Ero la moglie di Roberto Longhi e non volevo coinvolgerlo nei miei esperimenti letterari. Non volevo neppure usare il mio nome di ragazza, Lucia Lopresti, con il quale avevo firmato a suo tempo alcuni articoli d’arte. Fu per questi motivi che decisi di usarne uno completamente nuovo. Scelsi Anna Banti perché era un nome che mi piaceva. Apparteneva ad una signora, una lontana parente di mia madre, che avevo conosciuto quando avrò avuto dodici, tredici anni […] mi era rimasta nella memoria soltanto l’immagine di una donna misteriosa e quel suo nome che mi sembrava bellissimo.

Nata Firenze nel 1895 da genitori di origine calabrese, trascorre nella campagna toscana un’infanzia felice e rigorosa nell’educazione e nella lettura, scandita da pomeriggi dedicati a lunghe conversazioni in francese con il padre, che introdurrà la giovane Anna a quelli che diventeranno i suoi modelli narrativi: Balzac, Manzoni, Verga e Proust.
Si laurea in Storia dell’arte presso l’Università di Roma con una tesi su Marco Boschini, scrittore d’arte del ’600, e ben presto decide di sposare Roberto Longhi, critico d’arte già affermato, incontrato negli anni di liceo come insegnante.
Anna Banti inizia la sua attività di critica d’arte firmando alcuni contributi sulla rivista «L’Arte» diretta dal suo relatore di tesi Adolfo Venturi, riscuotendo gli elogi di critici affermati e dello stesso Benedetto Croce. L’ultimo articolo firmato con il nome Lucia Lopresti è del 1929: ben presto deciderà di dedicarsi alla narrazione, benché il contesto dell’arte resti uno dei fulcri del suo itinerario creativo, e questo non solo perché redigerà biografie di carattere specialistico (su Lorenzo Lotto, Claude Monet, Giovanni da San Giovanni, Matilde Serao…) ma proprio poiché la contaminazione con il mondo dell’arte, con l’autobiografismo trasposto e con il tema della donna, plasmeranno una tipologia descrittiva e creativa inconfondibile nel panorama letterario del Novecento.
Il nuovo nome d’arte appare con il primo racconto del 1934 Cortile pubblicato nella rivista «l’Occidente» ma il suo esordio come scrittrice si deve a Itinerario di Paolina, di forte sperimentalismo tardo rondista, organizzato sulla presenza di tredici capitoli costituenti tredici diversi nuclei autonomi.
Durante gli anni della guerra la produzione bantiana si articola in diversi ambiti: da un progetto monografico su Lorenzo Lotto a una serie di articoli di costume passando attraverso importanti traduzioni come quella del romanzo di William Makepeace Thackeray Vanity Fair.
La raccolta di racconti Il coraggio delle donne (1940) anticipa di solo un anno la pubblicazione del romanzo Sette Lune, che può essere inteso come una prosecuzione del filo interrotto in Itinerario di Paolina, dove importante a livello narrativo risulta essere la scelta della terza persona verso il superamento del passato come tempo personale e la piena adesione al fatto supposto.
Il periodo bellico è segnato da momenti duri che culminano nel trasferimento del 1944 dei coniugi Longhi in una piccola casa in Borgo San Jacopo a Firenze per poi sfollare in Palazzo Pitti prima dei bombardamenti tedeschi a Santa Trinità. Nelle macerie della casa di Borgo San Jacopo si perdono il primo manoscritto di Artemisia e quello di un secondo romanzo, ancora agli albori, Il bastardo.


Artemisia, edito poi nel 1947, sarà totalmente rimaneggiato nella versione post-bellica: dalla linearità, a quanto pare, del racconto biografico della prima stesura si passerà a un inestricabile coagulo di personalità narranti, dall’autrice alla terza persona al personaggio stesso divenuto demiurgo. È il romanzo che rende Anna Banti nota e apprezzata dal grande pubblico.
Da questo momento in poi la figura di Anna Banti sarà annoverata tra quella di scrittrici, come la definirà Cecchi sin dai suoi esordi, «complesse e riflesse», e desterà l’interesse di editori come Mondadori dove arriverà prima come traduttrice di Virginia Woolf e poi come autore d’élite, firmando un sodalizio durato fino agli anni ottanta.
La sua attività prosegue instancabilmente: Le donne muoiono vincitore del premio Viareggio 1952, è contemporaneo agli anni in cui nascita la rivista «Paragone» un progetto portato avanti assieme al marito Roberto Longhi. Rivista semestrale con numeri dedicati rispettivamente a temi dell’arte e della letteratura, vede in Anna Banti una figura attenta a scandagliare il panorama letterario italiano alla ricerca di nuovi talenti, tra i quali figura Pasolini.
Numerosi i premi letterari ricevuti: nel 1955 il premio Marzotto con Allarme sul lago seguito nel 1957 dal premio Veillon per La monaca di Sciangai e altri racconti e nel 1967 dal premio Asti d’appello per Noi credevamo, romanzo storico di argomento risorgimentale (attualmente tornato alla ribalta per la resa cinematografica ad opera di Mario Martone); nel 1972 il premio Bagutta per Je vous écris d’un pays lontain, nel 1973 il premio D’Annunzio per La camicia bruciata.
Bisognerà attendere il 1981 per trovare nell’eterogenea produzione bantiana un nuovo romanzo: stiamo parlando di Un grido lacerante, opera ultima della Banti ormai ottantaseienne, e da molti definito come una trasposta autobiografia edita pochi anni prima della morte dell’autrice, avvenuta nel 1985 a Ronchi di Massa.


Il volume che rende Anna Banti famosa presso il grande pubblico è Artemisia, edito per la prima volta dalla Sansoni nel 1947 ma ripubblicato per Mondadori nel 1953 (“Narratori italiani”) e poi nella collana “Il bosco” nel 1965. È la storia, riscritta dopo la perdita del manoscritto originario, della pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, definita da Roberto Longhi «l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità». Una vita, quella dell’artista fiorentina, in cerca dell’affermazione di sé e del riconoscimento della propria abilità al di là dell’essere donna.