Tutti i generi di videogioco

Se si ordinano i videogiochi in base all’importanza che la narrazione riveste al loro interno, si scopre che in cima alla scala, posizione occupata dai giochi di ruolo e di azione, dominano i generi – soprattutto science fiction, fantasy e noir-, declinati in forme prossime a quelle delle serie tv, e che non è difficile rintracciare i primi debiti di ritorno della letteratura nei confronti del videogame.
 
I videogame sono una realtà relativamente giovane eppure, dalla fine degli anni settanta, quando i primi arcade, le grandi cabine da gioco a gettoni, facevano il loro timido esordio nei locali pubblici, hanno vissuto uno sviluppo impetuoso, evolvendosi da semplici raffigurazioni di linee bianche e quadratini su uno schermo, che alludevano a una partita di tennis, a vere e proprie narrazioni in cui le immagini aspirano al massimo realismo rappresentativo e gli intrecci emulano quelli del cinema e della letteratura.
Eppure, mentre i cosiddetti «giocatori forti» andavano alla ricerca di esperienze, anche narrative, via via più complesse, si è consolidato un pubblico sempre più ampio e differenziato di «giocatori deboli» che riserva a questa attività pochi minuti al giorno, usando strumenti come gli smartphone o piattaforme come Facebook per sfidarsi in videogame che, analogamente a quelli delle origini, puntano tutto sul coinvolgimento emotivo. Ecco perché, prima di tracciare una panoramica dei generi narrativi di successo tra i videogame, ritengo indispensabile abbozzare una scala, basata, come quelle usate dagli addetti ai lavori, sulle caratteristiche funzionali dei giochi, che permetta di ordinarli in base alla crescente importanza dell’impianto narrativo.
Al grado zero narrativo corrispondono i puzzle games, come Tetris o il più recente Puzzle, in cui lo scopo è risolvere un rompicapo o rispondere a un quiz, seguiti poco più sopra dai cosiddetti arcade, come Space Invaders o Pac-Man, in cui l’azione si ripete sempre uguale e l’obiettivo è «terminare il quadro», con le infinite variazioni che ciò comporta.
A un gradino superiore della nostra scala narrativa si collocano i giochi di simulazione, prevalentemente sportiva, nei quali bisogna assumere il controllo di un mezzo, di un atleta o di un’intera squadra e l’obiettivo è realizzare la miglior prestazione possibile. Come sopra, la diversità di ciascuna narrazione dipende solo dalla variabilità dell’esecuzione. In più, alcuni di questi titoli offrono la possibilità di costruire una storia più complessa, introducendo elementi di tipo manageriale che, alternandosi alla reiterazione dell’evento simulato, lo proiettano nel più ampio contesto narrativo di una carriera sportiva.
Un grado narrativo ancora maggiore caratterizza i platforms, nei quali bisogna guidare un alter ego digitale a superare una serie di ostacoli come scale, burroni, piattaforme in movimento, per raggiungere un traguardo definito. Con il tempo, da Donkey Kong a Super Mario Galaxy, si è passati dal saltare qualche barile per salvare la fidanzata in pericolo a giochi che richiedono ore per essere portati a termine, esibiscono trame complesse e concedono qualche piccola divagazione rispetto all’intreccio principale, ma il risultato, terminata la partita, è sempre quello di aver assistito/ collaborato allo svolgersi di una narrazione predeterminata.
E questo è più o meno quanto accade anche al genere che occupa il gradino più alto della nostra scala, con la differenza che qui l’impianto narrativo assume un peso preponderante: i videogame d’azione e d’avventura. Una categoria che, non a caso, gli esperti del settore definiscono con criteri tematici anziché funzionali, anche se questi ultimi ricompaiono nell’articolazione delle sottocategorie, come sparatutto in prima persona o azione stealth.
Infine, troviamo i generi capaci di produrre narrazioni non lineari, ovvero i «giochi di ruolo» e i God games. Nei primi, come World of Warcraft o Ultima, si tratta di vestire i panni di un personaggio all’interno di un universo finzionale popolato da altri giocatori/personaggi, che possono essere anche milioni grazie all’interazione online, contribuendo a generare solo una parte infinitesimamente piccola degli intrecci che, contemporaneamente e indefinitamente, si realizzano. Nei secondi, come SimCity o Civilization, bisogna invece governare una città, una civiltà o un universo avendo il controllo di tutte le variabili che danno vita all’intreccio vero e proprio. Si tratta di due tipi di costruzione narrativa nei quali il giocatore assume una posizione a metà strada tra quella dell’autore e del fruitore dell’opera, ricca di implicazioni tutte da indagare sul piano estetico, narratologico e della ricezione.
Se proviamo ad applicare alla fascia di giochi a più alto tasso narrativo i criteri di genere cui siamo abituati, normalmente trascurati da chi si occupa del settore, scopriremo che a dominare il mercato negli ultimi vent’anni sono soprattutto la science fiction, il noir, le spy story, l’avventura e il fantasy.
Nella science fiction, prevale la vena distopica e apocalittica, a partire da classici semplici come Doom o Quake, dove si combattono mostri alieni che sfruttano il teletrasporto per attaccare avamposti spaziali, in una riedizione futuristica del mito del Minotauro, fino ad arrivare a serie più elaborate dal punto di vista narrativo, e declinate in più episodi, come Resident Evil, Half-Life o Mass Effect. Nel primo, l’intreccio prende il via dagli esperimenti di un’industria cosmetica, copertura per un’attività di produzione di armi chimiche e batteriologiche a causa delle quali alcune zone sono infestate da non morti con tendenze cannibali. Anche Half-life è popolato da mostri, ma in questo caso si tratta di alieni, proiettati all’interno di un laboratorio sotterraneo top secret dopo il fallimento di un esperimento scientifico. L’immaginario negativo nei confronti dell’ingegneria genetica, che trova le sue radici nel Mondo nuovo di Aldous Huxley e nell’Isola del dottor Moreau di Herbert George Wells, e della ricerca scientifica in generale è uno dei topoi del genere e attraversa narrativa, fumetto e cinema, dai quali ultimi si innesta più direttamente nel mondo dei videogame. Quanto al clima generale da «società del controllo» che entrambi i giochi evocano nelle pieghe dei loro intrecci, e che sembra un altro elemento irrinunciabile per il genere sci-fi, il referente non può che essere George Orwell, mentre le componenti horror rimandano, primo tra tutti, a Stephen King.
Mass Effect si svolge invece in un tempo futuro in cui gli uomini sono in grado di attraversare la Via Lattea e sono entrati in contatto con specie aliene. Anche qui, la parentela più prossima è quella con il cinema e la tv, in particolar modo con Star Trek, ma le origini di questa idea affondano in Isaac Asimov, Arthur C. Clarke e Stanislaw Lem. L’altro padre costantemente evocato dai videogame sci-fi è Philip Dick, autore che non a caso ha visto il proprio riconoscimento passare prima dal cinema che dalla letteratura. Non parliamo tanto, né qui né più avanti, di intrecci o dialoghi, spesso sacrificati in nome di un’azione che risponde al fine ultimo di tenere attivo e impegnato il giocatore, quanto piuttosto di personaggi e atmosfere, alle cui suggestioni è più spesso affidato il compito di tratteggiare il genere.
Tenendo presente questo principio, i primi nomi che vengono alla mente per videogame noir come Max Payne o Grand Theft Auto, serie giunta da poco al quinto vendutissimo capitolo, sono Raymond Chandler e James Ellroy almeno quanto il regista Quentin Tarantino e, per lo stile e il montaggio, John Woo e i fratelli Wachowski, mentre giocando a Heavy Rain si pensa a thriller come quelli di Thomas Harris, Michael Connelly o Jeffery Deaver. Non si tratta di riferimenti vaghi: Max Payne è un detective che si rifà esplicitamente ai protagonisti dell’hatd-boiled, mentre la Los Santos dove si svolgono le vicende dei malavitosi protagonisti di Grand Theft Auto V è, non solo nel nome, un calco evidente della Los Angeles reale, e i personaggi che la abitano, oltre che la ricchezza di storie che ne scaturiscono (favorita dal cosiddetto free roaming, che lascia ampia libertà di movimento all’interno dell’universo finzionale), rappresentano più che un tributo a Ellroy. Non è un caso che la stessa software house abbia pubblicato un altro titolo, L.A. Noire, esplicitamente ispirato a L.A. Confidential e Dalia nera.
Da sottolineare, in Grand Theft Auto V, la possibilità di cambiare il controllo (e il punto di vista) tra tre personaggi diversi, che evoca l’idea letteraria di focalizzazione multipla. Ma un’analisi più approfondita potrebbe evidenziare altri parallelismi tra i due media, come le analogie narrative tra l’adozione della prospettiva omodiegetica o eterodiegetica nella letteratura e della soggettiva o della terza persona nell’esperienza del gioco. O come le diverse funzioni del narratario e di un ipotizzabile «giocatario». Quanto a Heavy Rain, tra le sue peculiarità figurano i diciassette finali differenti a seconda delle scelte operate dal giocatore, altra soluzione ricca di implicazioni.
Nell’ambito azione-spionaggio, i capisaldi sono Metal Gear Solid e Splinter Celi, titoli il cui meccanismo, chiamato stealth, spinge il giocatore a muoversi con cautela per evitare gli avversari anziché a eliminarli tutti, e dove si tratta di guidare squadre speciali antiterrorismo per sgominare organizzazioni terroristiche: scenari che pescano a piene mani da autori come Ian Fleming o John le Carré. E Tom Clancy, autore di Splinter CelL ma, curiosamente, non delle trasposizioni letterarie che ne sono state tratte.
L’avventura, invece, annovera tra le sue file uno dei titoli più popolari anche tra chi non ha mai neppure impugnato un joypad: Tomb Raider. I modelli di questo genere si ritrovano più facilmente nei B-movies che nella letteratura, per la quale bisogna scomodare nomi come Jules Verne, Robert Louis Stevenson o H. Rider Haggard, che con il suo Allan Quatermain, protagonista di Le miniere di re Salomone, sembra il riferimento più pertinente per Indiana Jones, l’eroe cinematografico cui la protagonista di Tomb Raider è più direttamente ispirata.
Quanto infine al fantasy, quasi esclusivamente confinato ai giochi Multiplayer Online, i modelli di riferimento restano soprattutto i classici come Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien.
Ciò che risulta chiaro da questa panoramica è che, nello spazio del nuovo millennio, a una parallela, progressiva crescita di gradimento del noir e del thriller, in ambiente sia letterario che videoludico, risponde un’asimmetria evidente per altri generi. Per esempio, mancano pressoché del tutto tra i videogame il giallo e il rosa (eventualmente a tinte erotiche). I motivi vanno con tutta probabilità individuati nel primo caso con la necessità di coinvolgere attivamente il giocatore, introducendo un livello di azione che spinge ogni intreccio giallo verso il noir, nel secondo con un ipotizzabile scarso apprezzamento da parte del pubblico di riferimento, in prevalenza maschile.
Dall’altro lato, avventura e sci-fi vivono un destino complementarmente opposto. Per trovare in libreria qualcosa di paragonabile alla prima bisogna spingersi fino all’Ottocento, mentre la seconda vanta intrecci indissolubili con il cyberpunk, genere che senza l’elettronica e i videogame non sarebbe pensabile, ma che non gode più della fortuna dei tempi di William Gibson e Bruce Sterling.
Leggermente diverso il discorso per le spy story, presenti nelle classifiche dei libri ma decisamente molto di più in quelle dei videogame, e per il fantasy, prepotentemente tornato in voga in ambito letterario grazie a Harry Potter, Twilight e affini, ma declinato nei videogame in una variante più classica.
Concludo spendendo qualche parola sui debiti di ritorno della letteratura nei confronti dei videogame. E, pur sorvolando sulle numerose trasposizioni dal secondo mondo al primo, che pure in alcuni casi superano brillantemente la semplice novelization, trovo giusto ricordare almeno il caso italiano di Le radici del cielo, romanzo che Tullio Avoledo ha scritto ispirandosi al videogame russo Metro 2033. Più interessante, però, mi sembra provare a riconoscere le tracce dell’influenza dei videogame sulla letteratura, e non solo di genere, in una più fitta giustapposizione di scene tutte importanti nella struttura dei romanzi (che solo in parte potrebbe essere modellata sul montaggio cinematografico dei blockbuster moderni) o in alcune influenze dirette sull’immaginario degli autori sotto i cinquant’anni. E qui si potrebbero fare i nomi di Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem o, per l’Italia, oltre a quello del già citato Avoledo (leggasi tra gli altri Un buon posto per morire, scritto con Davide Boosta Dileo), di Niccolò Ammaniti. Un esempio lampante? Gli zombie che popolano la seconda parte di Che la festa cominci hanno decisamente meno a che fare con i morti viventi del cinema di George Romero che con Resident Evil e i survival horror in generale.