Tamaro e Brizzi mancano il bersaglio

Perché Anima Mundi e Bastogne non hanno replicato il successo dei precedenti best seller della Tamaro e di Brizzi? I due nuovi romanzi sono molto diversi tra loro: il primo è una sequela di santini da oratorio, il secondo è condotto sui temi trucibaldi della violenza cannibalesca. Ma li accomuna la fisionomia scontornata del narratore, cui corrisponde la mancata messa a fuoco dei destinatari elettivi.

Lasciamo perdere le polemiche ideologiche sugli echi evoliani e ancor più le vanterie d’autore sui massicci spostamenti di voti elettorali, accantoniamo pure lo snobismo con cui la maggior parte dei critici giudica i long seller, e non c’è dubbio che tale sia Va’ dove ti porta il cuore (Baldini & Castoldi, 1994), tre milioni di copie vendute in Italia, per tre volte consecutive in testa alle classifiche annuali di ‘Tuttolibri’; resta, nondimeno, il fatto incontestabile che la T amaro di Anima Mundi (Baldini & Castaldi, 1997), questa volta, non ha colpito nel segno.
Certo, il romanzo un buon numero di lettori l’ha raggiunto; le cifre dichiarate dall’editore (quasi 400 mila copie distribuite in sette mesi) non consentono paragoni con la tiratura media della normale produzione di narrativa italiana; eppure nulla di paragonabile al clamoroso exploit registrato dall’opera del 1994.
Alla base della diversa reazione del pubblico non c’è stato alcun travisamento perfido o manipolazione astiosa, come suggerisce l’autrice in un articolo di tono vittimistico – Il dolore di sentirsi fraintesa («La Repubblica» 7 giugno 1997 ) – degno delle lamentazioni di nonna Olga, protagonista del fortunato best seller. Anima Mundi non ha replicato il successo di Va’ dove ti porta il cuore non per la reazione degli intellettuali di sinistra al virulento anticomunismo professato dai personaggi Walter e Andrea e neppure per un rifiuto generalizzato dell’acceso spiritualismo di su or !rene. Molto più semplicemente, l’opera non ha innescato quel meccanismo di passa parola che ha sostenuto, subito e poi per lungo tempo, il diario-testamento di un’ottantenne rivolto alla nipotina lontana.
La differenza d’efficacia fra i due testi sta proprio tutta qui ed è di indole squisitamente letteraria: nel libro del 1994 a determinare l’impianto dell’intero resoconto romanzesco era la sorniona inaffidabilità dell’io narrante, tanto più emotivamente coinvolgente quanto più ambiguamente sapienziale; in Anima Mundi ogni pagina denuncia, al contrario, l’infantilismo supponente di un narratore-protagonista, i cui lineamenti sono mal tratteggiati, la voce quasi sempre fuori tono, le esperienze patite di scarso interesse. Le elucubrazioni, tese a cogliere niente meno che l’anima del mondo, sono, infatti, attribuite a un Walter, giovane provinciale «più sensibile degli altri», affetto da complessi di colpa edipici, in preda a «furori» poco astratti ma fumosamente esistenziali, romanziere fallito e sceneggiatore sfruttato, reduce da una relazione amorosa degna delle cronache rosa di «Grand Hotel», rifugiatosi alfine nelle cellette solitarie di un convento montano. L’intreccio di vicende esili, contornato da uno sterminio di pensamenti, è reso ancor meno appassionante dal tono ispirato e catechistico con cui l’io narrante comunica le sue scoperte intellettuali: «Scampare alla morte è un po’ come nascere una seconda volta»; «Solo allora mi sono accorto di un fatto straordinario, e cioè che la vita non è un percorso rettilineo, ma un cerchio»; «La vita non è fatta per costruire, ma per seminare». Anche Va’ dove ti porta il cuore dispensava certezze consolatorie e aforismi esemplari, massime pacificanti e ovvietà del senso comune, ma la voce affabilmente struggente di una vecchina ultraottantenne, già colpita da ictus, desiderosa di lasciare testimonianza di sé alla nipote che, per salvarsi dai conflitti familiari, era dovuta scappare addirittura oltre oceano, aveva ben altra efficacia; anzi l’esito finale suonava intrigante per la rifrangenza equivoca che sui saggi consigli gettavano le vicende tutt’altro che confortanti evocate con candido e perfido disordine dalla svampita vegliarda. La scelta della scrittura diaristico-epistolare avviava subito una sintonia empatica fra io narrante e io leggente: il «tu» era certo rivolto alla ragazza assente, ma ogni lettore, meglio lettrice, si sentiva destinataria di un messaggio che se non chiedeva alcuna risposta immediata imponeva però l’acconsentimento pieno al pathos dei ricordi che procedevano per balzi retrocessioni e prolessi.
Pure il narratore di Anima M un di si avvale del dinamismo implicito nei procedimenti di flash-back: il funerale del padre induce Walter a ripensare via via l’intero corso della sua balorda esistenza e solo le ultime sessanta pagine si distendono nel presente, con una progressione peraltro interrotta da un ulteriore racconto a ritroso affidato alle lettere dell’amico Andrea, rinvenute nel convento dove si chiude la storia. Ma, qui, la tecnica compositiva non risponde ad alcuna necessità fabulatoria; l’alacrità discorsiva del libro precedente si disperde nelle maglie di una narrazione che è priva di orientamento. Solo la sequenza che descrive la visita a Roma della madre malata di cancro e l’episodio dedicato all’agonia incosciente del padre sono condotti con il raffrenato struggimento patetico di chi confessa e rinfaccia a se stesso la cecità egoistica del narcisismo. D’altronde nel momento in cui stanno per lasciare vita e prole, anche i genitori di Walter acquistano uno spessore di autenticità dolente: in queste pagine, che rimodulano il groviglio tematico del diario della nonna e dei racconti più riusciti di Per voce sola, il reticolo delle immagini traduce, esasperandone le inquietudini, l’insensatezza della convivenza domestica e l’impossibilità del dialogo fra persone legate da vincoli di affetto.
Siamo al vero discrimine che separa, sul piano espressivo, i due romanzi della Tamaro: il tessuto di paragoni e metafore che si innesta su un ordine sintattico semplice, sicuro, linearmente scandito. Una delle ragioni dello strepitoso successo di Va’ dove ti porta il cuore risiede nella sua dilagante figuratività, radicata nelle percezioni degli eventi quotidiani, lontana dall’oscurità ardua di tanta prosa novecentesca, eppur ricca di uno spessore simbolico immediatamente partecipabile. La selva di similitudini, adottate dalla narratrice quali «esempi tratti dall’universo della cucina», come lei stessa suggeriva, non solo ne corroborava il tono sapienzale ma garantiva la carica di vitalità strenua e combattiva che, lungo la direzione matrilineare, doveva pervenire come lascito testamentario alla nipote in cerca della propria identità. In Anima Mundi l’accumulo ridondante dei campi semantici che germinano l’uno dall’ altro suscita, al contrario, un’impressione di artificiosità gratuita e manieristica: fuori dalle cadenze familiarmente conversevoli del diario, il cortocircuito delle immagini che accostano Baudelaire e le pentole, l’apocalisse di San Giovanni e il gatto che si morde la coda non produce alcuno scarto di senso, crea unicamente abbagli fastidiosi. Non dissimile è l’effettismo allusivo che accoglie il lettore sulla soglia del testo, dove l’indice suddiviso in colonne, denominate Fuoco Terra Vento, lungi dall’indicare la partizione per capitoli, rimanda alle grandi scansioni della vita. Ancora una volta la T amaro vuole lanciare un messaggio alto e forte: ma la voce salvifica, specie nell’impatto col vuoto, rischia di diffondere solo rimbombi. n libro si apre, infatti, con un incipit non si sa se più profetico o disarmante: «In principio era il vuoto» (e il termine scandisce, con un ritornello parossistico, l’intero capitolo iniziale), e sembra poi girarvi intorno con spirali inconcludenti: non basta certo a colmare la percezione dell’assenza la coltre eli neve candida che, nell’epilogo, ricopre la tomba di suor Irene. Troppe volte ormai la letteratura del Novecento ha indicato l’abbandono, oltre le misure della ragione, al flusso indistinto dell’esistenza, in un moto regressivo di ritorno al grembo materno: «Ero il seme e la pianta e il piccolo cavallo … ».
Altrettanto vorticosamente priva di centro, ma senza pretese di redenzione è la spavalda carogneria dei personaggi di Bastogne (Baldini & Castoldi, 1996). Nella seconda prova di Brizzi, il ripiegamento sulla memoria familiare è interdetto, le pause di meditazione pensosa cancellate, sbeffeggiata ogni ambizione di lanciare insegnamenti esemplari. n montaggio veloce e franto, reso ancor più sincopato dalla consueta tecnica a flash-back con «coda» finale, mostra la bravura compositiva del giovane scrittore bolognese; l’accavallarsi di registri stilisti ci che coniugano suggestioni fumettistiche, influenze cinematografiche, gerghi musicali rivela un’abilità narrativa non comune. La rapina al ristorante cinese, in un gioco di piano-sequenze che alterna fissità spaurita e frenesia aggressiva o l’allocuzione diretta alla ragazza Palpebrabella durante la festa del mercoledì ottengono effetti di sicuro impatto. E tuttavia, il confronto con Jack Frusciante è uscito dal gruppo (prima edizione Transeuropa, 1994, poi Baldini & Castoldi 1995, 700 mila copie vendute) procura un’impressione di forte sbandamento: anche in questo caso, la seconda prova d’autore non colpisce il bersaglio.
Ad accomunare Bastogne, condotto sui toni trucibaldi della violenza cannibalesca, ad Anima Mundi, sequela di san tini da oratorio (Alberto Rollo, «Linea d’ombra», aprile 1997), è una scelta d’ordine propriamente elocutivo: la fisionomia scontornata del narratore, cui corrisponde la mancata messa a fuoco dei destinatari elettivi. In questa distorsione prospettica, che oppone le opere recenti della Tamaro e di Brizzi ai rispettivi best seller del 1994, sta la ragione del mancato replay del successo. L’ambizione di entrambi gli scrittori, nel primo caso la volontà di lanciare un messaggio di palingenesi universale contro i fanatismi del secolo, nel secondo il desiderio di accreditarsi come romanziere capace di giocare su una gamma difforme di toni e registri, ha vanificato quel dialogo stretto con i lettori che aveva alimentato la fortuna dei due libri precedenti. Se Va’ dove ti porta il cuore aveva privilegiato l’ottica femminile, lungo la catena matrilineare delle generazioni, la prospettiva adolescenziale del «Vecchio Alex» si era incontrata con le aspettative diffuse dei lettori giovani, immersi nel sound dei batteristi rock e nelle conversazioni iniziatiche su «tette e fiche e culi» (Jack Frusciante). Le note tratte dall’ «archivio magnetico del signor Alex D.» si integravano nei «ragionamenti» del narratore, così incline a calarsi nei panni del protagonista da suggerire d’essere la sua controfigura più vecchia di soli pochi mesi. Nella prima opera di Brizzi, la consonanza amicale – «la nostra generazione» – si nutriva di una mistura caleidoscopica di citazioni scolastiche, sigle pubblicitarie, slogan calcistici, richiami musicali, capace di ridisegnare l’universo della pubertà con straniata tenerezza ribelle. In Bastogne a suonare gratuita non è solo la dose massiccia di efferatezza misogina o il carico di droga, aspirata, iniettata, fumata a ogni momento; è soprattutto l’alternanza immotivata di voci narranti, in prima e in terza persona, a cui è delegato il compito di rievocare in presa diretta le vicende di due stagioni (settembre 1983 -maggio 1984) ormai lontane (l’epilogo è datato 1992). A venir offuscata è l’ottica complessiva del racconto; l’equivoca distanza prospettica da cui sono guardate le esperienze dei quattro viziati malavitosi impedisce al lettore di attivare il necessario contrappunto di criticismo e empatia; cosicché la sequela di episodi sconvolgenti e brutali ingenera, nell’ostentata uniformità prevedibile, noia e disagio. La scena del Cancelliere e della mutter piccolo borghesi davanti allo «schermo radioattivo grundig» o il suicidio acido dell’amico Martino, in Jack Frusciante, erano ben più intriganti di quanto appaiono le orge del rammollito papà Claypool, per tacere dell’ovvietà con cui è schizzato il mondo artistico-intellettuale di una Bologna in salsa nizzardo-nietzschiana. L’azzeccato ritratto di Pazienza che campeggia nella copertina di Bastogne stona maledettamente con la dotta e moralistica epigrafe di Marziale, mentre il titolo, al pari di Anima Mundi, è ben lontano dal racchiudere le suggestioni generazionali che l’altro sprigionava.
Certo, il progetto di Brizzi di non replicare semplicisticamente l’impasto espressivo di «scout catholic punk» che l’aveva reso famoso è comprensibile e apprezzabile: ma Bastogne, nel denunciare lo sforzo esibito del capovolgimento, perde in freschezza e originalità. Lo testimonia, a contrariis, l’unico episodio del romanzo condotto sui timbri, cari al «vecchio Alex», del rincrescimento elegiaco: il refrain di una famosa canzone di De Gregari sembra riecheggiare sullo sfondo di una partita di calcio di quartiere, dove la massima vigliaccata per il protagonista sarebbe tradire la fiducia di alcuni mocciosi dagli occhi splendenti. A esso si intona, in fondo, la nota di melanconia patetica su cui si chiude il libro. Dopo otto anni di forzato esilio dorato, Ermanno torna a incontrare l’alcolizzato amico Dietrich, l’unico proletario del gruppo, che ha pagato con la galera la delinquenza feroce dei compagni e la delazione del più infame: il gesto di accomodargli la maglietta sulla enorme «pancia da Santa Claus» è degno del protagonista di Jack Frusciante.