Legiferare sul digitale

L’incrocio tra immaterialità del digitale e immaterialità della proprietà intellettuale sembra generare una rete di nodi, culturali prima che politici, difficili da sciogliere. E se tempestività e concretezza sono trappole che il digitale presenta ai processi legislativi, ciò che manca non è la velocità né il contatto con la realtà immediata, quanto piuttosto una solida elaborazione teorica, che metta assieme competenze giuridiche ed economiche con la capacità di comprendere l’evoluzione tecnologica.
 
Il dibattito europeo sul diritto d’autore nel mercato unico digitale induce riflessioni che vanno oltre il mondo editoriale. Sembra che l’incrocio tra immaterialità del digitale e immaterialità della proprietà intellettuale generi una rete di nodi, culturali prima che politici, difficili da sciogliere. Ci si arrabatta sul nodo più prossimo, ma si finisce per infittire le maglie della rete nel suo insieme.
Da due anni sono immerso nell’intenso, spesso rissoso dibattito sulle norme proposte dalla Commissione europea per modernizzare il diritto d’autore alle esigenze del mercato unico digitale. In questa esperienza mi sono imbattuto in tre difficoltà nel processo di formazione delle leggi: (i) l’ansia di inseguire i tempi del digitale, quando occorrerebbe anticiparli; (ii) l’ancoraggio al caso concreto, così da trarne conforto, quando occorrerebbe un livello maggiore di astrazione; (iii) il ricorso all’analogia con l’analogico (se mi si passa il bisticcio) come metodo per comprendere la natura e le dinamiche evolutive del digitale.
Si può raccontare ciò che sta accadendo al diritto d’autore alla luce di queste premesse, dovendo prima fare un ultimo passo indietro. Il diritto d’autore è un meccanismo complesso che si basa tuttavia su un principio semplice: chi crea ha l’esclusiva sulla propria opera, e all’autore dev’essere sempre richiesta una preventiva autorizzazione per qualsiasi utilizzo. Salvo poche eccezioni, fissate dalla legge.
La stessa cosa si può raccontare in modo diverso: ogni utilizzo di un’opera protetta è vietato a meno che non sia autorizzato dal titolare del diritto (o da un’eccezione). La sostanza non cambia ma la retorica è diversa: il diritto d’autore come divieto, invece che come diritto. Su questa differenza si costruiscono castelli. E qualche gaffe clamorosa, come quella che ha visto protagonista Julia Reda, unica parlamentare europea del Partito Pirata, in genere molto scaltra nell’argomentare. La storia è illuminante: nella Giornata mondiale del diritto d’autore Reda twitta: «Sto provando a leggere il Diario di Anne Frank, ma il diritto d’autore me lo impedisce». D’oltreoceano, un brillante autore canadese, John Degen, risponde con un articolo dal titolo: Why I bought Anne Frank’s Diary for a German Pirate, in cui racconta di aver acquistato, per pochi euro, una copia del Diario facendola recapitare in Parlamento, dicendosi lieto di aver pagato i diritti d’autore alla Fondazione Anne Frank e notando come i diritti siano scaduti in alcuni paesi e prossimi a scadere in quelli che hanno riconosciuto una proroga legata al periodo bellico, solo perché l’autrice è stata uccisa nel 1945.
Storia illuminante perché disvela un meccanismo ricorrente quando dall’espressione “ogni uso è vietato” si omette la seconda parte: “senza l’autorizzazione dell’autore”. Autorizzazione che da secoli si ottiene facilmente tramite meccanismi di mercato, per cui il Diario è disponibile in ogni lingua in edizione economica a pochi euro.
Il tema emerge nel digitale perché gli usi si moltiplicano, grazie alla facilità di riproduzione e diffusione delle opere, mentre i meccanismi di mercato per regolarli non si attivano con la stessa rapidità, per cui capita sempre più spesso che ottenere un’autorizzazione sia più complesso, e quindi costoso, che nel passato. Da qui la necessità di modernizzazione.
Ma veniamo finalmente alla Direttiva europea. Proverò a parlarne indipendentemente dalla mia opinione sul merito che, come denuncia il mio curriculo speso in gran parte in Associazione Italiana Editori, è totalmente a favore di una maggior difesa e valorizzazione dei diritti. Insomma, sono portatore di un punto di vista distorto, ma proverò a non farmene condizionare.
Il terreno in cui i problemi sopra enunciati sono più evidenti è quello delle eccezioni, e in particolare quelle in ambito educativo a causa della difficoltà di utilizzare opere o brani di opere in classe o nelle piattaforme educative online a sostegno della didattica. Ciò di cui parliamo non è la difficoltà finanziaria per il pagamento dei diritti (che certamente c’è, ma è questione diversa) ma l’assenza di meccanismi che consentano di acquisire i diritti in modo rapido ed efficiente, così da non associare al pagamento del diritto costi di transazione eccessivi.
Di fronte a questa difficoltà, la risposta è la creazione di un’eccezione al diritto d’autore, cioè di un caso – da definire nel dettaglio proprio perché eccezionale – in cui l’autorizzazione non è necessaria. Il centro della discussione diventa allora l’individuazione del confine tra ciò che ricade nell’eccezione e ciò che resta fuori. Discussione che segue le regole del giornalismo: quali opere o loro porzioni e per quali usi (what) da parte di quali destinatari (who) per quanto tempo (when) in quali luoghi (where) per quali scopi (why). E qui emerge il primo problema: il tempo del legiferare. La proposta di Direttiva è stata emanata nel settembre 2016, al termine di analisi di impatto condotte nell’anno precedente. Ben che vada sarà approvata nella primavera del 2018 e – sempre nella migliore delle ipotesi – sarà recepita da un buon numero di stati membri alla fine del 2019. Cioè: si inizia a studiare nel 2015 un contesto tecnologico, economico, socioculturale, per emanare una norma che entrerà in vigore come minimo quattro anni dopo. Non si chiede alla politica – scienza e prassi di cui abbiamo una fiducia sempre minore – una lungimiranza eccessiva?
L’ansia del legislatore è giustificata: deve entrare nel dettaglio perché in uno stato di diritto un’eccezione vaga è un ossimoro giuridico. Ma si pretende di regolare un futuro i cui dettagli non sono conoscibili.
La Commissione europea ha inserito un elemento di equilibrio: l’eccezione vale solo quando non sia possibile ottenere gli stessi usi tramite una licenza. La norma ha precedenti nel Regno Unito e ha dato nel tempo buona prova di sé. Il ragionamento è semplice: se il mercato è in grado di trovare una soluzione, si adotterà quella, se non lo è, prevale l’interesse pubblico a che le opere siano usate, almeno entro certi limiti e per certi scopi, all’interno di percorsi didattici in classe o online.
La proposta della Commissione è sufficientemente astratta. Si definisce un problema in modo generale ma non generico – l’uso parziale di opere (what) in classe o online (where) da parte di studenti di corsi di scuole e università (who) al fine di illustrare un insegnamento (why) per il tempo dello stesso insegnamento (when) – ma l’eccezione si applica in mancanza di una soluzione diversa.
Le proposte emendative sono talvolta sorprendenti e denunciano la terza difficoltà: l’analogia con il noto, con il pre-digitale. Le più significative sotto questo profilo sono quelle che prevedono un obbligo di pubblicità di tali licenze con forte intervento dello Stato, chiamato a costruire grandi banche dati nazionali – e poi una europea – dove tutte le licenze siano disponibili. La smania di centralizzare le informazioni in un unico punto sembra davvero fuori dal tempo del web. Si ragiona per analogia al noto: le banche dati di libri in commercio, con l’aggiunta di una lista di riviste scientifiche, sono uno strumento sufficiente per costruire informazioni sulle licenze per fotocopiare parti di opere letterarie. Ma che dire, oggi, della possibilità d’uso digitale di copie di articoli di diverso genere, Internet news, immagini, audiovisivi, post, user generated content, musiche, software, giochi, simulazioni…
Di particolare interesse è il fatto che a presentare emendamenti che prevedono un ruolo attivo dei governi sono anche parlamentari del gruppo liberale, o che un documento di Business Europe, la confederazione delle associazioni industriali europee, esprime apprezzamento per il meccanismo di prevalenza delle licenze ma poi si riferisce solo a sistemi di gestione collettiva in regime di monopolio, dimenticando il recentissimo dibattito sulle società di gestione, tutto centrato sulla fine dei monopoli in questo settore.
Nel mondo delle tecnologie applicate alla gestione dei diritti d’autore, nel frattempo, crescono iniziative su basi molto diverse (l’ultima è a guida italiana: ArDiTo, www.ardito-project.eu). Si è abbandonata l’idea di centralizzare le informazioni sui diritti a favore di sistemi in cui al massimo possono darsi luoghi di transito (hub) in grado di smistare gli utenti verso reti distribuite di servizi e informazioni. E si evidenzia come una diversa gestione delle informazioni possa modificare il confine tra gestione individuale (l’utente chiede il permesso al titolare del diritto) e gestione collettiva, rimescolando le carte secondo esiti che oggi non è possibile prevedere.
Il problema, tuttavia, non è nella mancanza di conoscenza (invero un po’ da iniziati) di questi temi da parte del legislatore. Il punto è che quanto più si va nel dettaglio, prevedendo quali licenze debbano prevalere e come devono essere pubblicizzate, tanto più si va incontro a questi errori.
La stessa dinamica è presente sul tema delle opere fuori commercio. Eppure se ne parla da quasi un decennio: era il 2008 quando è stata annunciata la transazione tra Google e autori e editori statunitensi per gestire appunto le opere fuori commercio per diverse tipologie di sfruttamento commerciale da parte del motore di ricerca.
Ci sono state esperienze diverse, l’unica che ha condotto a risultati concreti è stata quella francese. Quasi a suggerire che dalle parole discendono schemi normativi, la banca dati dei libri fuori commercio creata in Francia si chiama reLire, cioè Registre des Livres Indisponibles en Réédition Electronique, dove si parla di riedizione elettronica di libri non più disponibili in commercio. Il sistema francese è basato sull’idea che, nei casi in cui il titolare del diritto non sia attivo per conto suo, una società di gestione collettiva può concedere i diritti di riedizione digitale di libri fuori commercio anche a editori privati. I risultati sono 164mila licenze acquistate dagli editori per altrettanti libri riediti o in corso di ripubblicazione.
La legislazione europea parte da parole diverse: si parla di biblioteche digitali, non di riedizioni ma di digitalizzazione del patrimonio culturale. Di conseguenza la proposta di Direttiva consente ai soli istituti di tutela del patrimonio culturale di essere il nuovo editore (online) di un libro non più in commercio.
Così, l’unico sistema che sta funzionando, quello francese, appena bocciato dalla Corte di Giustizia perché non aveva una copertura nelle direttive europee, resterebbe illegale, mentre saranno possibili solo riedizioni da parte del settore pubblico, sempre con il sostegno pieno dei gruppi dei conservatori e dei liberali europei (a eccezione di quelli francesi, con il sospetto che sia per spirito nazionale più che per convinzione liberale).
Ma la parte più illuminante del dibattito, per il nostro discorso, è quella che prefigura la modalità di scelta della società di gestione legittimata a concedere la licenza sulle opere fuori commercio. La proposta della Commissione parte dall’essenziale: la società deve essere rappresentativa dei titolari di diritti vincolati dall’accordo. Stabilisce anche un preciso criterio di rappresentatività: «sulla base dei mandati conferiti dai titolari di diritti». Quindi, la società deve raccogliere mandati ad hoc per questo scopo e se ne raccoglie in misura tale da risultare rappresentativa può licenziare anche opere di titolari non aderenti. Ciò sarebbe sufficiente a stabilire una regola astratta applicabile alla molteplicità di situazioni presenti e future. Ma non ci si ferma qui: la proposta della Commissione chiede che le società di gestione abbiano sede nel paese in cui le opere sono state pubblicate per la prima volta. Perché questa aggiunta? Dal canto suo una proposta presentata dalla Presidenza estone del Consiglio europeo (in discussione al momento in cui scrivo) chiede che le società abbiano sede nel paese dell’istituto culturale che chiede la licenza. Trovo assurdo che nessuno concepisca che, all’interno dell’Unione Europea, la sede della società è una variabile irrilevante. Che nessuno concepisca, per esempio, che possano esservi – se non oggi, in futuro: ma non si legifera per il futuro? – società che abbiano una rappresentanza europea o comunque transnazionale (definita per esempio dalla lingua invece che dai confini degli stati) di una categoria di autori o di editori. Eppure la Direttiva ha nel titolo il “mercato unico” !
L’ansia da caso concreto, accompagnata da scarsa astrazione nella definizione della regola generale, trova tre esempi evidenti nella proposta di Direttiva.
Il primo nasce dal contenzioso tra editori di giornali e Google News che si vuole risolvere attribuendo un diritto connesso agli editori “giornalistici” (press publishers) così da modificare i rapporti contrattuali a loro favore. I diritti connessi non sono un’invenzione di oggi. Esistono da tempo in capo ad alcune categorie di produttori (quelli musicali e audiovisivi) in ragione degli «investimenti necessari» alla loro attività al fine di «garantire la disponibilità di [un] soddisfacente rendimento degli investimenti» (i virgolettati sono tratti dal Considerando 10 della Direttiva n. 29 del 2001). Sarebbe logico ragionare se sia opportuno ampliare queste categorie di produttori ad altre, e a quali, per quali motivi. Ci si limita invece ad agire sul singolo caso utilizzando, forzandola, una categoria giuridica che ha una ratio più generale.
Non è diverso l’approccio sull’articolo che intende risolvere un problema nato con una sorprendente sentenza della Corte di Giustizia che – rovesciando il senso comune ancor prima che una giurisprudenza consolidata – ha sostenuto che (a) poiché le Direttive non citano gli editori come titolari dei diritti (b) questi non devono ricevere alcun equo compenso previsto a fronte di alcune eccezioni. Quindi, la Corte individua una causa (a) e ne fa derivare un effetto (b), producendo così danni enormi in alcuni paesi, e in particolare in Germania, dove si stima che gli editori (prevalentemente di saggistica) sono chiamati a restituire 350 milioni di euro. La proposta della Commissione – e gran parte del dibattito successivo – si concentra sull’effetto senza curarsi della causa, stabilendo che gli editori hanno diritto a un compenso, senza intervenire sulla loro qualifica come titolari di diritti.
C’è infine il tema del cosiddetto value gap, cioè dell’evidente squilibrio nella distribuzione del valore a favore dei mega-intermediari internazionali, secondo meccanismi che lasciano le briciole ai creativi e alle industrie culturali. In questo caso si utilizza il diritto d’autore come strumento di riequilibrio competitivo, introducendo regole che riducono quella sorta di “diritto all’insaputa” introdotto quasi due decadi or sono per garantire la posizione di soggetti che si limitavano a fornire servizi di accesso alla rete. Il cambiamento non è dettato dalla palese incongruenza che deriva dall’applicazione delle stesse garanzie a chi svolge attività affatto diverse, ma come dall’urgenza di avere uno strumento di politica della concorrenza. Il rischio è che gli effetti sui mercati delle norme saranno limitati se il problema non sarà affrontato con maggiore sistematicità, perché la tutela del diritto d’autore ha certamente, in questo caso, un effetto pro-competitivo, ma da solo non risolve il problema. Che avrebbe bisogno di un approccio più sistemico, a partire dall’esigenza di abbandonare il criterio per cui l’obiettivo delle politiche a favore della concorrenza è solo la minimizzazione del prezzo pagato dai consumatori nel breve periodo, come ha di recente spiegato Lina Khan in Amazon’s Antitrust Paradox, pubblicato su «The Yale Law journal» (n. 126,2017).
Mi vien da dire, in conclusione, che tempestività e concretezza sono trappole che il digitale presenta ai processi legislativi. Ciò che manca non è la velocità né il contatto con la realtà immediata. Manca piuttosto una più solida elaborazione teorica, che metta assieme competenze giuridiche ed economiche – come sempre è necessario quando si interviene sui mercati, anche quelli culturali – con la capacità di comprendere l’evoluzione tecnologica. E la responsabilità non è solo della classe politica. E ancor più nei nostri limiti teorici e analitici.