La femminilizzazione dei premi letterari

Che cosa ci dicono i premi letterari sulla nostra società letteraria? Si sta, o no, femminilizzando? Le scrittrici hanno davvero espugnato il fortino dei vari Viareggio, Strega, Campiello? Se nel 2008 fa ancora scalpore una cinquina «quasi» tutta al femminile, è perché il vero nodo non sta tra i premiati, ma tra i giurati. Crescono i dirigenti editoriali donna, le autrici, le lettrici: eppure, ci sono giurie che assomigliano ancora a Circoli degli Scacchi, o della Caccia.
 
Negli ultimi anni del secolo scorso un grande critico, Geno Pampaloni, commentando la cinquina finalista a un premio Campiello, con quattro concorrenti su cinque giovani, scriveva: «E un indizio che la società letteraria italiana, gerontocratica, si sta rinnovando». Se trasferiamo l’equazione nell’ambito del rapporto tra i sessi, oggi i premi letterari cosa ci dicono sulla nostra società letteraria? Si sta, o no, femminilizzando? Insomma, il peso delle donne è cresciuto? In termini di premi, sì, di sicuro.
Ma, se siamo così decise nel giudizio, è perché il dato da cui partire è questo: fino agli anni settanta-ottanta del Novecento le donne, ai premi, non avevano affatto accesso. O quasi.
Tant’è che ancora nel 1985 si sentiva il bisogno di fondare un premio per la «donna scrittrice», il Rapallo Carige. Che a tutt’oggi mantiene, a nostro parere, una sua ragion d’essere.
L’Italia, come si sa, è una premiopoli: al 2001 erano censiti 1825 riconoscimenti letterari nella penisola. Dopo di allora il dato si suppone sia rimasto analogo, perché la foga degli enti locali (assessorati, comuni, province, i principali promotori) si è riversata soprattutto, e in modo altrettanto maniacale e monocorde, nella «novità» del terzo millennio, i festival. Dunque, non potendo fare la radiografia di 1825 premi, analizziamo i tre maggiori, per ciò che concerne la produzione nazionale: Viareggio, Strega e Campiello.
Il più antico, e anche il più chic e meno popolare, è il Viareggio. Ottantenne, con la sua unica sezione iniziale, narrativa, poi con tre, narrativa, saggistica e poesia, da alcuni anni anche con quella opera prima, calcolando il «buco» 1940-45, quando non fu celebrato per la guerra, ha assegnato, se non sbagliamo i conti, 130 riconoscimenti. Su 130, 19 sono andati a firme femminili. Il premio Viareggio è un sismografo abbastanza fedele di come stiano le cose, per le donne in Italia, non solo nella società letteraria, ma nella società nel suo complesso. Dal suo esordio, avvenuto nel 1930, bisogna aspettare il 1939 perché Maria Bellonci lo vinca per la saggistica. Poi il 1948 quando esso incorona Elsa Morante e Sibilla Aleramo e il 1949 quando va a Renata Viganò. Passata l’ebbrezza del dopoguerra e della neonata Costituzione con i suoi diritti uguali per i due sessi, si arranca fino al Viareggio 1956 di Gianna Manzini. Poi buio. E già, i cinquanta e i sessanta sono, per il genere femminile nel mondo occidentale, anni orribili. Nel 74 vince Clotilde Marghieri. Ma l’onda lunga del femminismo e del nuovo protagonismo femminile, anche qui, come altrove, raggiunge la riva negli ottanta: nel 1983 vince Giuliana Morandini, nel 1984 Gina Lagorio, nel 1986 Marisa Volpi, nel 1988 Rosetta Loy, nel 1990 Luisa Adorno, nel 1996 Alda Merini, nel 1997 Franca Grisoni, nel 2002 vincono Fleur Jaeggy e Jolanda Insana, nel 2004 Livia Livi, nel 2007 Silvia Bre, nel 2008 Francesca Sanvitale, nel 2009 Edith Bruck. Ma sul biennio 2008-2009 torneremo, perché, per una serie di segnali, sono annate da esaminare non solo premio per premio ma anche nel loro complesso.
Messa così, si può cadere nell’abbaglio e ritenere che romanziere, poetesse e saggiste dagli anni ottanta abbiano infranto il soffitto di cristallo. Ma si tenga conto che in tutti gli anni non citati il Viareggio non le «vedeva». E che, in quelli citati, è stato il genere maschile a papparsi il resto del bouquet dei riconoscimenti.
Già, ma si può procedere per numeri, quando si parla di arte e di qualità? Sì che si può. Perché i premi sono il frutto di processi complessi, dove pesa la presenza che un genere, ma anche una coorte anagrafica, perfino una componente geografica, hanno nell’industria culturale, dalle case editrici alle università. E che, poi, si rispecchia lì, nei numeri.
Dai nomi poi che abbiamo fatto, si capisce il livello che negli anni bui le nostre scrittrici dovevano aver raggiunto per espugnare il fortino. Il fortino di un premio che nel frattempo «non vedeva» Anna Banti, Paola Masino, Alba de Céspedes…
Ed eccoci al premio Strega, fondato da una donna, Maria Bellonci e dopo la sua morte a lungo governato da un’altra, Anna Maria Rimoaldi. Nonostante questo, in 63 edizioni il Ninfeo incorona solo dieci scrittrici: nel 1957 (a dieci anni dalla nascita) Elsa Morante, nel 1963 Natalia Ginzburg, nel 1967 Anna Maria Ortese, nel 1969 Lalla Romano, nel 1976 Fausta Cialente, nel 1986 la stessa Maria Bellonci, nel 1995 Mariateresa di Lascia, nel 1999 Dacia Marami, nel 2002 Margaret Mazzantini, nel 2003 Melania Mazzucco. Sì, qualcosa negli ultimi anni si è mosso.
Finiamo col Campiello. Che, nato nel 1963, aspetta il 1971 per premiare Gianna Manzini, poi buio fino al 1988 quando vince Rosetta Loy e, da lì, eccoci entrati nella logica di un quasi, simil-normale, dinamismo: nell’89 va a Francesca Duranti, nel 1990 a Dacia Marami, nel 1991 a Isabella Bossi Fedrigotti, nel 1997 a Marta Morazzoni, nel 2004 a Paola Mastrocola, nel 2007 a Mariolina Venezia, nel 2008 a Benedetta Cibrario, nel 2009 a Margaret Mazzantini. Ma sulle ultime due annate andrà fatto appunto un discorso in termini di «società letteraria», anziché di singoli premi.
E, come per Viareggio e Strega, attenti a non cadere nell’abbaglio: in tutti gli anni non citati vincono gli «altri», gli uomini.
C’è, per il Campiello, da aggiungere però che le sue cinquine sono da sempre meno rigorosamente monosessuate al maschile delle selezioni finali degli altri premi.
E appunto la cinquina quasi tutta rosa del premio veneziano, nel 2008 – Benedetta Cibrario, Chiara Gamberale, Eliana Bouchard, Cinzia Tani, Paolo Di Stefano – ha creato un caso. Perché in giuria c’era chi premeva per levare quel «quasi», cioè eliminare Di Stefano e selezionare un’altra firma femminile. E ottenere così i relativi titoloni sui giornali. Già: ma hanno fatto mai notizia gli anni innumerevoli in cui in finale ai premi maggiori, medi, piccoli, piccolissimi, sono arrivati solo autori maschi?
Qui è il segno della stortura. Che ancora c’è. Eccome. E il nodo è tutto lì: nelle giurie. Per decenni un paio di signore della penna, Dacia Marami e Maria Luisa Spaziani, diciamo tre, aggiungendo Jacqueline Risset, si sono trovate sole, solissime, in giurie per il resto in rigoroso doppiopetto. Adesso le cose – con molto, moltissimo juicio… – vanno cambiando. Il Viareggio ha una presidente, Rosanna Bettarini, e tre giurate donne su venti, Marisa Bulgheroni, Simona Costa e Grazia Livi. Allo Strega sui 400 «Amici della domenica» 110 sono di sesso femminile (cioè pur sempre solo un quarto). Il Campiello vede un 2 a 10: Nicoletta Maraschio e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo «versus» (o a fianco) la decina maschile.
I premi più giovani nascono, sembra, con qualche consapevolezza in più della faccenda, viene da dire con più decenza, sicché al Vallombrosa-von Rezzori, venuto alla luce nel 2007, su cinque giurati una è Livia Manera.
Non è detto, d’altronde, che il livello culturale di un’istituzione garantisca una formazione meno monosessuata. Parlare del Grinzane Cavour, di questi tempi, è come sparare sulla Croce Rossa. Ma qui ci permettiamo un ricordo personale: il bel convegno La scrittura svelata: parole e donne dal Maghreb all’Iran organizzato nel 2006 dal premio torinese. Convegno di qualità, come il Grinzane, scandali a parte, sapeva organizzare. Però è indelebile il ricordo della dozzina tutta rigorosamente maschile di esponenti del comitato scientifico sul palco, in giacca e cravatta e, sotto la mostra di mocassini e scarpe Duilio, lo sciame femminile di romanziere e poetesse musulmane invitate a dire di sé al microfono. Nota bene: arabiste di razza in Italia non mancano.
Ora, dicevamo che un premio è l’approdo finale di giochi complessi, che si fanno a monte. Dunque, dell’equilibrio di poteri nell’industria culturale. E, in cifre, questo ci dice l’indagine AIE 2008 sull’editoria: le donne che qui occupano posizioni direttive sono passate dal 27,5% del 1991 al 36%, nella piccola editoria poi stanno per fare il sorpasso, perché occupano il 46% delle posizioni di vertice. Sarà per questo che le autrici crescono, nei cataloghi, del 15% l’anno: nel 2006 i libri scritti da donne erano il 38% del totale. D’altronde nel 1965 leggevano il 14,6% delle cittadine italiane e il 18% dei cittadini; oggi la metà delle donne e un terzo degli uomini; fra i giovani, il 64% delle ragazze e il 38% dei ragazzi.
E, dunque, per quanto la lobby maschile si opponga, per quanto in università e accademie, cioè nelle istituzioni pubbliche, la partita del riequilibrio sia molto più defatigante che nell’impresa privata, e, dunque, esse esprimano «esperti» giurati al novanta per cento uomini, per quanto ci siano giurie che sembrano un Circolo degli Scacchi, o della Caccia, interdetti alle signore, l’onda è inesorabile.
Si è visto in quella cinquina veneziana del 2008, si è visto nella doppietta Mazzantini-Bruck, tra Campiello e Viareggio, nel 2009. Se a leggere in Italia sono le donne, se a scrivere, sempre di più, idem, prima o poi succederà. I nostri premi, scricchiolando, disfacendosi, trasformandosi, cominceranno ad assomigliare alla società letteraria. Alla società tout-court.