Narrazione di sé e socialità online

Tutti ci rendiamo conto, più o meno, di essere sempre più immersi nel mare della comunicazione tecnologica, fra telefonia mobile, Internet tradizionale e Internet in mobilità. Ma non sempre siamo consapevoli delle dimensioni del fenomeno. Tra le molte tipologie di siti caratteristici del cosiddetto web 2.0, cioè dello sviluppo di Internet verso l’interattività e la multimedialità, i social network sono uno dei fenomeni più vistosi, spesso sbeffeggiati, ma poi comunque frequentati da un numero crescente di persone, che evidentemente ci trovano attrattive e gratificazioni.
 
Siamo tutti immersi, si sa, nel mare della comunicazione tecnologica, anzi multitecnologica, digitale e multimodale, fra persistenza dei media mainstream (indeboliti, ma ancora potentissimi) e affermarsi travolgente della Rete, o meglio delle Reti. Lo scenario attuale si produce a partire da due fenomeni abbastanza diversi, che a un certo punto si sono sovrapposti. Anzitutto, l’espansione di Internet, in quanto legata alle infrastrutture della telefonia fissa e più in generale delle telecomunicazioni, cioè a cavi, che supportano trasmissioni di dati su banda più o meno larga. Ecco qualche rapido dato sulla penetrazione di Internet nel mondo: nel 1995 gli utenti Internet erano quaranta milioni; nel 2008 sono diventati 1,4 miliardi; nel settembre 2012 sono circa 2,1 miliardi, pari a poco più del 30% della popolazione mondiale. Solo in Italia, nel 2010 gli utenti Internet fra gli 11 e i 74 anni erano circa trenta milioni, pari a circa il 67 % della popolazione; nell’agosto 2013 sono saliti a trentotto milioni, pari al 71,70%. E una crescita impressionante; d’altro canto, la velocità di espansione di Internet via cavo sta già da tempo rallentando, per le difficoltà e i costi della diffusione delle linee, che comportano spese e problemi di posa e di manutenzione. Ma a essa si sovrappone, rilanciandola esponenzialmente, l’ancora più fulminea e onnipervasiva espansione delle comunicazioni wireless: cioè sia della rete Gsm, la rete «tradizionale» dei telefonini, sia delle reti wi-fì di più recente generazione. Gli anni novanta registrano l’esplosione planetaria del wireless, grazie a una crescita sostanziale della capacità di connessione e dell’ampiezza di banda dei cellulari: nella storia umana nessuna tecnologia della comunicazione ha avuto una velocità di diffusione comparabile. Già nel 2008 le utenze di cellulari nel mondo erano circa 3,4 miliardi, pari al 52 % della popolazione mondiale. Nel novembre 2012 si registrano oltre 6,4 miliardi di utenze, corrispondenti a circa 4,1/4,3 miliardi di utenti attivi (Ericsson Mobility Report. On thè Pulse of Networked Society. November 2012, www.ericsson.com/traffic-market-report). Ricordiamo che la popolazione della Terra ha superato ufficialmente i sette miliardi nell’ottobre 2011. Certo, moltissime utenze sono inattive, e moltissimi utenti possiedono più di una scheda. Ma la cifra è davvero impressionante, e corrisponde a qualcosa come il 57% della popolazione mondiale. Secondo le stime degli analisti, nel 2017 le reti Wcdma/Hspa (Wideband Code Division Multiple Access/ High Speed Packet Access) raggiungeranno qualcosa come l’85 % della popolazione del pianeta, con la conseguente attivazione di nove miliardi di contratti per telefonini.
A questi numeri se ne possono aggiungere altri, riguardanti la frequentazione di un tipo di sito molto recente: i social network, o social media. Nel 2003 il tempo medio passato dagli utenti Internet italiani sui social network era poco più di un quarto d’ora; nel 2005 poco più di un’ora; nel 2007 due ore; nel 2008 tre e mezzo. Nel dicembre 2009 questo valore è passato a cinque ore e mezzo, operando un sorpasso sorprendente: social network e blog sono diventati i siti più frequentati di Internet, scavalcando i motori di ricerca, i siti di informazione e di acquisto, i giochi online e altri portali molto frequentati. Poco dopo, nel marzo 2010, le visite a Facebook hanno superato persino quelle a Google. Il fenomeno si è consolidato su dimensioni mondiali: nel giugno 2013 il numero degli utenti attivi di Facebook, largamente oltre il miliardo già dal 2012, ha superato quello di Google. Gli atteggiamenti nei confronti dei social network sono molto vari, e in non pochi casi estremi: da un rifiuto indiscriminato e ostentato all’accettazione passiva, fino al coinvolgimento compulsivo e alla dipendenza. Proviamo a ragionarne con serenità. Anzitutto, i social network sono anche una conseguenza vistosa di un evento tecnologico generalizzato: la digitalizzazione, che permette un sistema dei media integrato, dove praticamente tutti i «contenuti» possono essere «riformattati», e distribuiti sempre più capillarmente. La digitalizzazione si somma allo sviluppo vertiginoso della connettività: «Il carattere chiave della comunicazione wireless non è la mobilità ma la connettività perpetua», con il risultato che la vita quotidiana è sempre più ibridata dai media (Manuel Castells, Comunicazione e potere). Questa condizione possiede potenzialità non sottovalutabili. La Rete, con le sue più recenti funzionalità, sta di fatto cambiando le regole della comunicazione, rendendo possibile una nuova comunicazione mirata, cosiddetta point-to-point, con infinite variabili fra la trasmissione a singoli utenti e la trasmissione a pubblici larghi, fra narrowcasting e broadcasting. Si tratta di un nuovo tipo di comunicazione di massa, perché può raggiungere un pubblico globale; ma al tempo stesso si tratta di una autocomunicazione, perché il messaggio è autoprodotto, la definizione dei potenziali destinatari autodiretta, il reperimento di specifici messaggi autoselezionato. A questo proposito, Castells propone il termine di autocomunicazione di massa (mass self-communication), in opposizione alla comunicazione di massa tout court.
D’altro canto è anche evidente il devastante effetto di dispersione, di deconcentrazione, di aumento della distrazione cognitiva e interpersonale prodotto dalle nuove tecnologie. Nel bene e nel male, dal momento in cui siamo immessi e immersi in un flusso, anzi in una molteplicità di flussi di comunicazione permanente, facciamo fatica a non essere dominati da una sorta di pulsione comunicativa perenne, che ci rende perennemente raggiungibili, iperrelazionati: ma anche iperdistratti, proprio perché stiamo attenti o crediamo di stare attenti a troppe cose. Più neutralmente, e un po’ più tecnicamente, vale la pena di notare che l’incremento di partecipazione, cioè insieme di «democraticità» e potenziale dispersione, fa tutt’uno con un radicale cambiamento del web, cioè con l’avvento, con il terzo millennio, del cosiddetto web 2.0 (termine coniato nel 2004 dall’editore americano O’Reilly Media), che consente molti livelli di interazione, superando la staticità dei primi siti Internet, che consentivano solo la navigazione ipertestuale e l’uso dei motori di ricerca. Il computer è ormai definitivamente diventato un medium comunicativo a tutti gli effetti: se in una prima fase consentiva una comunicazione testuale (posta elettronica, newsgroup, chat), poi l’accesso a contenuti multimediali (accessibili, ma collocati da altri), ora consente l’uso autonomo, espressivo, sia di testi sia di contenuti multimediali. E così che si passa dalla chat testuale alle chat audio/video, fino ai sistemi di instant messaging (che, a differenza delle mail, consentono di scegliere i mittenti da accettare, con una contact list), ai blog (da weblog), cioè pagine web autogestite, aperte ai commenti (più o meno incontrollati) degli altri utenti, e ai vlog (cioè video blog). Come osserva acutamente lo psicologo Giuseppe Riva, si può considerare la messaggistica istantanea come «la “madre” dei social network», mentre il blog ne sarebbe il «padre» (I social network).
Tutti noi conosciamo poi altri spazi cibernetici in cui l’utente può intervenire attivamente: i Wiki, cioè pagine web integrabili dai loro stessi frequentatori (Wikipedia è la più famosa pagina web di questo tipo); i siti p2p (peer-to-peer, cioè «da pari a pari», in cui viene meno la gerarchia fra nodi della Rete), e soprattutto le loro manifestazioni più note, cioè le reti di file-sharing, a cominciare da YouTube, nato nel febbraio 2005, baciato da un travolgente successo e quindi acquistato da Google nel 2006.1 social network sono un portato di questa evoluzione complessiva del web, di cui sono un esito fondamentale. Non è questa la sede per ripercorrerne la storia: ricordo, al volo, che il primo social network è stato Sixdegrees, nato nel 1997, sito pionieristico e forse troppo precoce; la vera esplosione comincia nel 2003, con Myspace, acquisito nel 2005 dalla News Corporation di Murdoch. Un’ulteriore espansione scatta nel 2004, quando a Harvard nasce Facebook, ormai entrato in borsa e disponibile in settanta lingue diverse. E del 2006, poi, la nascita di Twitter, il primo social network pensato per essere usato anche in mobilità, grazie alla leggerezza del suo impianto: modello di microblogging, in cui gli utenti vengono a sapere cosa fanno e dicono gli altri, e al tempo stesso hanno la possibilità di raccontarsi.
In modo molto rapido, possiamo dire che un social network è un sito in cui si condensano alcuni servizi, cioè in sostanza un portale, dove viene messa a disposizione degli utenti una piattaforma con uno spazio virtuale su cui ciascuno può mostrare il proprio profilo, accessibile (del tutto o in parte) agli altri. In questo spazio l’utente crea una lista di altri utenti con cui comunica, e viene messo in condizione di inserire testi (visibili a tutti, a una cerchia selezionata, o anche inviati come e-mail a un singolo utente), immagini, file audio e file video. I forum e le chat consentivano già di comunicare con altri fruitori, separatamente o insieme; i blog davano la possibilità di raccontarsi a un pubblico attivamente interagente; ma solo i social network rendono visibile la rete sociale di ogni singolo utente, i suoi collegamenti o i suoi «amici», consentendo contemporaneamente il caricamento (upload) e lo scaricamento (download) di contenuti multimediali. La struttura del social network permette agli utenti di entrare in contatto con la rete sociale di altri utenti, e allargare significativamente le proprie relazioni. In prima approssimazione, il social network crea così uno spazio sociale ibrido, che rimescola i rapporti fra il reale e il virtuale. Comunque lo si voglia guardare, esso crea le possibilità di un potenziamento della propria esperienza, nei limiti del cyberspazio, ma comunque generando la possibilità di andare oltre, tornando alla realtà. Non si può trascurare che la relazione «debole» cibernetica può costituire, e in molti casi di fatto costituisce, un primo passo verso relazioni reali, con esiti assai diversificati, che trovano un campo di esercizio privilegiato nella seduzione (il 1520% degli utenti usa sistematicamente i social network per flirtare): ne possono derivare, è chiaro, incontri altamente gratificanti, ma anche situazioni rischiose, con esiti talvolta tragici. Se proprio la debolezza dei legami da social network può diventare un ponte verso nuove relazioni, è anche vero che, nella maggioranza dei casi, queste relazioni non superano la soglia del virtuale, e restano comunque assai esili, occasionali e precarie.
Certo però i social network raccolgono un tale consenso perché generano gratificazioni. Anzitutto già rendendo possibile un allargamento delle conoscenze e dell’ambiente sociale di cui si fa parte, e alimentando dunque la promessa di nuove esperienze (positive). Inoltre permettono di rimettersi e mantenersi in qualche modo in contatto con persone di cui si erano perse le tracce. Siamo di fronte, certo, al dispiegamento di una sorta di pulviscolo relazionale a bassa intensità. Ma d’altro canto l’esibizione di se stessi via social network è in grado di produrre gratificazioni meno esili di quanto non appaia a prima vista, fino ad arrivare a quello che gli psicologi chiamano esperienza di flusso, o flow, cioè a intense esperienze positive, portatrici di per sé di autentico piacere. Una chiave di volta di queste gratificazioni si colloca nella possibilità di raccontarsi: in questo senso i social network generano un allargamento di massa della dimensione narrativa, cioè di una narratività scritta, accompagnata dalla possibilità di un’attivazione sistematica di spinte espressive, in senso lato estetiche (per quanto, di nuovo, a bassa intensità), che comunque operano significativamente nel processo di costruzione dell’identità sociale. Ma sono anche evidenti le distorsioni, al limite del ridicolo, dell’autoraccontarsi coatto, del mettere nella piazza cibernetica i fatti minimi della propria quotidianità: rilanciando all’infinito quanto il vecchio Auerbach aveva trovato nel romanzo del Novecento e definito, genialmente, «il trionfo dell’insignificante». In questo senso, c’è poca o nulla differenza fra l’ipertrofia narrativa del Diario di un utente Facebook e le esternazioni del dinamico ma pure un po’ supponente Twitter, dove, per esempio, uno scrittore di grido comunica alla platea dei suoi followers, nientemeno, che ha perso il treno!
L’ossessione di dire la propria e di raccontare cosa si fa, ma anche, spudoratamente, i propri sentimenti, si colloca nell’ambito di bisogni largamente diffusi di autorealizzazione: serve a sentirsi al centro dell’attenzione e in una posizione socialmente rilevante. Con la possibilità sempre attiva, e tecnicamente «reale», che la propria platea possa passare dagli «amici» a dimensioni assai più vaste, al limite addirittura planetarie: come mostrano, fra gli altri, molti casi dell’ormai ricca storia di YouTube, con video visti e condivisi, nel giro di poche ore, da centinaia di milioni di utenti. La narrazione da social network mostra evidenti aspetti di compulsione narcisistica, spesso innocente e fine a se stessa; ma l’esibizionismo insito in queste manifestazioni può anche assumere tratti drammatici. Questo avviene in larga misura perché la percezione cibernetica degli altri avviene in una sorta di vuoto, o comunque di non pieno, nell’assenza della corporeità e delle variabili contestuali, assenza che induce una speciale libertà espressiva: portatrice, certo, di effetti emancipatori (si pensi anzitutto alle sue possibilità politiche), ma potenzialmente anche pericolosa, nella misura in cui può sfociare in esiti aggressivi, fino al limite del reato penale, dell’insulto e persino dell’istigazione al suicidio per via di linciaggio morale. La situazione senza corporeità, dove è possibile mostrarsi come si vuole, fino a inventarsi identità, e magari a rubarle, fabbricando un falso (fake), è carica di conseguenze. Paradossalmente, diventiamo al tempo stesso padroni della nostra immagine, e però anche potenzialmente espropriati di questa stessa immagine, anche perché la Rete ha una memoria che l’utente non è in grado di controllare, e che si conserva largamente anche quando vogliamo cancellare i nostri dati, o addirittura il nostro account. Allo stesso modo, siamo quasi totalmente incapaci di controllare le tecnologie e i software, che ci danno sì molte possibilità, ma a patto di seguire protocolli rigidi, di cui tendiamo a dimenticare la costrittività.
Una considerazione equilibrata del ruolo dei social network deve comunque tenere presente la varietà dei bisogni psicosociali che essi soddisfano: bisogni narcisistici; bisogni associativi e affettivi; bisogni di sentirsi parte di un gruppo. Da questo punto di vista, la Rete costituisce uno strumento straordinariamente efficace per creare comunità, capaci spesso di passare dal virtuale al reale, con conseguenze politico-sociali rilevantissime: basti pensare alla campagna elettorale americana del 2008, dove il lavoro sulla Rete è stato decisivo per la vittoria, anzitutto nelle primarie del Partito democratico, dell’outsider Barack Obama sulla potentissima Hillary Clinton; alla campagna in Rete di Pisapia per le elezioni comunali milanesi del 2011 ; ai casi vari e drammatici della Primavera araba dal 2011; al successo travolgente del Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013. Tornando alla dimensione privata, certo i social network vengono adoperati largamente per soddisfare bisogni di autostima, associati all’esibizione delle proprie competenze e capacità (caricare un video «figo» significa sentirsi «fighi», e sperare nel riconoscimento collettivo), direttamente connesse all’esigenza di sentirsi approvati e stimati. In questo senso, si pensi alla straordinaria efficacia, comunque la si voglia giudicare, dell’invenzione del pulsante «I like» / «Mi piace» (in Facebook e poi un po’ dovunque), che permette, fra le altre cose, di tifare per qualsiasi «contenuto»: un’immagine, una notizia, una persona, un movimento. Ma si pensi anche alla caccia fine a se stessa alle esili «amicizie» virtuali, esibite in una gara che può assumere caratteri compulsivi. O ancora al voyeurismo consentito dai social network, con la possibilità di andare a vedere che cosa fanno conoscenti vicini e lontani, amici, figli (strategici i dibattiti sulla concessione o meno di amicizia da parte dei figli adolescenti ai genitori), parenti vari, ovviamente coniugi, fidanzati e amanti: dove la curiosità innocente può sconfinare verso funzioni di controllo sociale, fino al limite dello stalking. Né si possono trascurare gli aspetti pratici, a cominciare dalla ricerca di contatti utili: basti pensare ai network prevalentemente professionali, come Linkedln. I social network hanno poi una straordinaria efficacia pubblicitaria: i gestori sono messi in grado di indirizzare ai singoli utenti messaggi mirati sulle loro scelte e preferenze individuali (ecco un altro rilevante possibile uso del «Mi piace»); gli utenti, dal canto loro, possono mettere in gioco predilezioni molto personali, valutando e recensendo un po’ di tutto: libri, film, musica, ma anche ristoranti, alberghi, magari escort…
Certo, intorno ai social network si agita anche una costellazione di fenomeni di dipendenza, che si colloca sotto l’etichetta di Internet Addiction Disorder. dalla dipendenza da amicizie online (che pare colpisca di più le donne, che si mostrano più dipendenti dal bisogno di approvazione nella creazione dell’autostima) a quella dal sesso virtuale e dallo stesso voyeurismo web, fino alla dipendenza dal gioco online. In generale, la possibilità per tutti di parlare, di esprimersi e di mostrare i propri «contenuti» in forma digitale ha sapore di democrazia, ma certo produce un mare di comunicazioni poco o per nulla rilevanti, e il pur minimo impegno a recepirle può costituire una significativa perdita di tempo, che rischia di fagocitare fette consistenti di vita reale. In questo senso, i social network rischiano di inverare le tesi estreme di Guy Debord, che intravedeva un mondo in cui ogni uomo è ridotto alla condizione di consumatore alienato: «Più egli contempla, meno vive». Pure, come abbiamo visto, è difficile ricondurre a una valutazione unilaterale gli effetti dei social network: nella loro irriducibile ambivalenza, essi ci impongono comunque la consapevolezza che siamo ormai entrati in una realtà diversa, che faremmo bene a cercare di capire meglio, se vogliamo coglierne le opportunità e schivarne i rischi.