I codici del successo

Unico titolo a comparire senza interruzioni in tutte le quarantaquattro settimane prese in esame, Il codice da Vinci stravolge il format del bestseller di stagione e conferma la propria tenuta tra i libri più venduti, mentre proliferano le opere volte a chiosare, approfondire e contestare le tesi adombrate nel romanzo. Ma nelle classifiche della saggistica si fa strada anche l’alternativa alle suggestioni “alla Dan Brown”, con i richiami alle coscienze nei testi dei due papi, il lucido scetticismo ragionato di Giulio Giorello e l’indagine socioeconomica di Il secolo cinese.

Per il secondo anno consecutivo, l’onda lunga del Codice da Vinci travolge le classifiche dei libri più venduti, rafforzando l’impressione che talvolta i successi in letteratura siano frutto di beffarde coincidenze che sfuggono alla comprensione razionale. Certo, il romanzo di Dan Brown, lasciato al suo corso nei primi mesi dalla comparsa in libreria, ha potuto giovarsi poi degli effetti di risonanza dei numerosi servizi che stampa e media gli hanno dedicato sull’onda del consenso ottenuto. Ma, anche considerando la straordinaria capacità promozionale di questo circolo virtuoso, il risultato va ben oltre il più ottimistico dei pronostici. E – conviene chiarirlo subito – si tratta d’un risultato a tratti imbarazzante per la sciatteria dello stile e la debolezza di una struttura, ricalcata sugli schemi della fiction televisiva, che alterna in maniera troppo programmatica scene parallele di breve misura.
Nondimeno, la gigantesca fortuna editoriale del Codice da Vinci impone un’attenzione senza preclusioni snobistiche. Se non altro perché l’anomalia rispetto agli standard del mercato nordamericano, costituzionalmente regolato dalla logica del successo di stagione, è troppo importante per essere taciuta. Finora la longevità libraria nel nostro paese è stata piuttosto una prerogativa del bestseller all’italiana, nelle varie articolazioni assunte dagli anni sessanta in poi. Basta ricordare i casi arcinoti di Un uomo di Oriana Fallaci, Il nome della rosa di Umberto Eco, Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro, Novecento di Alessandro Baricco o, in tempi più recenti (con esiti di vendita più modesti, ma significativi), quelli di Io non ho paura di Niccolò Ammaniti e Non ti muovere di Margaret Mazzantini. E normale che questi libri abbiano una strategia di conquista dei lettori a lungo termine: sono stati confezionati nel rispetto dei canoni della letterarietà istituzionale, ambiscono a un riconoscimento critico che li sottragga all’opera divoratrice del tempo e li innalzi al rango di modelli da proporre alle nuove generazioni. La stessa strategia non è normale per la narrativa d’oltreoceano, più spregiudicatamente volta al consumo, e perciò tesa a massimizzare i profitti in pochi mesi o settimane, per agevolare il ricambio delle novità librarie. Sotto questo profilo, Il codice da Vinci rappresenta un’eccezione, che lo distingue dall’abbondanza di thriller made in Usa sfornati ogni anno.
Ma veniamo ai risultati. Unico titolo a comparire senza interruzioni in tutte le quarantaquattro settimane esaminate tra il 2 settembre 2004 e il 30 luglio 2005, il romanzo di Dan Brown totalizza con la sola versione hard cover ben 2.810 punti (con una media vertiginosa di 64 punti a settimana e ben 1.000 punti in più rispetto a quelli con cui aveva dominato la stagione 2003-2004), ai quali si sommano i 164 dell’edizione speciale illustrata e i 375 di quella nei «Miti».
Per avere misura dell’entità del punteggio, si può considerare che è poco meno del doppio del secondo classificato e quasi il triplo del terzo. Rispettivamente, Angeli e demoni dello stesso Dan Brown (1.526 punti con ventisette presenze settimanali) e Lo zahir di Paulo Coelho, 944 punti in quattordici settimane.
Gli altri titoli della top ten sono i seguenti: Niente di vero tranne gli occhi di Giorgio Faletti (941 punti), La pazienza del ragno di Andrea Camilleri (894 punti), dn altro giro di giostra di Tiziano Terzani (786 punti), Memoria e identità di Giovanni Paolo II (768 punti), Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno (667 punti), Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel Garcia Màrquez (667 punti), Privo di titolo, ancora di Camilleri (649 punti). I dati sono ricavati dall’esame delle classifiche realizzate per conto di «Tuttolibri» dall’istituto Demoskopea sulla scorta dei rilevamenti statistici effettuati in un campione di 120 librerie scelte a rotazione. La graduatoria è compilata assegnando 100 punti alla novità più venduta della settimana e agli altri titoli un proporzionale punteggio inferiore.
D’altra parte, ogni invenzione narrativa dimostratasi in grado di incidere sull’immaginario collettivo genera tentativi di emulazione. Non meraviglia, dunque, che la fortuna del Codice da Vinci sia stata seguita dal moltiplicarsi delle opere romanzesche dedicate ai cavalieri del Tempio e alla leggenda del Santo Graal: il tema, per le sue implicazioni storiche e l’alone di mistero che lo avvolge, si presta a molteplici sviluppi in cui religione, avventura e scienza s’intrecciano in diversa proporzione. Semmai stupisce la gran mole di opere saggistiche volte a chiosare, approfondire o contestare le tesi del romanzo. I titoli sono scontati quanto eloquenti: I segreti del Codice. Guida non autorizzata a fatti, personaggi e misteri del Codice da Vinci di Simon Cox (174 punti), Il segreto del Codice. La verità dietro il Codice da Vinci a cura di Dan Burstein (102 punti), La verità sul Codice da Vinci di Bart D. Ehrman (76 punti), Il Codice da Vinci, verità e menzogne di Darrell L. Bock (34 punti), Guida completa al Codice da Vinci di Michael Haag e Veronica Haag (32 punti), Contro il Codice da Vinci di José Antonio Ullate Fabo (31 punti).
Al di là delle ovvie differenze, questi testi romanzeschi o saggistici presi nel loro insieme sembrano essere debitori del loro successo al candore privo di complessi con cui tentano di rispondere ai grandi interrogativi ontologico-metafisici a cui si sottrae la cultura più accreditata, erede del disincantato criticismo novecentesco. La prosa esibisce un potere di ambigua fascinazione che ricava la sua autorevolezza dalla frequentazione che i cavalieri del Tempio hanno con la fonte della Conoscenza e del Mistero: la divinità. La vicinanza alle sorgenti del sapere tuttavia, anziché rasserenare gli animi dei temerari adepti, tende a incupire ancora di più la coscienza dei mali che l’uomo causa a se stesso nel suo colpevole accecamento. Siamo agli antipodi dello spiritualismo naif degli ottimisti profeti come Celestino. A venire trasmessa è piuttosto la persuasione che solo pochi eletti abbiano accesso all’illuminazione e costoro, nell’era delle tenebre, sono autorizzati dalla Suprema Legge a operare nella difesa del Bene al di fuori del controllo della comunità, facendo ricorso se necessario alla violenza.
E vero che le potenzialità antisociali sottese a tali presupposti sono moderate nel Codice da Vinci e in Angeli e demoni dalla mitezza del protagonista Robert Langdon, uomo di studi e amante dell’arte, educato a sottoporre i dati di realtà all’esame della logica investigativa. Ma è ugualmente legittimo essere preoccupati per le suggestioni extraletterarie che questa narrativa esercita: la tradizione cavalleresca insegna, appunto, che gli strumenti che attingono alle pulsioni aggressive conservano un diabolico potere inquinatore anche quando sono usati a fin di bene. L’aspra polemica anticattolica conferisce peraltro alle detective story di Dan Brown una parvenza di radicalismo contestatore che ne irrobustisce la forza persuasiva presso quella parte del pubblico che assiste con allarme alle ambizioni teocon di influenzare le scelte della vita consociata. Sennonché le ragioni che legittimano tale allarme sono vanificate dalla reazione di pura ostilità emotiva in cui la critica si esaurisce.
D’altra parte, la statistica è spassionata per definizione: come rende conto della fortuna delle suggestioni mistico-individualistiche, così registra l’ampio consenso popolare raccolto dall’appello alla comunione attorno al Verbo di Cristo, così come è custodito dalla Chiesa cattolica. Il fenomeno è editorialmente inedito: a spartirsi i favori del pubblico sono due pontefici, il papa polacco e il papa tedesco. Il primo non è nuovo al successo letterario. Ma nella stagione 2004-2005 sono ben cinque i libri di Karol Wojtyla entrati in classifica: il già menzionato Memoria e identità, Alzatevi, andiamo! (155 punti), Aprite i vostri cuori (140 punti), Varcare la soglia della speranza (62 punti) e Non uccidere in nome di Dio (14 punti). Due invece quelli di Joseph Ratzinger: Senza radici (in collaborazione con Marcello Pera), 214 punti, e La mia vita. Autobiografia, 42 punti. Ma il teologo bavarese è anche responsabile della redazione del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992 e riproposto in libreria prima dell’estate con esiti imprevedibili, 85 punti in quattro settimane.
Certo, tali risultati sono stati condizionati dal forte impatto emotivo suscitato dagli avvenimenti occorsi nel mondo cattolico durante l’anno trascorso. Ma non per questo è lecito sottovalutare l’adesione popolare al messaggio “politico” che il complesso di questi testi trasmette. Attraverso di essi, in effetti, la Chiesa di Roma ribadisce la sua aspirazione a presentarsi come unica istituzione sopravvissuta, dopo il tramonto del socialismo “reale”, in grado di contrastare le forme attuali dell’alienazione umana. L’impegno assunto di fronte ai fedeli è quello di correggere gli effetti distorti del processo di modernizzazione, agendo da contrappeso alle forze che da esso sono uscite vincitrici: la tecnica e il capitalismo neoliberista, entrambi impegnati a modellare in funzione dei propri scopi il contesto in cui si svolgono i rapporti umani e si producono i valori.
Ai rischi di involuzione totalizzante che le ambizioni di egemonia neoclericale tuttavia sottendono, risponde l’esile ma vibrante Di nessuna chiesa. La libertà del laico di Giulio Giorello. A venire proposti sono i princìpi di un illuminismo aggiornato che, ispirandosi al magistero di Karl Popper (con qualche curiosa consonanza con il Leopardi “progressivo”), non si ritira di fronte all’incertezza derivata dalla rinuncia programmatica a ogni presunzione di infallibilità ma, anzi, riconosce in essa una sollecitazione alla verifica e al confronto continuo. Proprio questa attitudine problematica e solidaristica agli occhi di Giorello fa di un laicismo così inteso il candidato ideale a governare i conflitti all’interno di una “società aperta” quale è quella contemporanea. La risposta dei lettori è solo apparentemente modesta: i 106 punti guadagnati in sette settimane sono molti, se si mettono in conto l’impegno argomentativo dell’autore, i misurati per quanto mirati investimenti pubblicitari di un editore universitario come Cortina e, soprattutto, il carattere minoritario che connota da sempre la storia del laicismo.
Soffocata dalla discussione attorno ai princìpi guida dell’esistenza quotidiana, la saggistica più propriamente d’attualità rimane fuori dalla top ten. Solo al quattordicesimo posto s’incontra l’intervista a se stessa di Oriana Fallaci, che in ventidue settimane totalizza 555 punti. Ma ciò che più colpisce è forse la tendenza, comune ai maggiori protagonisti del settore, ad ammorbidire l’analisi delle contraddizioni del presente, proiettandola nel passato recente (è quello che fanno Bruno Vespa in Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, 269 punti, e Massimo D’Alema in A Mosca l’ultima volta. Enrico Berlinguer e il 1984, 87 punti) o inquadrandola in un’ottica di confessione personale (Vincere la paura. La mia vita contro il terrorismo islamico e l’incoscienza dell’Occidente di Magdi Allam, 139 punti). Anche Regime di Marco Travaglio e Peter Gomez (diciassettesimi con 415 punti) rivela un’incisività inferiore a quella che l’impavida ditta ha manifestato in altre occasioni. Il libro affronta sì una delle più gravi questioni irrisolte della nostra democrazia: l’autonomia del sistema televisivo. Ma si concentra su casi ampiamente e tristemente noti di discriminazione e di censura ai danni di giornalisti e uomini di spettacolo critici nei confronti del governo Berlusconi (Biagi, Santoro, Luttazzi, Guzzanti). E la scelta più semplice, utile a rinsaldare le convinzioni dei lettori di sinistra, ma che fa avanzare poco la discussione attorno a quel macigno che è il conflitto di interessi.
La prova saggistica che meglio di altre sa rispondere alle esigenze di informazione approfondita sui problemi che assillano il nostro tempo sembra piuttosto Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo (312 punti) di Federico Rampini. Prima d’ora estraneo alle classifiche librarie, il giornalista di «la Repubblica» indaga con acume le ragioni e le caratteristiche del miracolo economico del nuovo gigante asiatico, muovendo da una fertile provocazione che riconosce un’anomalia non nel ritorno dell’antico impero cinese al centro del mondo, bensì nella sua prolungata assenza.
Le classifiche confermano, infine, il positivo trend della narrativa italiana, che piazza quattro titoli fra i dieci best performers e sette nelle prime venti posizioni. I motivi degni di approfondimento critico sono più d’uno: la riconferma tutt’altro che scontata di Giorgio Faletti; la tenuta di Camilleri (due romanzi nella top ten generale, quattro tra i primi dieci italiani) che, nonostante le molte, troppe novità annuali, non sembra mostrare segni di cedimento; il felice ritorno nelle posizioni di testa di uno scrittore di nicchia come Stefano Benni, undicesimo con Margherita Dolcevita (637 punti).
Ma, dal punto di vista sociologico, l’interesse maggiore lo suscita la perentoria affermazione di due opere prime di un certo decoro letterario: Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno, ottavo con 667 punti, e Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia, quindicesimo con i 488 punti dell’edizione tascabile (a cui si sommano i 177 dell’edizione rilegata che ripropone la versione integrale del romanzo, apparso in forma semiclandestina nel 1992). Anche senza inoltrarsi nell’esame dei testi, il risultato è apprezzabile di per sé: i nomi nuovi infatti sono merce rara, molto rara nel mercato dei successi italiani. Nonostante i segni di dinamismo che le classifiche immancabilmente registrano, il problema storico della nostra narrativa rimane quello di sempre: la scarsità degli autori disponibili senza pregiudizi al dialogo con i lettori di massa.
Le cifre lo documentano senza equivoci. Delle sei aree merceologiche in cui «Tuttolibri» suddivide i testi che hanno ottenuto un punteggio utile, la narrativa italiana è quella che conta il minor numero di titoli: solo sessantasei, contro gli ottantadue della narrativa straniera, gli ottantanove della saggistica, i centosei della varia, i centouno dei tascabili e i settantotto della letteratura per ragazzi. Colpa dei lettori che ai loro connazionali preferiscono i più corrivi narratori d’oltreoceano? Niente affatto: le risposte positive incontrate dalle opere di Faletti, Camilleri, Benni, Piperno, Moccia dimostrano l’esatto contrario. D’altra parte, il successo letterario non si consegue mai una volta per tutte, nemmeno quando l’autore è vezzeggiato da giornali e tv. Lo ricorda il caso di Melissa P, che il pubblico non ha seguito nella conversione dal diario erotico al romanzo di indole intimistico-sentimentale: con 224 punti il suo L’odore del tuo respiro si arresta su posizioni di mezza classifica.