Dietologi e bioarcheologi

Nell’ultimo anno, gli editori hanno dato alle stampe nuovi titoli dedicati all’alimentazione al ritmo di uno al giorno. Tra ricette per «specialisti» e testi di denuncia, c’è ancora spazio per qualche sorpresa. Per esempio, non è detto che gli OGM siano contro natura. E non è cosi vero che gli integratori sponsorizzati da sedicenti guru mediatici facciano bene. Forse è importante ricordare che non è un caso che l’evoluzione del genere umano sia legata al suo essere divenuto una specie capace di spartire il cibo con i propri simili: è in quei momenti di tregua che sono stati inventati linguaggi, codici di ospitalità e di esclusione, religioni e tabù, tecnologia… cultura.
 
Nel 2009 si è saputo dai telegiornali che nel Madagascar cadeva il governo dopo una rivolta popolare contro la cessione al conglomerato coreano Daewoo di 2 milioni di ettari per la monocultura di piante da biocarburanti. Da un rapporto delle Nazioni Unite, che per la prima volta nella storia umana più di un miliardo di persone pativa la fame. Dall’Istituto per la sicurezza alimentare di Washington che la produzione di cereali e soia per l’alimentazione umana e animale aveva battuto ogni record. Dai quotidiani color salmone che il prezzo del cibo continuava a salire. Dalle agenzie di rating che i fondi di investimento acquistavano vaste estensioni di terreni coltivabili in Vietnam e in Cambogia, in America Latina e in Africa, non per regalarli alle organizzazioni umanitarie, ga va sans dire. Dagli economisti che la loro teoria del mercato razionale era una ipotesi non dimostrata. E al mercato comunale sotto casa, che le ciliegie costavano 12 euro al chilo e il pollo 4,90.
Cercando letture che spiegassero questi paradossi ne ho trovate poche, eppure i librai stimano che tra metà 2008 e metà 2009, sull’alimentazione è uscito un nuovo titolo al giorno (lavorativo), manuali agronomici e giuridici esclusi. Sono aumentate le raccolte di ricette mirate a piccoli segmenti di pubblico: dirigenti come Manager in cucina. Ricette per la felicità in azienda di Andrea Ceriani (2008), studenti di chimica come Cucina e scienza di Stefano Colonna e Fabiano Guatteri (2008) e Cucina, chimica e salute di Rosario Nicoletti (2009), fan di cinematografia indiana come Bollywood in cucina di Bulbul Mankani (2008). Nota per chi non è allergico all’aglio e all’inglese: le ricette hollywoodiane sono in Rete.
Restano a un livello costante le denunce contro le piante geneticamente modificate. Ne ho raccolte tre: Quel gene di troppo. Lincognita Ogm e il rischio sostenibile di Mariano Bizzarri (2008); La sicurezza degli OGM di Susan Bardocz e Arpad Pusztai (2008); Il mondo secondo Monsanto. Dalla diossina agli OGM: storia di una multinazionale che vi vuole bene di Marie-Monique Robin (2009). Erano un po’ fané. Nel 2009, la Monsanto s’è disamorata dei coltivatori argentini intervistati dalla Robin, li ha piantati per quelli del Sudafrica. Ha venduto loro sementi – difettose per sua stessa ammissione – e un terzo delle piante è venuta su con le pannocchie vuote. Arpad Pusztai, l’unico scienziato fra gli autori, ritiene gli OGM una minaccia per la nostra salute. Ma è noto per la ricerca in cui somministrava patate transgeniche crude a topolini adolescenti e scopriva che crescevano mingherlini oltre a soffrire di disturbi intestinali. L’esperimento avrebbe avuto senso con i maiali, gli unici a cibarsi volentieri di tuberi crudi, solo a condizione di variare il menu. Gli amidi delle patate transgeniche o meno, sono assimilabili dai topi – e da noi – solo se predigeriti, fatti a pezzi e trasformati dalla cottura. Quanto al gene di troppo identificato da Mariano Bizzarri, è tecnologia vecchia. Da questo autunno sono in vendita semi di colza della Basf geneticamente modificati per resistere all’erbicida della Basf, ma il DNA è quello originale: ne sono stati spostati soltanto tre pezzetti.
L’argomento più usato contro gli OGM è che sarebbe contro-natura inserire il gene di un batterio in una pianta. Come se la natura non lo facesse spesso da sé. Nel corso dell’evoluzione tutti gli organismi pluricellulari hanno acquisito geni da virus e batteri. Senza quelli, noi saremmo ancora allo stadio dell’ameba. Gli OGM attuali non rendono più delle altre piante, s’è saputo da un rapporto della Union of Concerned Scientists e, come prevede la teoria dell’evoluzione (il 2009 era l’anno Darwin), favoriscono la comparsa di male erbe e di patogeni resistenti agli erbicidi e ai pesticidi. Astutamente, in luglio è stato creato un mais con un gene di origano: attira verso le radici vermi naturalissimi che si nutrono dei parassiti della pianta. I vantaggi per i contadini e per l’ambiente sono ovvi. Ma non è detto che il sapore dell’origano piaccia agli erbivori d’allevamento (curiosamente, pur mangiando erba in natura, nessuno protesta per il fatto che siano ingrassati con mangimi a base di cereali), e ai nordisti difensori della polenta tradizionale.
Alla mia indagine, fermata a giugno, mancano i libri Slow Food, annunciati per settembre da Carlo Petrini nella collana che pubblicherà insieme alla Giunti. Spero che abbia in preparazione l’equivalente di Food Politics di Marion Nestle (2003). Anche in Italia ci sono casi di mozzarelle alla diossina, vino al metano, crack Cirio o Parmalat e altri thriller. Per ora ne fa le veci In difesa del cibo di Michael Pollan (2009). Come Marion Nestle, Pollan critica il riduzionismo dell’industria alimentare e dei nutrizionisti al suo soldo. Scompongono le fonti di cibo in singoli nutrienti e le ricompongono a modo proprio con zuccheri, grassi, amidi, coloranti, per dare loro una consistenza attraente quanto il margine di profitto. Dandosi un’aria scientifica, i chimici alimentari hanno inventato il concetto di «integratori». Per esempio «integrano» con vitamina C, fatta con il petrolio solitamente, certe bibite a base d’arancia che di quella base conservano il ricordo del colore e poco altro. E una procedura facile, e inutile, l’integratore viene eliminato l’indomani mattina. E molto più complicato infatti integrargli l’antocianina, per esempio, il pigmento rosso scuro dei morelli di Sicilia che stabilizza e rafforza l’effetto antiossidante della vitamina C. E salvo patologia, perché dovremmo consumare antiossidanti? L’ossidazione serve alle cellule per produrre energia.
Michael Pollan ridicolizza la pseudoscienza del nutrizionismo, svela i conflitti d’interesse di certi ricercatori universitari e di famosi guru della salute ospitati dai media. Scrive bene e di lui si leggerebbe anche la lista della spesa, ma era più seducente Il dilemma dell’onnivoro (2008) in cui percorreva gli Stati Uniti diventando di volta in volta coltivatore di mais, bracciante in una fattoria tutta organica, cacciatore-raccoglitore che si procura da solo (quasi) di che preparare una cena per quindici ospiti. Il giornalista Paul Roberts non ha lo stesso talento di narratore, ma La fine del cibo (2009) è illuminante. Racconta di oligopoli agroalimentari e delle superpotenze che li proteggono e li sovvenzionano. Di grandi catene di distribuzione che, per vendere a minor prezzo – i consumatori ne sono grati – senza rimetterci, costringono a ridurre i prezzi le industrie, le quali fanno altrettanto nei confronti di agricoltori e allevatori. L’autore è un po’ malthusiano, crede che la produzione agricola non terrà il passo con l’aumento della popolazione e dei suoi consumi. Non è il solo. Negli incubi dei dirigenti delle varie agenzie dell’ONU un miliardo e mezzo di cinesi bevono una birra e mangiano carne una volta al dì, trangugiando metà dell’acqua potabile del pianeta, e per interposto suino, ovino o bovino, metà di cereali, soia, colza che possono crescerci sopra. Cohen aveva annunciato in precedenza la fine del petrolio, credo che esageri di nuovo. Il riscaldamento del clima allunga i cicli di siccità, ritarda i monsoni in arrivo, accresce la violenza di quelli di ritorno, eppure la produzione di cibo aumenta dell’1,8% all’anno ed è sovrabbondante. Tutto vero. Ma da quarant’anni le carestie sono rare e circoscritte, la fame è dovuta ad altro: guerre, repressioni, violazioni dei diritti umani, riforme agrarie rimandate per decenni.
La distribuzione del cibo è iniqua. Il primo mondo non solo s’ingozza di piante e animali giunti da ogni continente, ne butta via un terzo, si legge in Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare di Tristram Stuart (2009). Rifiuteremmo di credergli, se non documentasse ogni affermazione con un puntiglio sadico: su 412 pagine, un terzo sono di note e di bibliografia. L’India ha abbattuto i silos statali per ubbidire all’Organizzazione mondiale del commercio, che li considerava una forma di protezionismo, e le riserve di cereali sono mangiate dai topi. Altrove, in assenza di strade decenti e mezzi di trasporto metà dei raccolti ammuffiscono prima di poter essere venduti. I pescherecci ributtano in mare un quinto dei pesci presi nelle reti. Le industrie alimentari distruggono ogni giorno milioni di tonnellate di cibo durante il processo di trasformazione. I supermercati ne buttano altri milioni in confezioni non ancora scadute (chi ha mai comprato uno yogurt che scade l’indomani?). Un miliardo di ricchi manda nelle discariche fra il 25 e il 33% degli acquisti che sfamerebbe tre volte il miliardo degli affamati.
Sprechi fa vergognare, infuriare e passare l’appetito, così ho tenuto per dessert Il pranzo della festa. Una storia dell’alimentazione in undici banchetti (2009) di Martin Jones. Dirige il laboratorio di bioarcheologia all’Università di Cambridge, dispone di una strumentazione high-tech con la quale distingue un porridge di miglio da uno di avena dello stesso periodo interglaciale, ma per fortuna trascura i dettagli e si occupa dell’evoluzione dell’alimentazione umana in senso ampio. Non è ancora dimostrato che la scoperta della cottura – che predigerisce gli alimenti, oppure li conserva – abbia facilitato la trasformazione delle calorie ingerite in energia per il cervello, raddoppiandone la massa e facendoci diventare sapiens. Di sicuro, 30-25.000 anni fa è avvenuta una svolta, concomitante con lo sviluppo della nostra neocorteccia. Altri animali cacciavano e, se sfuggiti all’estinzione, cacciano in gruppo come gli ominidi più antichi e gli scimpanzé, ma nessuno ha mai condiviso il cibo con estranei, piuttosto cerca di sottrarlo. Noi abbiamo imparato a cuocere, a produrre eccedenze, e siamo diventati una specie commensale, capace di sederci gli uni di fronte agli altri e di spartirci il cibo in pace. In quei momenti di tregua beata come quando eravamo lattanti, dice Jones, abbiamo inventato linguaggi, convenzioni e stratificazioni sociali, codici di ospitalità e di esclusione dalla mensa, religioni e tabù, tecnologia, divisione del lavoro e tempo libero per osservare, scoprire, riflettere, cultura insomma.
Il primo banchetto descritto da Jones è quello di una famigliola di scimpanzé nel Gombe National Park, simile a quello dei nostri antenati, due o tre milioni di anni fa. Altri pranzi sono ricostruiti a partire dai reperti. Un gruppo di Homo erectus si spartisce carne cruda di cavallo nell’Inghilterra di cinquecentomila anni fa; i Neanderthal un daino cotto sotto una roccia sporgente, nella Catalogna di 46.000 anni a.C.; Homo sapiens moderni pesce, cereali, noci e frutta sulle rive del lago di Galilea nel 23.000 a.C. Ma solo diecimila anni dopo, a Jerf-el-Ahmar sulle rive del Tigri, è costruita la prima cucina collettiva e gli alimenti sono trasformati, irriconoscibili per chi non li ha preparati: gallette di semi macinati e spezie, di lenticchie lasciate a bagno nell’acqua per farle ammorbidire. Direttamente dalla brace alla bocca, senza i recipienti d’argilla e di metallo, altra rivoluzione, ritrovati nel palazzo di Nestore, in quella che forse era la Pilo omerica. Da questo momento sono testi scritti a fare da guida dal refettorio di un’abbazia benedettina ai ristoranti di Parigi dove si ritrovano gli Illuministi, fino a Portland, Oregon, nel 1954. Qui si consumano confezioni di pollo Swanson in vaschetta d’alluminio, davanti alla televisione che trasmette uno spot della Swanson. Inizia la civiltà degli sprechi osceni di cui parla Stuart in Sprechi. «Forse è l’archeologo che è in me a voler tenere in vita a tutti i costi il cerchio della conversazione intorno al fuoco del riparo, con i cibi in mezzo a noi, e belle immagini sulle pareti dietro di noi» scrive Jones. «La proposta alternativa… tutti allineati nella stessa fila, lo sguardo fisso sullo schermo TV, mi ricorda troppo il mondo dei Neanderthal.»
Jones ammira II cotto e il crudo di Claude Lévi-Strauss e Huono da mangiare di Marvin Harris pensa che siano classici insuperabili. Ma in quel viaggio che porta dal «tempo profondo» dell’evoluzione umana fino a oggi, mi sembra che li abbia superati.