«Una superficialità espansa» Intervista a Gianfranco Cordara

La «superficialità» dei nativi digitali non ha necessariamente connotazione negativa: è un nuovo modo di esplorare il mondo «a ragnatela». Ma non è esente da rischi: senza la conoscenza di un contesto d’uso e una cultura profonda la navigazione è subordinata alla selezione di informazioni da parte dei grandi portali. Per non giocare al ribasso con contenuti di scarso livello purché gratuiti, si impone una ridefinizione dei mediatori culturali, con la rifondazione di un’industria dei contenuti autorevole, che torni a guidare il processo creativo.
 
Gianfranco Cordara è direttore creativo Disney Publishing Worldwide e responsabile per la strategia dei contenuti digitali per Global Magazines. Fin dal 2009, la Disney Publishing ha lanciato le prime applicazioni di fumetti digitali Digicomics, sviluppate a Milano, dove viene ideato il 70% dei fumetti Disney mondiali.
 
La lettura digitale, ovvero sugli schermi, è ormai praticata da tutti, sia dagli immigranti digitali sia dai nativi digitali (in altre parole dagli adulti e dai giovani o giovanissimi). Non è lineare ma al contrario segmentata e frammentata, rispecchiando il modo di apprendimento tipico delle nuove generazioni. Quanto e come influisce tutto ciò sul modo di creare dei contenuti culturali?
Storicamente la transizione dalla scrittura cartacea alla scrittura digitale è iniziata diverso tempo fa con l’avvento di Internet, ma l’affermazione dei nuovi device digitali (iPhone, iPad ecc.) ha rimesso un po’ tutto in discussione e ha fermato il processo di transizione tra le due scritture. Questo perché finora il mercato si è accontentato di trovare nuovi canali distributivi ma ha investito poco sulla creazione di nuovi contenuti scritti appositamente per tali device.
Come in ogni transizione mediale, per prima cosa si contamina la scrittura esistente con tutta una serie di stilemi provenienti da altre scritture. Mi vengono in mente per esempio gli applicativi migliori per iPad nel campo dell’editoria digitale come The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore, un libro meraviglioso realizzato da un ex animatore della Pixar che di fatto è un prodotto di animazione, non di scrittura. Anche nel mercato dei fumetti la prima transizione possibile è stata quella dei motion comics dove, partendo da un classico fumetto, lo si è animato fino a trasformarlo in un ibrido tra fumetto e cartone animato.
Credo che stiamo attraversando un processo di evoluzione naturale del mezzo, tale per cui occorre creare una nuova grammatica per questi nuovi device, senza cadere nell’errore comune di lasciarsi condizionare dalla tecnologia, che spesso guida la creatività e pone dei limiti. E come dire che la Pixar ha creato Monster perché ha trovato un algoritmo in grado di far muovere il pelo del mostro: se il risultato qualitativo è alto, come in questo caso, non ci sono problemi, ma in troppi altri casi si tratta solo di una dimostrazione di dove la tecnologia può andare. Dovrebbe invece essere il contrario: dovremmo capire a monte cosa vogliamo raccontare e poi «piegare» il dispositivo. Fino a quando non avremo un controllo più ampio della tecnologia di creazione di questi contenuti e saranno realmente la creatività e la volontà dell’autore a guidare il processo di creazione, saremo sempre in una fase di transizione. Sarebbe bello capire quanto essa durerà.
 
Win Veen, studioso dei nuovi media, usa la metafora «Homo Zappiens» riferendosi alla generazione che ha avuto nel mouse, nel pc e nello schermo la finestra di accesso al mondo, sviluppando dei comportamenti di apprendimento non lineari, ma piuttosto learning by doing. Cosa ne pensa dei nuovi consumatori del futuro, multitasking e «infedeli» rispetto alla fruizione dei contenuti?
Nella mia famiglia ho due persone che mi permettono di fare dei beta test: mio nipote di 15 anni, un nativo digitale della prima ora che è cresciuto con lo schermo del pc e si è adattato ai nuovi device, e mio figlio di quattro anni, che ogni volta che apro il portatile cerca di toccare lo schermo in attesa che accada qualcosa. Già tra le loro generazioni noto delle differenze sostanziali nelle abitudini di consumo, a loro volta completamente diverse dalle nostre che veniamo da una generazione che era di transizione. Credo ci siano due temi importanti: il primo, a mio avviso fondamentale e già ampiamente dibattuto (penso per esempio ai Barbari di Alessandro Baricco), è quello della superficialità. Se nella nostra cultura il termine «superficiale» è un giudizio di valore e rimanda a qualcosa di «poco profondo» e quindi poco interessante, al contrario la superficialità dei nativi digitali è un qualcosa di diverso, che potremmo definire una «superficialità espansa»: un nuovo modo di esplorare il mondo in superficie creando connessioni molto velocemente e in maniera trasversale. Una modalità che non è propria della mente della nostra generazione che va in profondità e funziona in maniera verticale. Ciò influisce ovviamente anche sul modo di creare contenuti, soprattutto di fiction poiché per questo genere narrativo non siamo assolutamente abituati al modello «a ragnatela» tipico delle giovani generazioni.
Il secondo tema risiede secondo me più che altro nell’incapacità dei nativi digitali – e questo è l’unico vero giudizio di valore – di creare un contesto. Ricordo una frase bellissima di Louis Rossetto, il fondatore della rivista «Wired», che diceva, riferendosi alla generazione di chi adesso ha tra i 35 e 40 anni: «Noi siamo la generazione più potente del pianeta, perché ci siamo formati una cultura e solo successivamente ci siamo immersi nell’altra. Siamo in grado quindi di tenere insieme entrambe». Ciò si dimostra davanti alla pagina bianca di Google: se uno sa cosa cercare, Internet è uno strumento straordinario. Ma se non sa cosa cercare – e questa è la situazione dei nativi digitali cui manca il contesto d’uso e una cultura profonda e lineare alle spalle – la navigazione è superficiale e pertanto persa, poiché è subordinata alla selezione di informazioni da parte dei grandi portali, per cui sono loro a scegliere e non l’utente finale. E questo per me è uno degli aspetti più critici dell’evoluzione che stiamo vivendo, che è anche il vero rischio politico, sociale ma soprattutto personale: avere delle persone bravissime a muoversi in questo mondo virtuale ma senza una direzione, perché quello che per noi è uno strumento per loro diventa il contesto d’uso stesso.
 
Con Internet si è sovraesposti alle informazioni e ci si trova spesso di fronte al problema di selezionare le fonti. Se nel mondo cartaceo finora hanno selezionano gli editori, chi si occupa invece di consigliare cosa fare e cosa leggere nel maremagnum di Internet?
In uno scenario in trasformazione è difficile capire quale sarà il futuro. Credo che il vero problema di oggi sia la ridefinizione dei mediatori culturali. Se storicamente quello era un ruolo dell’editore, in grado di dare autorevolezza ai contenuti distribuiti anche attraverso un marchio riconosciuto e riconoscibile, oggi purtroppo le cose stanno cambiando, specialmente per quanto riguarda i giovani consumatori. Essi difatti seguono la massa, la quale si è spostata per la maggior parte su Facebook che, pur non essendo un marchio, è in grado di orientare i comportamenti di acquisto e di risultare più affidabile rispetto ad altri mediatori culturali. Ciò perché i nativi digitali si fidano di più di quello che dice un amico sul social network – una persona a loro affine per gusti, interessi e ideologie – rispetto a ciò che leggono sulla «Repubblica».
Le radici di quest’evoluzione digitale credo si possano trovare nell’impostazione culturale della Berkeley degli anni sessanta, secondo cui tutta l’informazione deve essere libera e condivisibile. Una categoria ideologica che è stata trasformata in righe di programma (penso alle aziende nate nella Silicon Valley: Apple, Google, Facebook) ma che secondo me è pari a una sorta di anarchia strutturata, non certo positiva. Da qui l’esigenza di avere, oggi più che mai, dei mediatori culturali come gli editori che garantiscano la qualità delle informazioni – torniamo al punto di partenza ma che nello stesso tempo siano in grado di definire nuove tipologie di contenuti andando incontro alle nuove categorie ideologiche che si stanno affermando, senza riproporre sul web o sui nuovi device il proprio modello già esistente. Una cosa ovviamente più semplice per i brand maggiormente conosciuti (Disney è uno di questi casi) per cui la transizione al digitale è più facile; più difficile la situazione per i nuovi attori sul mercato. Ma nessuno può fare previsioni, poiché si tratta di un processo in grossa trasformazione.
 
Internet è un mezzo partecipativo, che spinge alla condivisione. Cosa ne pensa dello user generated content e come può influenzare l’editoria digitale?
Diverse teorie semiotiche affermano che il lettore ha sempre partecipato alla creazione del testo, il quale esiste nel momento in cui viene letto e interpretato dal fruitore. Ma dal punto di vista dell’autore o del produttore di contenuti seguire questa deriva di condivisione e partecipazione da parte degli utenti rischia di essere un corto circuito.
Steve Jobs ha detto che «non è compito dei consumatori sapere ciò che vogliono». Allo stesso modo potremmo affermare che il lavoro del lettore non è quello di scrivere la storia ma di leggerla, magari in un processo scambievole con l’autore stesso. Lo confermano esperimenti recenti molto positivi come quello della serie televisiva Lost: gli autori hanno creato un testo chiuso con grandi possibilità di apertura, lasciando che queste fossero esplorate dai lettori (in questo caso spettatori) che hanno costruito una vera e propria enciclopedia (Eostpedia) e tante storie e interpretazioni attorno a quel mondo. Secondo me questo è il modello che va esplorato oggi: un testo imposto dall’autore in cui è chiara la storia e la visione generale, in cui si lasciano delle aperture di senso da approfondire.
 
E per quanto riguarda la gratuità dei contenuti letti su Internet? Come ci si deve porre di fronte a questa deriva?
Il problema è quello del diritto d’autore, che oggi viene messo in discussione fino ad arrivare a considerare come legittima la gratuità dei contenuti. Tutti stiamo sperimentando dei nuovi modelli di business ma io non credo che la gratuità in genere sia la soluzione tout court. In una fase come quella attuale in cui stiamo ridefinendo i ruoli (consumatore, autore, editore) siamo ancora in una situazione di ibrido; se il modello del fair price consente di stare sul mercato, non credo nella sostenibilità – specie nel lungo periodo – dei nuovi modelli di autoproduzione per cui la distribuzione avviene tramite Internet a offerta libera (penso all’iniziativa del gruppo inglese dei Radiohead, che ha messo on line l’album disponibile per il download dietro il pagamento di una somma decisa dall’utente, che poteva essere pari anche a 0 euro). Secondo me i modelli che meglio funzionano sono quelli del freemium, che offrono cioè una serie di contenuti gratuiti di base subordinando ulteriori contenuti al pagamento di una fee.
Il tema della gratuità è particolarmente critico se ci si riferisce ai giovani, i quali preferiscono leggere un blog qualsiasi che è gratuito piuttosto che pagare l’abbonamento al «New York Times», perché spesso non percepiscono la discriminante tra l’una e l’altra cosa, ovvero l’autorevolezza del marchio e il grosso lavoro editoriale che sta a monte. Il rischio pertanto è che circolino dei contenuti di basso livello e che si formino delle generazioni di individui che consumano contenuti solo perché gratuiti. C’è un sistema industria che va ricreato ma ci sono dei costi associati che qualcuno deve sostenere. Il problema è trasmettere questo concetto ai consumatori del futuro.