di soggetti «alti» unita a un target medio-basso gli hanno consentito, in modo non dissimile al «mitologo» Roberto Calasso, di avocare per sé un pubblico elitario di massa. Una prospettiva di sociologia della letteratura ha infatti grande rilievo nello spiegare il successo della produzione citatiana (La luce della notte, indubbiamente uno dei suoi testi più deboli, è già alla terza ristampa), da sempre schierata contro il nuovo modello di letteratura popolare quale ha preso forma negli ultimi vent’anni. Clive Bloom, il maggiore studioso nel mondo anglosassone della cosiddetta cult fiction, un insieme di testi tra cui spiccano Star Trek e le soap-o pera, i romanzi di Stephen King, pulp thriller come American Psycho di Bret Easton Ellis o The Silence of the Lambs di Thomas Harris – vi ha riscontrato le seguenti costanti: un’attenuazione dell’idea di creatività e un eguale potenziamento delle condizioni di consumo del testo; un incremento delle forme ibride e pidginizzate, poligenetiche, multiculturali; un potere modellizzante esercitato dai media cine-televisivi attraverso l’adozione di un «realismo della visibilità» a ogni costo; l’introduzione di personaggi mai contemplanti, bensì mostrati nel momento in cui agiscono o subiscono atti di volizione altrui; la rielaborazione di linguaggi «secondari», riusati all’infinito in contesti differenti; la balcanizzazione tematica dei testi, in cui ogni motivo entra in conflitto con quelli contigui, in modo disarmonico e cruento; in fine il culto del corpo diffranto, evacuato, svuotato delle sue interiora e ridotto a pulp nella direzione appunto di una ipervisibilità.
È a tutto questo repertorio dolentissimo e funesto che si oppone non da oggi Citati, e ciò gli procura un pubblico di nostalgici del corpo unitario e armonico, del personaggio contemplante e depulpizzato, delle morfologie pure e «primarie», del decorum creativo. La letteratura, o meglio la grande letteratura, è la conquista di una distanza «classica» dalla realtà, un suo stilizzato, duttile sdoppiamento: l’assunzione di un testo nel Canone (e il fixing, il momento di assegnazione dei valori, è per Citati l’a priori di ogni lettura) deve necessariamente passare attraverso una tale procedura eufemizzante. Tolstoj, per esempio. Se si prescinde dalla sua opera letteraria, peraltro scritta in un ostile cirillico, e si esclude altresì il fatto che la realtà è spesso in lui oggetto di un virulento anatema, egli spicca per la sua energia penetrativa e istrionica, per uno sguardo sempre in odore di realismo: si mette nei panni di chiunque, acquisisce tutti i «punti di vista», si lascia plagiare dal primo individuo che incontra per carpirne «quella sostanza preziosa che lui solo conosce», a cominciare dai gesti, poiché «un romanziere ha una qualità in comune con un attore; è ossessionato dai gesti». Proust, per esempio. È una colombe poignardée, l’immagine dell’innocenza trafitta dal dolore e dal senso di colpa, ossessionato come nessun altro dal problema del «punto di vista»: «con quell’aria abbandonata, col viso pallido, con gli occhi grandissimi, il riso malinconico, sembrava un Pierrot». E la Recherche, questo corpo testuale ritualizzato, in cui alcuni nuclei tematici resistono a ogni trasformazione periferica? Come si vede, non c’è grande differenza tra i due autori riscritti da Citati, entrambi forniti della suggestione dell’irripetibilità, affratellati dall’assunzione certificata nel Canone e dal fatto di costituire oggi un valido baluardo contro il declino della letteratura, la dissezione dei corpi, la liofilizzazione della realtà in pulp, il declino del copyright e dell’originalità, l’evidenza inappellabile dell’assurdo. Per Citati, la grandezza di questi scrittori non deve arrivarci schermata dal linguaggio, avvolta in tegumenti ineluttabilmente verbali. In una finzione pre-segnica di silenzio e isolamento, egli li osserva secondo una fenomenologia della premonizione: ciò che erano, essi sono e saranno, parchi culturali ad alto voltaggio creativo, giacimenti di eleganze estetiche, antidoto contro il declino postmoderno dell’Armonia.