La lettura, la fiction e i suoi concorrenti

La lettura perde colpi, quella di romanzi ancora di più. Le previsioni hanno centrato il bersaglio: serie tv e videogame sono i più temibili avversari che la fiction libraria abbia mai incontrato in cinque secoli di editoria. E non solo dal punto di vista dei consumi culturali. La questione è tenere viva la lettura di fiction per i suoi benefici sulle capacità cognitive, sull’interazione con gli altri e come palestra mentale per affrontare la vita.
 
Siamo animali che raccontano storie. E, soprattutto, che hanno bisogno di storie. Nei quaranta secoli che ci separano dall’invenzione della scrittura i nostri progenitori ci hanno lasciato storie epiche di battaglie e di divinità, osservazioni della natura e disquisizioni sull’uomo, avventure dell’intelletto e dei sentimenti che solo molto recentemente sono diventate quello che chiamiamo fiction. E solo molto recentemente – come ci hanno spiegato Jonathan Gottschall e Frank Rose fra gli altri – abbiamo capito natura e dinamiche di questo bisogno primario. Le storie sono il carburante di coscienza e immaginazione, caratteristiche che ci rendono unici fra i primati superiori; grazie a queste nostre specificità riusciamo, attraverso le storie, ad allenarci ad affrontare le incognite di una vita sociale complessa. La fiction, insomma, è l’ultimo miglio percorso dall’uomo sul boulevard della «Teoria della mente», un’altra capacità che l’animale uomo ha innata e che gli permette di farsi un’idea di cosa sta provando e pensando un altro essere umano.
Eppure «non siamo nati per leggere», ci avvisa Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitiva, nel suo fondamentale Proust e il calamaro e in varie ricerche condotte dal Center for Reading and Language Research alla Tufts University di Boston: leggere è un’attività estremamente complessa che coniuga capacità visive e linguistiche ma che, a differenza di queste, non può essere trasmessa nel patrimonio genetico. In altre parole, ogni individuo impara a leggere e a scrivere partendo da zero, indipendentemente dal sistema di scrittura proprio della cultura a cui appartiene. Ma come? Le neuroscienze cognitive e la psicologia sperimentale hanno scoperto solo da poco le complesse dinamiche della lettura, e questo straordinario avanzamento nella comprensione del ruolo della lettura ha coinciso con la diffusione di Internet; stiamo quindi parlando degli ultimi vent’anni, un battito di ciglia nel processo evolutivo. Se di coincidenza si tratta, è una coincidenza fortunata. Chi lavora in quella parte dell’industria creativa dei contenuti e entertainment, e che ha a che fare con scrittura e fiction, ha infatti un elefante nella stanza, con le zampe ben piantate in case editrici, librerie, scuole, biblioteche e organismi per la promozione della lettura. E un pachiderma brand new, nuovo di zecca, pervasivo ed evanescente come i byte di cui è formato, che sta spiaccicando con sublime efficacia la capacità di leggere e, per coloro a cui piace il melò, cinque secoli di letteratura di finzione.
Se siamo persone inclini a vedere le novità come opportunità, l’irruzione di nuovi potenti concorrenti nel campo della scrittura-lettura di storie non può che essere estremamente interessante, tanto più se si lavora nell’editoria di fiction, il segmento che soffre molto più di altri segmenti editoriali in termini di innovazione, produzione e commercializzazione dei contenuti.
Al netto di tutti gli sconquassi prodotti dalla disruption digitale – ovvero dall’interruzione della linea di continuità tra autore e pubblico che ha messo in discussione il ruolo della mediazione editoriale – là dove c’è crisi dell’editoria, questa è per lo più riconducibile a una flessione della fiction: i dati dei mercati internazionali parlano chiaro. Ma per chi è allergico alla parola «mercato», per chi vede nelle dinamiche commerciali la tomba dei contenuti, per chi legge con soddisfazione articoli sul rallentamento nella diffusione degli e-book può bastare questa semplice e nostrana considerazione: i bestseller da 500mila copie non ci sono praticamente più e oggi se un romanzo arriva a 50mila copie gli editori si autodefiniscono «contenti»; intanto, solo in Italia, abbiamo perso per strada qualche milione di lettori in cinque anni. Lettori di fiction.
Forse le storie non ci interessano più? Se la storia d’amore tra la gente e il libro stesse finendo dobbiamo preoccuparci? Non può essere semplicemente la fine di un ciclo evolutivo? Una mutazione socioantropologica come ce ne sono state tante nella storia dell’umanità?
Non esiste ancora un’indagine seria, su un panel ampio e rappresentativo, che possa dare risposte sicure e misurate, per quanto temporanee, a questi interrogativi. Ma possiamo mettere insieme il meglio di sondaggi e statistiche internazionali, i dati di mercato e i numerosi studi di neuroscienziati e psicologi cognitivisti per tracciare i contorni del problema, definirne il contesto, individuare personaggi e interpreti attuali e dell’immediato futuro.
I neuroscienziati e gli psicologi cognitivisti, Maryanne Wolf in particolare, ci dicono che non solo «siamo quello che leggiamo» ma che siamo anche «come leggiamo». Non si tratta solo del leggere in digitale o su carta, ma della complessiva esperienza di lettura. Se usiamo in modo normale Internet, la nostra esperienza di lettura è già frammentata tra tutto ciò che esce da social, mail, video; e anche se il nostro profilo sociodemografico ci individua come lettori forti (il tesoretto dei consumi editoriali nel trade) il più delle volte non arriviamo alla fine di un articolo online, e di un saggio leggiamo l’introduzione e forse pilucchiamo qua e là. Va peggio per la fiction, che sembra stia diventando un’impresa alla quale si rinuncia a priori; se abbiamo tra i quindici e i trent’anni anche i classici diventano una zavorra: saranno pure i depositari di una conoscenza sedimentata, ma Madame Bovary è lenta, e parla in una lingua piena di subordinate e di digressioni che richiedono uno sforzo molto più intenso rispetto a una lettura saltellante ed episodica su Internet. Non va molto meglio, a giudicare dalle tirature, con i bestseller della contemporaneità: in Italia, dal 2013 al 2014 i primi cento titoli hanno perso 900mila copie (Nielsen), e nel 2015 pare sia andata peggio. Eppure leggere un romanzo o un racconto ci permette di «andare oltre il testo», di metterci al servizio dell’immaginazione e della riflessione, di costruire una relazione tra noi, i personaggi e le storie. Sono qualità del tutto diverse dalle interazioni del mondo digitale, dove non è richiesto di «andare oltre il testo». Sembra che la lettura profonda stia perdendo terreno quanto la foresta amazzonica perde alberi e biodiversità: a tutti gli effetti la lettura è oggi una questione di ecologia della mente. Eppure viviamo in un mondo altamente alfabetizzato, con una percentuale media globale di reading skills superiore al 90%: un miracolo.
Tuttavia, saper leggere, per le statistiche dell’alfabetizzazione, vuol dire saper compilare un modulo, capire il bugiardino di un farmaco, scorrere i titoli di giornale. Che è già tantissimo se solo guardiamo queste capacità, per esempio, dalla prospettiva del primo dopoguerra, quando metà degli italiani era analfabeta funzionale. Per i neuroscienziati cognitivi, però, i benefici della lettura profonda – ovvero di un testo lungo che il più delle volte è un romanzo – sono parecchi passi più in là. Il cervello del «lettore esperto» cambia per sempre e questo, probabilmente, ci rende neurobiologicamente, psicologicamente e socialmente migliori, più capaci di affrontare i capricci del destino, di interagire con i nostri simili, di avere una scala di valori al servizio delle scelte personali piuttosto che delle credenze. Ma non c’è nessuna evidenza scientifica che leggere fiction ci renda più felici o meno depressi, come una recente ricerca tutta italiana ha ipotizzato. Così come non è dimostrato, per quanto ci sia qualche evidenza sperimentale, che leggere su carta ci faccia comprendere meglio il contenuto.
Del resto, non è questo il punto. La lettura digitale sta modificando il nostro modo di leggere per dove è fatta (device che accolgono i distraenti/concorrenti della lettura) e per come è fatta, un veloce peregrinare tra link, ricerca di informazioni esterne al testo e di parole chiave all’interno del testo, imbottito sempre più di immagini in movimento che sono coerenti con quello che si sta leggendo e quindi in qualche misura «necessarie»: basta osservare i comportamenti d’uso degli smartphone in un normale tragitto in metropolitana. A cornice c’è un problema di sintassi: quella, complessa, di un buon romanzo si riverbera nella sintassi del pensiero dell’individuo, ci impegna e ci allena. Anche in questo senso siamo sia quel che leggiamo sia come leggiamo.
Certamente, non ha senso mettere all’indice la lettura multitasking e ipertestuale, per quanto non possa cogliere i (presunti) risultati della lettura (e della letteratura) immersiva o profonda. Non si può neppure considerare un danno collaterale di Internet perché è essa stessa Internet, e Internet è una delle innovazioni più utili e stupefacenti della storia dell’umanità. Le due letture, insomma, possono e devono convivere, come i nuovi programmi scolastico-educativi della Finlandia, nazione al top nelle statistiche Ocse-Pisa sull’educazione e sulle skills scientifico-culturali, stanno cercando di sperimentare.
Allora, forse le storie non ci interessano più? Lo storytelling animai è stato appena individuato ed è già sulla strada della pensione? Neanche per sogno. Il bisogno di storie è più forte che mai, almeno a giudicare dal successo di chi contende alla fiction libraria l’attenzione dei lettori per le storie: fiction tv e videogame.
Partiamo dalla considerazione che leggere un romanzo, vedere una serie tv o giocare con un videogame appartengono all’entertainment là dove per entertainment si considerano le attività che facciamo nel tempo libero, ovvero «per piacere» e in un intervallo di tempo non dilatabile. Ed è nell’entertainment che si sta giocando una partita molto particolare tra differenti consumi di fiction, di storie.
Siamo nell’età dell’oro della fiction tv, che rappresenta il 42% del trasmesso televisivo mondiale su tutti i canali in cui si è frammentata la televisione (in chiaro, via cavo, Internet, YouTube, Amazon, Netflix ecc.). La fiction tv è (al netto dello sport) il principale segmento della televisione digitalizzata e globale. Piace, a tutti e a tutte le latitudini. Viene prodotta ovunque, Cina ed Estremo Oriente, India, Emirati e Sudamerica. Negli Stati Uniti, la fucina di ogni genere di fiction, le serie tv hanno scatenato gli appetiti di Hollywood, visto che il cinema è in caduta libera, alzato l’asticella della qualità e quindi degli investimenti nei quali le banche d’affari sono ormai ospiti fissi al punto che siamo nel bel mezzo di una bolla speculativa, ma tant’è: la fiction tv è entrata nei consumi culturali e nelle pagine della critica come mai lo è stata in ottant’anni di storia televisiva. Copre qualsiasi genere della narrativa letteraria-libresca, dai più sofisticati «drama», ai romance, agli storici, ai thriller per arrivare – con prodotti ad hoc – agli adolescenti. I più piccoli hanno a disposizione i cartoon sotto forma di serie. Dai romanzi prende la forma, con narrazioni lunghe, corali, piene di personaggi e digressioni, ma senza le ellissi della narrazione cinematografica. Dalla lettura prende anche la fruizione: ora non dobbiamo aspettare una settimana per vedere l’episodio successivo, possiamo vedere tutta la stagione nei tempi e nei modi che più ci piacciono (il binge viewing, l’abbuffata di serie, è da quest’anno una categoria a sé stante di rilevazione), anche in mobilità sui tablet o sullo smartphone, nel tempo libero interstiziale. Come leggere un libro. Inoltre, non bisogna andare in libreria e per essere aggiornati su cosa vedere basta il passaparola dei social. Fra chi ha accesso a una qualsiasi forma di tv, la media settimanale di visione è di 6 ore; erano 2,9 nel 2011 (Ericsson ConsumerLab, Euromonitor/Mediametrie). La possiamo vedere con amici e familiari, non è un’attività intima e solitaria come la lettura, e dal punto di vista cognitivo non dobbiamo fare grandi sforzi di immaginazione o di contestualizzazione del testo: lo scenario è dato, vero o verosimile che sia, il linguaggio è comprensibile da chiunque, le linee narrative semplici, se ci siamo persi dei passaggi basta premere reload, come per un libro. E difficile vedere nella visione delle serie un equivalente della lettura profonda, dell’«andare oltre il testo», ma non ci sono studi specifici sull’argomento. Chissà.
Per accostare i videogame alla fiction libraria, invece, dobbiamo metterci da una prospettiva differente, ma non meno interessante. Gran parte dei videogame contemporanei sono online, collettivi, e con marcate linee narrative: questo vuol dire che si gioca sempre meno con, o contro, un software e sempre di più con, o contro, degli altri giocatori; che non si assiste a una storia, ma si è protagonisti di più linee narrative (si è dentro il gioco, dentro la storia) spesso con identità multiple. E un mondo epico ed etico, se si è bravi (ed è solo una questione di tempo) si va avanti e ci si gratifica; i buoni e i cattivi sono identificabili, la missione è chiara, non ci sono le ambiguità di un capufficio o di colleghi meschini, di avanzamenti di carriera non riconosciuti e neppure di psicodrammi familiari. In questo senso alcuni ricercatori dicono che i videogiochi sono percepiti come «meglio della realtà» e al tempo stesso «allenano alla realtà», come un buon romanzo. E come un romanzo i videogame soddisfano il nostro bisogno di storie. Non ci sono dati direttamente comparabili tra giocatori e lettori, ma per avere un termine di confronto, il tempo speso giornalmente sui videogame è passato dai 18 minuti del 2008 ai 23 nel 2013, con la previsione che raggiunga i 28,3 minuti nel 2018 (Veronis Suhler Stevenson); il fatturato globale per il 2015 è previsto intorno ai 111 miliardi di dollari (Gartner), che vuol dire quasi il triplo del fatturato mondiale della fiction libraria.
Questa fotografia dello stato della fiction, per quanto parziale e con ampie zone da mettere a fuoco, non deve suonare come una chiamata a raccolta dell’Unesco delle Lettere: le intenzioni protezionistiche, in questo campo, giocano sempre di rimessa. Quello che sappiamo oggi in modo abbastanza dettagliato è che le competenze per leggere in modo fluido devono essere saldate al mondo emozionale per fare in modo che i contenuti rimangano nell’esperienza umana, culturale e sentimentale del lettore. E a questo crocevia che il lettore diventa «esperto» e assegna alla lettura un posto di riguardo nei propri consumi culturali. Le serie tv non hanno di questi problemi, creano molto più facilmente quella dipendenza (rilevata anche a livello neurobiologico) che sulle pagine scritte troviamo con più evidenza nei page-turner dei grandi autori internazionali, scritti sempre più spesso con un passo da serie tv. Al tempo stesso, per quanto la serializzazione della fiction libraria sia una delle pietre filosofali del publishing e del self-publishing, giocoforza, non può essere applicata indiscriminatamente. La fiction romanzesca, insomma, sembra cedere più contenuti di quanto sappia importare modelli: alla Fiera di Francoforte 2015 Ken Follett ha presentato in prima persona il videogioco tratto da I pilastri della terra coinvolgerà anche l’omonima miniserie tv e sarà pronto nel 2017. Solo allora vedremo se e quale ruolo svolgerà il romanzo originario sul pubblico dei gamers e quanti di questi sono stati precedentemente suoi lettori. Ma per quanto la fiction, o certa fiction, si apra al nuovo che avanza, la «lettura profonda» rimane l’hardware e il software della buona letteratura, la sola – per adesso – che ci permette di andare veramente «oltre il testo».