La mia pernacchietta quotidiana, intervista improbabile – anzi, del tutto falsa – a Giorgio Forattini

Signor Forattini, dove trova un vignettista l’ispirazione per disegnare giorno dopo giorno, senza perdere un colpo?
Che domanda banale, per iniziare. Nella cronaca, come tutti i giornalisti. Anche loro scrivono articoli un giorno dopo l’altro, entro orari definiti, in un numero di righe definito … È un mestiere, no? Si leggono i comunicati ANSA, si guardano le foto d’agenzia, si sceglie col direttore o con il caporedattore la notizia da commentare con la vignetta … Io mica lavoro in solitudine, lavoro in una redazione. Le idee poi vengono, la vignetta si costruisce come quando in un ufficio, tra colleghi, ci si rilassa davanti alla macchinetta del caffè.

Si costruisce. È per questo che i rari tentativi di analizzare con metodi semiologici la satira disegnata hanno trovato in lei un terreno relativamente favorevole, come se «smontare» le sue vignette, isolarne gli elementi significativi, fosse più facile che con altri disegnatori …
Vede, la caricatura classica, quella dei pittori dal Cinquecento in qua, si fonda su un principio: alterare le singole parti di un viso o di un corpo esagerandone la forma, rendendole mostruose (un gran nasone, le orecchie a sventola) e tuttavia riuscire a mantenere perfettamente riconoscibile il personaggio, addirittura più riconoscibile che in un ritratto «rispettoso». La caricatura classica è un ritratto serio spinto alle estreme conseguenze: un buon ritrattista trascura la fedeltà dei particolari per mirare all’effetto globale, e così il naso e le orecchie, presi isolatamente, saranno infedeli all’originale, ma il ritratto sarà efficace.

Più vero del vero …
Sì. Io invece lavoro nel modo opposto. Una faccia la riproduco particolare per particolare, ruga per ruga, per addizione di mostruosità e basta. Io non disegno caricature di facce, disegno caricature di nasi, di orecchie, di gobbe. Poi li accosto senza fonderli: l’espressione del personaggio è sempre la stessa, vignetta dopo vignetta, perché l’espressione di un viso è una caratteristica globale e con questo metodo di lavoro non posso controllarla. Ma funziona, perché i personaggi sono sempre riconoscibili, ciascuno riprende il suo ruolo giorno dopo giorno.

È come se nelle sue vignette mettesse in scena delle maschere, Arlecchino, Buster Keaton, Totò …
Più che altro sono dei clown: maschere sono piuttosto i personaggi di Altan, sempre uguali a se stessi, quasi mai fisicamente somiglianti a persone reali, categorie sociali fatte vignetta. E infatti la circolazione tra vignetta e linguaggio comune per Altan è perfettamente bidirezionale: Cipputi è diventato il nome collettivo della classe operaia degli anni ottanta. Io invece bado sempre al singolo, io non faccio sociologia, faccio cronaca.

Anche lei bada al linguaggio comune, però …
Per me è una vera miniera. Vede, una maschera fotografa un’epoca, un clown intrattiene il pubblico sempre allo stesso modo: fa giochi di destrezza, suona tutti gli strumenti musicali – male, ma tutti, il che è essenziale, perché il suo scopo è di stupire, catturare l’attenzione per un attimo. Per catturare l’attenzione tutti i mezzi sono buoni: la lacrima, la pernacchia, il martellone enorme (e la caricatura, si sa, è un fatto di iperbole). Il clown non scende mai in profondità, mira all’attimo.

E Les enfants du Paradis, allora?!
Roba da letterati. Solo loro caricano la figura del clown di significati esistenziali: la malinconia celata sotto il sorriso … Come Canio e tutta la sua lunga discendenza kitsch di quadri da merca tino con pagliacci lacrimosi … I letterati (di ogni livello) tentano di andare in profondità applicando l’antitesi; i veri clown si limitano all’iperbole e stop.

Non la seguo …
Lasci perdere. Voglio dire che i miei personaggi, come i clown, fanno il surf sulla politica, come gli yuppy facevano il surf sulla società negli anni ottanta. Per questo io pesco nel linguaggio comune, ma in quello che più comune non si può, quello che assolutamente tutti non possono fare a meno di riconoscere e capire. Da un lato c’è il patrimonio di stereotipi storici ormai quasi mitologici, che risale al massimo ai lettori più anziani, quelli che hanno vissuto il fascismo e il dopoguerra, da Mussolini a Wanda Osiris: facevo Craxi con gli stivaloni e la camicia nera perché «decisionista» = «duce», era praticamente un accostamento automatico – e per giunta è anche pelato …

E D’Alema, perché prima era un Hitler in camicia bruna e poi è diventato Charlot?
Anche lui è un «decisionista», ma dovevo caratterizzarlo diversamente da Craxi, e lo stereotipo più vicino era Hitler. Però, mentre Mussolini bene o male riusciamo a esorcizzarlo e a riderei sopra, Hitler era un accostamento un po’ troppo piccante. Allora meglio attaccarsi a un particolare fisico (gliel’ho detto, io lavoro per particolari): i baffetti. Dopo quelli di Hitler (detto eufemisticamente «baffino» negli anni trenta e quaranta), i baffetti più famosi del secolo sono quelli di Charlie Chaplin. Che è un comico, ma anche un personaggio di successo. Insomma, fa ridere, ma lo amiamo. Una buona soluzione: pensi se D’ Alema avesse avuto dei baffi più folti, alla Peppone. Sarei stato praticamente costretto a vestirlo da Stalin, e allora sai le polemiche ideologiche che sarebbero venute fuori … E io non sono ideologico: l’ha detto anche Oreste del Buono.

D’altra parte questo è lo stesso substrato di ricordi storici che ha garantito il successo editoriale di innumerevoli collane di divulgazione (Montanelli, Biagi e Bocca compresi), delle storie della seconda guerra mondiale a dispense, e oggi addirittura di alcuni CDROM dello stesso tema … Ma a parte la cultura storica dell’italiano medio, dove trova i suoi materiali?
Gliel’ho detto. Nel linguaggio comune, nelle battute davanti alla macchinetta del caffè. Prima di tutto le battute delle mie vignette sono assolutamente legate a situazioni effimere: io sono un cronista. Per questo nelle raccolte occorre aggiungere sempre delle didascalie che richiamino il riferimento di cronaca, che nasce e muore con le pagine del quotidiano.

A proposito di raccolte in volume: ne ho contate 27, dal 1974
Sì, una più una meno, a partire da Referendum reverendum, pubblicato da Feltrinelli (1974) con prefazione di Franco Monicelli …

Bel titolo …
Tutti i titoli delle mie raccolte sono come le battute delle mie vignette: surf sul linguaggio comune, giochi fonetici che beffeggiano parole note. Perché Insciaqquà e Bossic Instinct (Mondadori 1990 e 1993) fanno ridere? Perché alludono a due titoli (uno editoriale, l’altro cinematografico) che tutti all’epoca si sentivano martellare nelle orecchie. Accostarli ai fatti cui si alludeva nelle vignette, ma foneticamente distorti, demitizzava la politica.

Sì, ma che c’entrava la Fallaci con la politica interna, che c’entrava con Bossi la passione dei sensi?
Nulla. Per questo i titoli facevano ridere. Tutti i clown prendono in giro la gente facendo le smorfie, no? Nei miei giochi linguistici non c’entra Flaiano; caso mai c’entra Pappagone …

O magari Alvaro Vitali …
O magari, a sinistra, lo spirito con cui certi cronisti di «radio libere» nella seconda metà degli anni settanta aprivano le cronache parlamentari dei notiziari dicendo: «Il senatore Amintore Fanfani è intervenuto ieri, dopo essere salito su uno sgabello, per affermare… ». Che si crede? Alvaro Vitali e la beffa a chi ha difetti fisici (i grassoni, i piccoletti e i gobbi naturalmente) attraversano tutti gli schieramenti. La praticano tutti: è un’arma potente e non può essere confutata con nessun argomento razionale. Sono i vantaggi del surfing. A me il politically correct non mi ha mai convinto.

Già, la gobba. Può essere considerata, dal punto di vista grafico, un equivalente dei giochi fonetici? Per molti vignettisti (ancora Altan, ma anche Ellekappa, spesso Vauro) i due registri, la battuta verbale e il disegno, si muovono su piani pressoché separati, nel senso che ciascuno provoca il suo effetto, ma autonomamente: il disegno rappresenta la tipicità del personaggio, l’elemento costante, riconoscibile, la battuta verbale è l’aggancio con l’attualità, con il problema contingente.
Io spesso uso il disegno come uso il linguaggio verbale, creando delle «battute visive» equivalenti a quelli che lei chiama «giochi fonetici»: quando la situazione non offre particolari spunti alla satira, quando non bastano i particolari (baffetti, camicia nera, stivaloni), disegno dei calembour visivi: che so, un presidente del consiglio italiano dimostra improvvisa «simpatia» in politica estera per la Gran Bretagna? Eccolo che schiaccia la Thatcher in un pesante abbraccio sopra l’Union Jack, e le braccia e le gambe della premier inglese e del politico italiano vanno a coincidere con i bracci delle croci della bandiera. Tutto qui, ma che dovevo fa’? Se li facevo che si abbracciavano nudi mi dicevano che ero volgare, e poi dove sarebbe stata la battuta? In reggicalze ci metto caso mai i politici maschi, che fa ridere.

Del resto queste battute visive gratuite fanno parte della storia della caricatura, come la faccia di Luigi Filippo trasformata progressivamente in una volgare pera da Charles Philipon …
Ma certo, e per di più io traduco in linguaggio visivo alcuni elementi del linguaggio verbale della politica quotidiana, così come compaiono sui giornali: Dini è un «rospo da mandar giù» per la sinistra? Ecco che, invertendo la metamorfosi classica della fiaba, non c’è un rospo che si manifesta come un principe, ma un politico importante che assume l’aspetto esplicito di un rospo; che non è nemmeno una battuta così volgare. E poi Dini è pure brutto, brutto come un rospo, e ritorniamo alla beffa sul fisico … Vede? Tutto quadra!

Ma insomma, non capisco: la sua satira mette insieme di tutto, politica, aspetto fisico, storia, cronaca …
La cucina buona si fa con tanti sapori; e poi negli ultimi anni – l’ha notato? – è inevitabile praticare sempre più la confusione dei riferimenti. Le mie vignette non ridono più solo della politica, ma la mescolano a riferimenti di cronaca nera o rosa, a notizie culturali, alla cronaca dell’arte, della scienza, della letteratura … Un po’ perché davanti alla macchinetta del caffè si parla di tutto e si trovano collegamenti su tutto; un po’ perché la scelta di spettacolarizzare la cronaca adottata dai quotidiani mi si è attaccata alla penna. La politica è sempre più spettacolo? E allora diventa solo una delle componenti della satira, insieme a tutto il resto. L’importante è fare satira.

Qualche volta però lei rinuncia alla satira: per esempio in certe vignette disegnate in occasione di fa ~ti gravi di terrorismo internazionale, dove al posto della battutaccia c’è la commozione, l’omaggio rispettoso; oppure ogni tanto ci scappa la vignetta sul direttore (vecchio o nuovo), piuttosto bonaria, altro che velenosa …
Io non sono uomo da veleno, non avrei tanto successo; sono uomo da gomitata (d’intesa o nelle costole), da pacca sulla spalla … Che diamine, anche i vignettisti ogni tanto si rilassano, che crede? E poi, come le ripeto, io lavoro in una redazione: quando succede un fatto importante come un cambio di direttore, è come quando nasce un bambino in famiglia: lo si fa sapere a tutti i parenti, cioè ai lettori. Ecco, c’è una vita politica e c’è una vita di famiglia separate.

Insomma lei insiste a dichiararsi non ideologico?
E che, i film con Alvaro Vitali erano ideologici? Vogliamo ricadere nei giudizi manichei degli anni settanta? Il pernacchio non è ideologico, è liberatorio, ce l’ha insegnato Eduardo – ricorda L’oro di Napoli? Ma io non amo il pernacchio epico, cosmico, un’operazione teatrale che va preparata, montata, provata … Troppo impegnativa: è una dichiarazione di rivolta. Quel che ci vuole è una pernacchietta quotidiana, la mattina dopo il caffè, per incoraggiarci a ricominciare. All’inizio di ogni giorno di lavoro, alla gente fa piacere poter fare una pernacchietta, un ghigno alle spalle di qualcuno. Poi tutto va come prima, ma la testa è più leggera.