Uomini che odiano la complessità

Donne e motori, palmari e Play station. Pochi e futili argomenti: è questa la ricetta dei periodici maschili, un mercato che stenta permanentemente a decollare. Ma proprio il 2009 potrebbe segnare la svolta, grazie a una crisi salutare e all’esordio di due testate coraggiose: «IL, Intelligence in Lifestyle» (Il Sole 24 Ore) e «Wired».
 
La donna è una sinfonia d’interessi, l’uomo è monocorde. A dirlo non è l’ennesimo sondaggetto, di quelli che tanto spazio trovano sulle riviste di largo consumo, ma l’intera industria dei periodici: lo pensa chi li fa, lo proclamano i suoi prodotti. Chiedete a qualsiasi amministratore delegato, direttore editoriale, direttore responsabile e vi ribadirà la convinzione che, mentre i periodici femminili possono essere generalisti, i maschili devono puntare su un tema specifico. Ma non c’è bisogno di chiedere: basta osservare l’offerta delle edicole. Quanto al monoargomento da eleggere, le alternative sono poche e facili da immaginare: donne (preferibilmente spogliate) o motori (con la loro variante postmoderna: il gadget elettronico).
E non finisce qui con i luoghi comuni, perché quello che vuole che le donne leggano più degli uomini traccia un secondo importante solco tra femminili e maschili: la periodicità. Mentre i primi schierano in edicola diversi settimanali (tra cui il leader del mercato, «Donna Moderna», senza contare «Io Donna» e «D», venduti con quasi altrettanto successo insieme a «Corriere della Sera» e «Repubblica»), i secondi si affidano solo ai mensili, a meno di non considerare «Sportweek», supplemento del sabato della «Gazzetta dello Sport», un maschile. E qui la discussione è aperta, oltre che cruciale per la raccolta pubblicitaria, cioè la voce più importante nei bilanci delle riviste. Infatti, per essere considerati dal mercato pubblicitario non è sufficiente rivolgersi a un pubblico prevalentemente composto da uomini, ma è necessario esibire la vocazione a interpretare i gusti, le aspirazioni e gli stili di vita del maschio adulto, preferibilmente tra i 30 e i 50 anni e di reddito elevato. In teoria significa che, scelto un tema, bisognerebbe essere capaci di leggere attraverso le sue lenti l’attualità e i cambiamenti di costume del pubblico di riferimento; nella pratica molto si riduce a dare spazio all’interno della rivista, nel modo meno pretestuoso possibile, a pagine di moda, bellezza, cura di sé. Ovvero i mercati pubblicitari più golosi, motori a parte. Ed è per questo che di norma non si annoverano tra i maschili testate di motori (vendutissime) come «Auto Oggi» e «Autosprint» o sportive come lo stesso «Sportweek» che, proprio per avvicinarsi il più possibile ai maschili lifestyle, ha subito negli ultimi anni diversi aggiornamenti.
Pregiudizi sessisti a parte, questi sono i segni di un mercato ancora lontano dall’essere maturo, anche perché relativamente giovane: se «L’Uomo Vogue», che non risponde perfettamente ai criteri del maschile poco sopra ricordati, nasce nel 1967 e diventa mensile nel 1975, bisogna aspettare il 1982, con l’uscita di «Per Lui», per vedere qualcos’altro (l’editore è sempre Condé Nast). Poi, nel 1985, arriva «Max», nel 1986 «Class» e nel 1988 «King». Ma è solo nel triennio 1998-2000, mentre intanto l’esperienza di «King» e «Per Lui» si è conclusa, che il settore dei maschili diventa effettivamente tale, con il lancio di «Maxim» (prodotto inglese attento a moda e lifestyle), «GQ» (il principe dei maschili di moda e lifestyle, nato negli Usa nel 1931), «Men’s Health» (salute, fitness, sesso) e «Jack» (tecnologia). Seguono «Fox Uomo» (2002, inizialmente il più generalista di tutti), «For Men Magazine» (2003, in concorrenza diretta con «Men’s Health») e «Riders» (2007, motociclismo), oltre a «Style Magazine» e «XL», i supplementi di «Corriere» e «Repubblica» creati nel 2005 con un menu d’argomenti studiato ad hoc per raccogliere il primo la pubblicità dei grandi marchi del lusso, il secondo quella dei brand più giovani. Perché il punto, con gli anni, rimane invariabilmente lo stesso: la diffusione totale dei maschili cresce, ma lo fa solo per effetto dell’aumento dell’offerta (le nuove testate erodono in gran parte lettori a quelle già esistenti), mentre il potenziale pubblicitario del mercato sembra sempre sull’orlo di esplodere, ma delude regolarmente le attese. Ed è così che, nel tentativo di trovare il prodotto vincente (e nonostante gli allarmanti segnali della crisi finanziaria mondiale, tanto impietosa con la stampa), nel 2008 diversi editori mettono in cantiere nuovi lanci: il 19 settembre 2008 fa il suo esordio nelle edicole «IL», il maschile del «Il Sole 24 Ore», seguito il 5 dicembre 2008 dal nuovo «Playboy» e il 19 febbraio 2009 da «Wired», mentre il progetto di Mondadori di portare in Italia «Esquire» viene accantonato in favore di un meno oneroso restyling «maschile» di «First», il mensile di «Panorama».
Il 2009, però, è più rovinoso del previsto, con crolli che arrivano al 30% sia nelle diffusioni sia nei fatturati pubblicitari, cui si aggiunge il definitivo declino dei prodotti collaterali (infradito, racchettoni, coltellini multiuso, persino elettrostimolatori). Risultato: gli editori si convincono a cercare nuovi equilibri a un livello più basso di ricavi e iniziano a operare tagli nelle redazioni nel tentativo di salvare le testate, pur col rischio di un’emorragia di qualità che in alcuni casi potrebbe rivelarsi esiziale. Siamo insomma nel bel mezzo di una tempesta perfetta e qualsiasi previsione potrebbe rivelarsi presto ingenua, intempestiva o clamorosamente sbagliata. Di certo, la situazione ha del paradossale: visto che il coraggio non è la dote migliore degli editori, gli ultimi maschili lanciati non sarebbero probabilmente in edicola se qualcuno avesse previsto le proporzioni di questa crisi, eppure potrebbero rivelarsi gli strumenti più adatti per combatterla. Il discorso vale soprattutto per «IL» e «Wired», due prodotti che cercano, con coraggio appunto, una strada diversa da quella battuta fino a oggi, a cominciare da un’impostazione grafica molto connotata, mentre «Playboy» si inserisce in una linea più tradizionale, pur cambiando formula rispetto alla precedente edizione italiana.
E proprio alla tradizione vale la pena guardare per capire che cosa sta succedendo. Storicamente, i maschili italiani hanno avuto come principale ragione d’acquisto i servizi di nudi d’autore dedicati a donne dello spettacolo, conditi in una salsa varia di musica, cinema, sesso, tecnologia, più le immancabili pagine di moda e accessori. Di questa storia sono grandi protagonisti i calendari: quello che ritraeva Sabrina Ferilli, per «Max», superò nel 2000 il milione di copie vendute. Da lì in poi è iniziata una deriva verso la volgarità frenata solo dalla crescente riluttanza dei principali marchi della moda e del lusso a pianificare pagine di pubblicità: oggi i calendari sono un prodotto editoriale in declino mentre i maschili, «GQ» e «Max» in testa, hanno ridotto i nudi e ripensato il loro modello. E proprio nel vuoto lasciato da queste due riviste sembra volersi accomodare il nuovo «Playboy». Non per niente, in copertina spiccano attrici e star rigorosamente italiane e rigorosamente associate ai sogni erotici degli italiani, come Carolina Crescentini, Martina Stella e Valeria Marini. Allo stesso tempo la rivista cerca di non cedere a eccessi volgari e affianca alle immancabili playmate e agli argomenti più leggeri, a sfondo erotico, inchieste giornalistiche e articoli d’attualità. Resta qualche dubbio sulla scelta di questi argomenti e sul loro taglio, che lascia l’impressione di un progetto editoriale poco chiaro, senza un’anima precisa, ma può darsi che sia un semplice difetto di gioventù, acuito dalla difficoltà di costruirsi una nuova identità in un quadro incertissimo.
Più complesso e ambizioso il progetto di «Wired», anch’esso filiazione italiana di un prodotto americano. La rivista proclama fin dalla testata il suo intento di occuparsi di «Storie, idee e personaggi che cambiano il mondo»: un punto di vista più ampio di quanto immagini chi pensa a «Wired», secondo la vulgata, come alla Bibbia della tecnologia. Ma la parola chiave su cui porre l’attenzione è «storie», che rivela l’intenzione di dar spazio a testi distesi, di grande impatto narrativo, lunghi a volte anche il doppio o il triplo rispetto alle abitudini italiane. Importante anche la quantità di materiale prodotto direttamente in Italia, con una efficace aderenza allo spirito dell’originale e, insieme, una spiccata capacità di interpretare il nostro mercato. Una dote dimostrata, tra le altre cose, dal riuscitissimo innesto di un’ampia sezione di test di prodotti di consumo (telefoni cellulari, computer, televisori…), solo saltuariamente prevista nell’edizione americana. Ma il fulcro del progetto di «Wired» sta in gran parte nella sfida, vinta se stiamo ai primi numeri, di dar spazio a storie di grande respiro, quasi sempre trascurate dagli altri media, e di saper attuare, nel caso di tematiche più tecniche, una scrittura semplice, non specialistica, ma non per questo trascurata, capace insomma di raccogliere il testimone della migliore tradizione divulgativa anglosassone, dove anche gli accademici sanno parlare con facilità e rivelano spesso inattese doti affabulatorie. Il rischio? Una deriva trash nella ricerca dell’originalità a tutti i costi, manifestata specialmente (e fatalmente?) nei numeri estivi.
Importante e articolato anche il progetto di «IL, Intelligence in Lifestyle», ovvero il maschile venduto il terzo venerdì di ogni mese come supplemento del «Sole24Ore» e rivolto allo stesso target di lettori del quotidiano, altamente scolarizzato e con elevate capacità di reddito. Anche qui, pur se in modo e con finalità diverse rispetto a «Wired», grande importanza ha il progetto grafico, non a caso premiato agli European Design Awards del 2009, che sottolinea insieme la derivazione dal quotidiano e la vocazione all’approfondimento. Proprio quest’ultima tendenza sembra il marchio distintivo della rivista, che sceglie di modulare in più articoli la storia di copertina, dedicata in genere a temi di largo impatto sociale (l’economia dopo la crisi, la nuova industria del verde, le giovani generazioni), per cercare sguardi inediti e raccontare la complessità attraverso le sue molte sfaccettature. Un’operazione di giornalismo di alto profilo sempre più rara in tempi di crisi, che è insieme il pregio migliore e il pericolo più grande della rivista, che in questa ricerca di qualità diventa a volte eccessivamente elitaria.
Vada come vada, insomma, il 2009 segnerà un punto di svolta. In quale direzione lo diranno i risultati dell’anno a venire, in cui ci si attendono una semplificazione del mercato, una pur piccola ripresa dell’economia e un progressivo adattamento dei gruppi editoriali e dei professionisti del settore alla nuova situazione. Con la speranza che a vincere siano i principi di un giornalismo più coraggioso e più agile nell’informare intrattenendo. E che il maschio italiano possa dimostrarsi meno abietto di quello dipinto dagli ultimi dieci anni di stampa periodica.