In classe con Pennac e Bégaudeau

Il 2008 ha visto la pubblicazione in Italia di due bestseller francesi ispirati al mondo della scuola: Diario di scuola di Pennac e La classe di Francois Bégaudeau. Se Pennac ha buon gioco nel saldare l’ottica del pedagogo esperto con quella dell’allievo, addirittura dell’allievo asino, ripescando nei ricordi d’infanzia, Bégaudeau registra con stringatezza asciutta il resoconto di un anno qualunque di scuola in un istituto della banlieue parigina. Insomma ci raccontano come si può provare a far lezione ai ragazzi d’oggi. Nelle loro proposte non mancano i limiti e i problemi; sempre meglio, però, delle lamentazioni a cui ci ha abituato lo stuolo di docenti scrittori di casa nostra.
 
A quanto pare, la categoria dei prof scrittori, autori a vario titolo di storie sulla scuola, non è un’esclusiva italiana. Nel nostro paese si tratta di una schiera significativa che ha già conosciuto un ricambio generazionale: autori più o meno recenti, da Starnone alla Mastrocola, da Onofri alla Oggero, ci hanno raccontato più di vent’anni di scuola italiana, interpretandone le aspirazioni, i malumori e i problemi mai risolti. Lo hanno fatto variando le modalità di scrittura, dalla fiction vera e propria al resoconto diaristico, nonché adottando registri stilistici diversi, in sintonia con l’evoluzione dei tempi: dalla rappresentazione ironica di Starnone della «sinistra fragile e patetica», attiva nella scuola degli anni settanta-ottanta, al sarcasmo un po’ acido e supponente di Paola Mastrocola, prof scrittrice nella scuola dell’ultimo decennio, sino alla fiction, se non altro più divertente, di Margherita Oggero, autrice di una serie di gialli di cui è protagonista una «profia» torinese, pronta a sottrarsi alla routine dell’insegnamento per indossare i panni di una detective audace e intraprendente.
A sancire il successo delle storie sulla scuola concorre l’adozione di una strategia comunicativa efficace, intrinseca, in un certo senso, alla peculiarità del mondo rappresentato e al ruolo che l’autore vi gioca. I prof scrittori possono così contare su una duplice fascia di lettori: da una parte il target mirato del pubblico di colleghi, sollecitato a un processo di immedesimazione scontato, dall’altra la fascia ben più ampia dei lettori comuni che non possono non riconoscere nel mondo della scuola un vissuto noto e condiviso.
Le cose non vanno diversamente per i colleghi d’oltralpe, francesi in particolare, che pare raccontino di scuola volentieri e con successo in patria e all’estero. Il 2008 ha visto la pubblicazione in Italia di due bestseller francesi sulla scuola che hanno colto nel segno, in pieno clima di dibattito sulla riforma della scuola nel nostro paese: alla fortuna prevedibile di Daniel Pennac, già popolare nel mondo scolastico italiano, tornato alla ribalta con Diario di scuola, ha fatto riscontro il successo di un autore meno noto, Francois Bégaudeau con La classe, il libro da cui è stato tratto il film omonimo di Laurent Cantet premiato a Cannes con la Palma d’oro e uscito anche nelle sale italiane. L’autore stesso vi recita nella parte del prof protagonista, a mettere ancor più in risalto il valore dell’esperienza diretta, quasi della testimonianza raccolta sul campo.
In entrambi i casi gli autori appartengono all’universo narrato e da tale condizione privilegiata hanno buon gioco nella ricerca della complicità dei lettori.
Pennac, in particolare, mischia le carte con abilità consumata sollecitando il mondo della scuola nelle sue diverse componenti: i professori in difficoltà, i genitori sempre più frustrati di fronte all’insuccesso dei figli, gli studenti stessi. In Diario di scuola configura un io narrante dalla fisionomia ben studiata, capace di saldare l’ottica autorevole del pedagogo esperto con la prospettiva «dal basso» dell’allievo, ricostruita attraverso il recupero dei ricordi d’infanzia.
Una prospettiva tanto più efficacemente resa quanto più il punto di vista adottato non è quello dell’allievo comune, mediamente dotato, ma dell’asino, dello studente destinato all’insuccesso inevitabile, quale racconta di essere stato lo scrittore da piccolo. Ne risulta esaltata l’autorevolezza dell’io narrante, intento a rendere conto di una vicenda davvero esemplare , fondata sul racconto di un rovesciamento totale di fortuna: l’asino di un tempo, divenuto contro ogni aspettativa professore, ha acquisito la duplice capacità di condividere empaticamente la «sofferenza» di ogni somaro ma anche di affrontare, forte della propria esperienza personale e didattica, il tema spinoso della difficoltà di apprendimento.
Il diario di Pennac procede attraverso una prospettiva temporale apparentemente fluida e stratificata: alterna il recupero memoriale di episodi dell’infanzia al resoconto di esperienze recenti di insegnamento, alle prese con scolari sempre più demotivati e problematici, per far poi riferimento alla condizione presente dello scrittore conferenziere, vero e proprio maitre à penser nel mondo della scuola. Il tempo fluido è, tuttavia, anche il tempo ciclico che presiede al dispiegarsi delle dinamiche relazionali: il somaro di ieri può trasformarsi, senza soluzioni di continuità, nel bullo di periferia di oggi (il giovane Maximilien protagonista di uno degli episodi più significativi del libro). L’impasse dell’adulto di fronte alla cocciutaggine dell’asino di un tempo e all’aggressività proterva del ragazzo dell’odierna banlieue affonda le radici nell’eterno conflitto generazionale e può essere superata solo attingendo alle risorse di una disponibilità affettuosa e comprensiva, unita a fermezza autorevole. Ecco il vero punto di forza del libro di Pennac: l’autorevolezza del narratore non deriva dall’originalità delle proposte pedagogiche o degli spunti di analisi sociologica forniti rispetto ai problemi delle giovani generazioni. Anzi, il successo del libro dipende dalla scelta spregiudicata di puntare, se mai, sulla sociologia dell’ovvio e sulla pedagogia del buon senso: la critica al consumismo sfrenato delle nuove generazioni, il riferimento a un modello di insegnante né geniale né dotato di un fascino trascinante ma paziente e amante della propria disciplina, persino, nel finale, l’appello «buonista» all’amore, alla componente affettiva come fondamento irrinunciabile di ogni relazione educativa efficace. Va, comunque, rilevato un passo indietro rispetto al modello del docente carismatico, fiducioso nel potere suggestivo della propria parola, proposto nelle pagine di Come un romanzo, il bestseller di Pennac tanto apprezzato e discusso nella scuola italiana degli anni novanta.
Viene avvalorata al suo posto l’immagine rassicurante di un maestro affidabile, che sappia essere depositario tenace dei saperi disciplinari tradizionali ma, insieme, sollecito e affettuoso nei confronti degli studenti. Si fa strada, persino, una vena di nostalgia per un modello di educatore apparentemente «rétro», in realtà ben radicato nella tradizione europea anche se meno in quella italiana: la figura dell’educatore di collegio, disposto a condividere con gli allievi un’esperienza di vita comunitaria per guidarli continuativamente nel processo di apprendimento.
Non si tratta, nelle intenzioni di Pennac, di lasciarsi andare a un elogio del collegio ma di riconoscerne gli aspetti positivi, a cominciare dalla netta distinzione di ruoli tra scuola e famiglia sancita da tale istituzione.
È lo stesso Pennac, del resto, a sottolineare, proprio in Diario di scuola, la fortuna recente del mondo del collegio nell’immaginario della letteratura e della filmografia per l’infanzia, sintomo del fascino che la prospettiva di una comunità coesa, composta di studenti e docenti, esercita sulle giovani generazioni. L’eredità del «pennacchismo» sembra riassorbita in una proposta pedagogica scontata ma più equilibrata: resta, se mai, del Pennac precedente il rischio costante del cedimento all’enfasi retorica, la tentazione del pistolotto che affiora anche in molte pagine dell’ultimo libro. Se nella rievocazione del passato di scolaro l’autore si affida a un registro ironico con l’obiettivo di sdrammatizzare la «sofferenza del somaro» di allora, al resoconto dell’esperienza più recente o attuale soccorrono le armi della retorica più vieta: il ricorso costante all’apostrofe rivolta ai personaggi di volta in volta evocati, l’uso della prosopopea («nonna Marketing» per alludere al consumismo sfrenato di cui sono vittime le giovani generazioni), l’abbondanza di interrogative retoriche e lo spiegamento di un repertorio metaforico vasto ma non sempre originale.
All’eloquenza esuberante del narratore di Pennac corrisponde, invece, la stringatezza asciutta dell’io narrante del libro di Bégaudeau. Un io che non concede nulla allo scavo interiore né alla prospettiva del recupero memoriale ma punta sul racconto in presa diretta, che ha già il taglio della sceneggiatura tanto da sembrare naturalmente predisposto alla versione cinematografica. Ne risulta il resoconto di un anno di scuola in un istituto secondario della banlieue parigina, una scuola «movimentata» e «poco riposante», come lo stesso preside la definisce nella riunione d’inizio anno, dalla popolazione studentesca emblematicamente rappresentativa della multietnica capitale francese.
Anziché lasciarsi tentare dal gioco abile di distanziamento-avvicinamento orchestrato dall’io narrante di Pennac, il narratore de La classe ritaglia per sé pochissimo spazio: qualche cedimento alla registrazione di alcune reazioni emotive o espressioni di disagio («avevo dormito male»), poche note descrittive riconducibili allo spazio della didascalia per rappresentare luoghi e personaggi. Per il resto l’autore lascia il campo libero all’io narrato, intento a riportare fedelmente il racconto di un anno di scuola qualunque, tra il malumore e la noia dei docenti e l’insofferenza degli studenti. Lo fa attraverso la registrazione di un dialogato a ritmo di rap, all’inizio ironico e vivace, che diventa, però, sempre più incalzante e teso, sino ai limiti del diverbio costante. Due gli scenari privilegiati che si alternano nel corso della narrazione: da una parte la sala professori, dove si ripetono con una ritualità inquietante scene sempre uguali, dall’accanirsi indaffarato dei docenti attorno alla fotocopiatrice o alla macchina a gettoni del caffè alle riunioni monotone attorno al tavolo a U; dall’altra la classe, appunto, spazio vitale ma anche claustrofobico (non dimentichiamo che il titolo originale francese è Entre les murs) in cui il professore protagonista si misura quotidianamente con le provocazioni degli studenti, in un battibecco a volte esilarante ma spesso anche nervoso e conflittuale. Il registro ironico del dialogato, ispirato al contrasto tra il gergo giovanile degli studenti e le controbattute del prof, si alterna allo stile sintetico delle brevi sezioni descrittive o narrative, in cui sintassi nominale e scrittura densamente metaforica si compenetrano.
Una tecnica narrativa senza dubbio efficace, affidata a un io narrante che, se non esalta la propria autorevolezza, non accenna neanche a declinare le responsabilità, anzi si mette coraggiosamente in gioco. Il prof protagonista non ha certo i tratti dell’educatore carismatico: appare disincantato quel tanto che basta per non farsi illusioni, consapevole della propria fragilità di adulto ma mai rinunciatario. Gli sta attorno un contesto non facile, dominato dalle problematiche tipiche della scuola francese e non solo: il disagio sociale delle periferie cittadine, l’integrazione culturale e linguistica degli adolescenti stranieri di recente immigrazione, l’atteggiamento di sfida degli studenti, la difficoltà dei rapporti tra scuola e famiglia. Eppure si tratta di un contesto caratterizzato da una vitalità reattiva, che stimola il confronto e induce il pubblico adulto e giovanile, in Francia come in Italia, a processi di immedesimazione non univoci e scontati. Ecco spiegato il successo in Italia del libro di Bégaudeau ma anche del diario di Pennac: entrambi pescano nel calderone vari temi riscontrabili nel dibattito giornalistico sulla scuola italiana, tra bullismo, multiculturalità, voto di condotta, riforma Gelmini. Il pubblico italiano vi respira un’atmosfera più attuale rispetto ai vari scenari descritti dai prof scrittori di casa nostra, ancora restii, tutto sommato, ad affrontare l’impatto che i fenomeni demografici e sociali più recenti hanno sul mondo della scuola. La suggestione dell’attualità lascia emergere, tuttavia, differenze sostanziali.
Diverso è innanzitutto il rapporto degli autori d’oltralpe con l’istituzione scolastica: attraverso le pagine dei loro libri si configura un’istituzione affetta sì da malessere e disagio diffuso, ma anche saldamente ancorata a un sistema di regole fermo e condiviso. Si pensi al resoconto della serie di consigli disciplinari inflessibili riportato nelle pagine finali de La classe, sui cui provvedimenti il narratore ironizza senza, tuttavia, metterne in discussione la legittimità.
L’altra differenza concerne l’atteggiamento nei confronti del mondo della scuola: sia in Pennac sia in Bégaudeau, autori assai diversi quanto a scelte di stile oltre che per appartenenza generazionale, resiste una vocazione pedagogica ancora percepibile, che identifica nella relazione tra docenti e studenti il fulcro dell’azione educativa. Insomma, i prof francesi sono ancora in cattedra, non «ex cathedra», o almeno sono in classe e nei loro libri raccontano come si può provare a far lezione ai ragazzi d’oggi. E ci provano cominciando dall’educazione linguistica, di cui riconoscono la funzione propedeutica allo studio delle altre discipline. Niente di speciale, forse, ma sempre meglio del narcisismo vittimistico che ha caratterizzato, salvo rare eccezioni (Sandro Onofri di Registro di classe o l’ultimo Affinati di La città dei ragazzi) gli autori nostrani di storie di scuola, troppo concentrati spesso sul cumulo di frustrazioni da cui si sentono oppressi per interessarsi allo scenario collettivo che hanno di fronte: la classe, appunto.
A sottolineare il tono diverso delle storie di scuola basta riflettere sulla valenza varia di una metafora ricorrente: l’immagine dell’uccello che si leva in volo sulle proprie ali, emblema, sicuramente non inedito, di un processo di formazione compiutamente realizzato. E Pennac a proporre la metafora nel suo significato più convenzionale nelle pagine di Diario di scuola, dove usa l’immagine del «volo di rondini» per alludere al pieno compimento del processo pedagogico.
Bégaudeau, invece, paragona con lucido disincanto a un «volo di passeri» l’effetto di dispersione rumorosa che il suono della campanella di fine lezione determina nella scolaresca. Paola Mastrocola ne La gallina volante (2000) descrive un diversivo stravagante che impegna nel tempo libero la prof protagonista del romanzo: il progetto, perseguito con una tenacia ossessiva, di far volare una gallina. Alla fine la prof ci riesce e arriva a coinvolgere nel passatempo bizzarro anche un’allieva sensibile e intelligente. Il volo della gallina è un’allusione ammiccante all’esito dell’attività didattica? Forse. Ma tra le galline del pollaio, che tanto sta a cuore alla prof della Mastrocola, solo una impara a volare. Sembra di dedurre che gli altri polli siano destinati a rimanere a terra: d’altra parte la Mastrocola non condivide la simpatia di Pennac per i somari, tanto che ha stroncato l’ultimo libro dello scrittore francese giudicandolo «conforme alla filosofia ministeriale degli ultimi dieci anni fondata sul recupero selvaggio». Tra tutte le metafore ornitologiche care ai nostri prof scrittori pare, in fondo, salvarsi da convenzionalità e snobismo supponente l’immagine del «volo di passeri» di Bégaudeau. Vi si riconosce, se non altro, l’emblema di una esuberanza giovanile istintiva e vitale con cui l’autorità adulta si sforza di fare i conti.