Tabucchi e il moribondo

«Dove comincia la storia di una vita, voglio dire, come fai a scegliere?». Si apre così, con una domanda scopertamente metaletteraria, Tristano muore. Il protagonista dell’ultimo romanzo di Antonio Tabucchi è un uomo prossimo alla fine che ripercorre la propria esistenza in un lungo monologo rivolto allo scrittore che gli è accanto. Ma quelli che la voce dolente di Tristano restituisce al muto interlocutore sono frammenti di memoria, sogni, pensieri subitanei in cui i ricordi del passato si intrecciano con la crudeltà del presente di malattia. E la volontà di sopravvivere attraverso la scrittura si scontra con l’evidenza della sua impossibilità.
 
Da uno scrittore che ha ormai raggiunto la notorietà del pubblico e la stima della critica i lettori si aspettano sempre un romanzo che confermi le doti e le qualità già conosciute, o almeno rispetti un’immagine consolidata nelle letture precedenti. Quando questo non accade, nasce la delusione. E la condizione che sembra avere accompagnato l’uscita di Tristano muore di Antonio Tabucchi, stando almeno ai contraddittori commenti (che si possono leggere in rete) di molti lettori comuni, disorientati soprattutto da una scrittura diversa rispetto a quella delle opere più note; ma a essi si contrappongono giudizi critici a volte entusiastici.
Senza alcuna divisione in capitoli, la narrazione di Tristano muore procede con la registrazione di un dialogo che ha una sola voce: quella di un uomo morente, Tristano appunto, che nell’ultimo mese di vita, immobilizzato a letto in una casa della campagna toscana (è il mese di agosto e l’unico rumore è il frinire delle cicale), vorrebbe raccontare la propria vita a uno scrittore (che, si intuisce, ne aveva già descritto un episodio in un libro di successo), chiamato proprio per questo al suo capezzale.
A volte lucida a volte sdoppiata o delirante, a volte affettuosa a volte aspra, la voce narrante si rivolge al suo muto interlocutore sempre con la seconda persona singolare: questo ascoltatore, apparentemente passivo, è tuttavia ben presente (almeno come figura narrativa), non solo perché su di lui chi racconta modella l’andamento del proprio parlare, ma soprattutto perché sarà lui, in quanto scrittore, ad avere il potere di disporre sulla pagina, a piacimento, di tutto quanto ha raccolto su Tristano.
I piani temporali sui quali si colloca la narrazione si intersecano senza soluzione di continuità: se il passato è un insieme di ricordi, il presente si caratterizza come commento del passato, da un lato, come tentativo di lasciare un’immagine di sé nel futuro, dall’altro, grazie appunto all’intervento di chi, operando quotidianamente con le parole, è in grado di registrare e trasmettere le parole altrui. Ma il presente è anche la cancrena a una gamba, la morfina per togliere il dolore, la morte incombente, il delirio che a tratti si impone, la difficoltà del parlare o del ricordare. Se i passi che si allineano uno dopo l’altro, con solo poche righe di spazio bianco a dividerli, raccolgono i momenti nei quali, giorno dopo giorno, il protagonista racconta di sé, i tanti puntini di sospensione che interrompono la successione delle frasi (forse i tratti stilistici più emblematici del romanzo) danno conto della voce franta, dell’interruzione del pensiero che cambia improvvisamente direzione, del fiato che si consuma e deve essere ripreso, dell’affacciarsi alla mente di qualcosa da dire subito.
Tristano che muore è dunque Tristano che vuole sopravvivere in un testimone eletto a rappresentante di tutti i possibili ascoltatori: per questo ha voluto accanto a sé uno scrittore – nonostante la sua scarsa fiducia nei confronti della scrittura che «falsa tutto» – perché, comunque, scrivere di una esistenza significa, inconsciamente, proseguirne la vita: «ho voglia di scrivere, cioè… parlare… scrivere per interposta persona, chi scrive sei tu, però sono io. Strano, no?».
Ci sarebbe naturalmente da interrogarsi più a fondo sullo spunto di poetica qui suggerito, sulla mutazione in personaggio letterario di chi è appartenuto alla realtà: «non voglio che resti la mia voce […] voglio restare in parole scritte», tanto che non importa se «uno […] racconta una cosa» e lo scrittore la scrive «che sembra un’altra». Le citazioni riportate sono solo esempi delle numerose che si leggono in questo romanzo, e che potrebbero essere allineate in un lungo elenco, a conferma di come, anche in questa occasione come in tanti testi precedenti, in Tabucchi l’intento del narrare e l’intento metaletterario non siano separabili.
Conviene tuttavia tornare a porre l’attenzione sulle modalità del racconto di Tristano: se la decisione di lasciare una testimonianza della propria vita, trasformandosi in personaggio, è forse presuntuosa, la possibilità di farlo sembra quasi impossibile: e infatti il racconto, nonostante le intenzioni (paradossalmente rivelate anche dal sottotitolo: Una vita), si scontra con la domanda iniziale: «dove comincia la storia di una vita, voglio dire, come fai a scegliere?».
Non più riproponibile il romanzo tradizionale fondato sulla successione cronologica degli eventi (già Svevo ne aveva rotto il modello con la Coscienza di Zeno), il racconto di Tabucchi (favorito anche dal fatto che chi narra è un moribondo, non sempre padrone di sé) si fonda solo sull’accumulo di frantumi che vengono dal passato: Tristano che, soldato in Grecia nella seconda guerra mondiale, uccide un militare tedesco (dunque a lui alleato), per vendicare un sopruso; Tristano che sceglie la Resistenza, la libertà, la speranza di un mondo migliore; Tristano che ama molte donne (forse sempre la stessa sia essa Daphne o Marilyn che lo chiamava Clark); Tristano che è in Grecia, in Spagna, in Toscana; Tristano eroe ma anche soldato pauroso; Tristano che vede scivolare le speranze in illusioni; Tristano che confonde il sogno con la realtà, ciò che ha letto con ciò che ha vissuto («Lo vedi scrittore, vado su e giù nel tempo, che è vago, non so più cos’è l’ora e l’allora, non li distinguo, a tal punto che mi viene in mente Papee, ma chi era Papee, l’avrò mai conosciuto? Magari era un personaggio di un romanzo che ho letto nella mia vita…»). E infine Tristano censore severo del presente, riassumibile nel «pippopippi televisivo», nella «purga catodica», secondo la definizione di Frau Renate, la donna che lo accudisce dal tempo dell’adolescenza, allora incaricata di insegnargli il tedesco, ora, ormai vecchia, presenza ineliminabile della sua realtà quotidiana.
Se c’è un limite, nel personaggio di Tristano, è la propensione a dettare sentenze su qualsiasi argomento passi tra i suoi pensieri, assumendo addirittura un atteggiamento di sfida: «tu intanto ascolta e scrivi, quando sarà arrivato il momento di salutarci te lo dico io».
Ambizioso nella sua costruzione, Tristano muore rappresenta, pur nella riproposizione di molti tratti noti (in primo luogo, si è detto, la metaletterarietà), un momento di ricerca dentro il quadro narrativo di Tabucchi dai contorni già ben tracciati: la scrittura che segue il continuo flusso di parole di Tristano, assecondandone l’andamento frammentato, è senz’altro una tappa importante sulla via di una narrazione che racconta una vita esibendo con evidenza l’impossibilità di raccontarla.