Uffici stampa 4.0? Dalla “terza pagina” alla promozione digitale della lettura

La connettività digitale sta influenzando sempre più le nostre abitudini e trasformando i linguaggi della comunicazione editoriale. Alla metamorfosi del lettore, del giornalista, e forse anche del lettore, corrisponde la moltiplicazione di canali, strumenti e linguaggi per individuare gli interlocutori adatti. Di fronte ad una lettura sempre più multicanale come si deve posizionare ufficio stampa e editore?
 
Nel suo libro di recente uscita, Marketing 4.0. Dal tradizionale al digitale, Philip Kotler, “guru del management” e grande esperto di strategie di marketing, sostiene che in un mondo sempre più online, il contatto offline non solo rappresenta un efficace elemento di differenziazione, ma deve svolgere un ruolo complementare all’interazione digitale, per favorire la connessione tra esseri umani e il loro coinvolgimento come clienti. La connettività digitale infatti sta influenzando profondamente il comportamento e le abitudini dei consumatori: secondo un sondaggio di Google, il 90% delle nostre interazioni con i media è oggi mediato da smartphone, tablet, laptop e televisori, inoltre ogni giorno il tempo trascorso in modo sequenziale o simultaneo davanti a un display è di più di 4 ore. Sono online quattro persone su dieci nel mondo, e, secondo una previsione Cisco, entro il 2019 questa quota aumenterà di dieci volte.
Negli Usa inoltre, scopriamo che, secondo i dati rilevati dal Pew Research Center, l’impiego dei social network a scopo informativo è in progressivo aumento: questa tendenza a consultare le notizie attraverso i social network è sviluppata dal 67 % degli adulti americani.
E in Italia, cosa succede? Secondo i dati raccolti da Audiweb, Facebook conta 30 milioni di utenti attivi, con una penetrazione di circa il 97 % se si considera che gli utenti mensili di Internet sono stimati in circa 31 milioni. Nelle aziende è aumentato fortemente l’impiego (a scopo promozionale) di Instagram, passato dal 29 al 69% in un anno, LinkedIn, cresciuto dal 45 % del 2016 al 64 % attuale, e YouTube, dal 70 all’81 % (Studio Università Bicocca).
Anche l’editoria libraria sembra finalmente essersi resa conto della potenzialità dei social network per mettere in relazione contenuti e lettori. Questo inseguimento però quali trasformazioni comporta nelle modalità e nel linguaggio della comunicazione editoriale?
Ne abbiamo parlato con Gino Roncaglia, docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze presso l’Università degli Studi della Tuscia, nonché autore di numerose pubblicazioni dedicate al settore dei nuovi media. Dopo un invito alla prudenza rispetto alla stima della penetrazione dei social network (negli account personali spesso si conteggiano quelli legati ad aziende, associazioni, o quelli inattivi e abbandonati), Roncaglia osserva che la natura stessa di questi strumenti, «una sostanziale piattaforma per la pubblicazione e la condivisione di contenuti, e dunque in qualche misura essa stessa una piattaforma editoriale», si presta a un interesse aggiuntivo: «Se si considera che i social network sono in diretta concorrenza con l’editoria tradizionale nell’uso del tempo, si capirà che le relazioni fra mondo dell’editoria e mondo dei social non possono certo essere viste solo in termini di sfruttamento di spazi per la promozione editoriale: il rapporto è assai più complesso, ed è in qualche misura legato alla capacità di integrare l’esperienza d’uso dei social e la fruizione di contenuti editoriali tradizionali. Gli uni e gli altri fanno parte dello stesso ecosistema comunicativo, e assorbono fasce di tempo per molti versi analoghe. La comunicazione editoriale sui social non può insomma limitarsi alla promozione di un prodotto “esterno”, ma deve sviluppare una qualche forma di continuità comunicativa fra contesti e contenuti diversi ma non totalmente indipendenti. Chi si occupa di comunicazione editoriale sui social deve certo conoscerne i linguaggi (e quindi avere una forte familiarità con la comunicazione visiva e veloce e con le potenzialità interattive e virali della rete) ma deve anche conoscere molto bene i propri contenuti editoriali e deve saperli collegare ai linguaggi e all’ecosistema social». Secondo Letizia Sechi, esperta di editoria digitale e digitai marketing per l’editoria, «il principale cambiamento provocato dall’utilizzo dei social media nell’editoria è consistito nel mettere per la prima volta editore e lettore a diretto contatto, senza intermediari. Questa è anche la principale ragione per stare in rete: un’occasione importante per ascoltare e raccogliere informazioni, analizzarle, prendere decisioni migliori e più informate. Forse gli editori non l’hanno nemmeno metabolizzata del tutto ancora oggi. Stabilire una presenza in rete significa scegliere un tono di voce che può essere allineato all’identità editoriale oppure essere straniante; definire un piano di contenuti per la produzione e la distribuzione; selezionare le risorse umane ed economiche in modo appropriato; non ultimo saper fare tesoro dei dati che derivano da questo lavoro, e che non potranno essere sostituiti da nessun’altra fonte».
Per la promozione editoriale un tempo c’era la terza pagina dei quotidiani, con recensioni di libri e riflessioni da parte della critica letteraria. Oggi le pagine degli spettacoli hanno fagocitato quelle della cultura, con la spettacolarizzazione dell’evento culturale, e gli uffici stampa convivono ormai con quell’affascinante e complesso “ecosistema di contenuti granulari”, caratterizzato da codici comunicativi diversi, che è la lettura digitale. La comunicazione digitale, in una prospettiva futura e in relazione anche alla crisi dei giornali, può sostituire il ruolo dell’ufficio stampa? E ipotizzabile immaginare redazioni esterne e agenzie di professionisti della comunicazione che ne gestiscano tutti gli aspetti? Secondo Gino Roncaglia, «più che sostituire l’ufficio stampa, si tratta di prevedere al suo interno anche le competenze necessarie alla gestione della comunicazione online. Cosa non facile, perché quando parliamo di comunicazione online parliamo in realtà di un insieme assai eterogeneo di canali e strumenti: ci sono i blog letterari e le riviste online, che per certi versi – in particolare nello stile comunicativo – presentano una certa continuità rispetto al passato ma che richiedono comunque la padronanza di strumenti specifici (valutazione della diffusione e dell’impatto attraverso metriche web ecc.); ci sono i social network, a loro volta estremamente differenziati (si va dalla comunicazione quasi esclusivamente visiva di strumenti come Instagram e Snapchat alla comunicazione breve di Twitter e a quella comunque sintetica ma più articolata e multicodicale di Facebook); ci sono le piattaforme di social reading; ci sono i canali di comunicazione diretta, come le mailing list; ci sono gli store, che attraverso recensioni e collaborative filtering costituiscono probabilmente la più importante piattaforma di selezione editoriale, e che un editore deve comunque presidiare, se non altro per capirne bene le dinamiche e il funzionamento».
Per Letizia Sechi, «tracciare ancora una distinzione tra comunicazione digitale e ufficio stampa è un anacronismo che si paga caro, soprattutto in termini di strategie. Il digitale dovrebbe essere una competenza diffusa, in grado di permeare ciascuno dei mestieri editoriali nei modi più pertinenti. Così, l’ufficio stampa dovrebbe conoscere – con una sensibilità che dovrebbe essergli già propria – la distinzione tra i vari tipi di blog, ed essere in grado di tessere le relazioni in modo da innescare le dinamiche virtuose che questo tipo di lavoro, ben condotto, può attivare. In coordinamento con un ufficio marketing, se c’è, o dotandosi di strumenti e competenze ulteriori, può poi prendere decisioni più informate in base ai dati e ai numeri che la rete mette a disposizione, a seconda degli obiettivi di comunicazione previsti».
Conoscere le regole del SEO e del SEM, le keywords, saper scrivere un articolo e un comunicato stampa per il web, utilizzare correttamente e interpretare le metriche di analisi per Twitter e Facebook, saper segmentare i media e il target di riferimento, diventano quindi tutte competenze oggi più che mai necessarie e richieste.
Secondo Francesca Marson, blogger acuta e voce originale di Nuvole d’inchiostro, che ospita nel suo blog recensioni, articoli di approfondimento, interviste ad autori italiani e stranieri, «difficilmente la comunicazione digitale può completamente soppiantare o sostituire il ruolo della stampa. Semmai quello che mi auguro possa accadere è una maggiore ibridazione fra le rispettive funzioni degli operatori. Considerata la bulimia di nuove uscite in libreria, credo occorra capitalizzare gli sforzi: in alcuni casi la condivisione di un pezzo da parte della casa editrice, tramite le Instagram stories (pubblicazione di foto e video a tutti i propri follower), può avere esiti ben più funzionali rispetto alla sola recensione pubblicata sul quotidiano. Utilizzando i due canali in modalità integrata, o in ogni caso quelli più adatti, si dà una vita più lunga a una recensione. Moltiplicando la visibilità di un singolo pezzo ottengo allo stesso costo un risultato potenzialmente più ampio. Così come gli eventi (le presentazioni, i festival, i reading) dovrebbero riverberare nel tempo diventando a loro volta contenuti: a evento concluso, esaurito il live tweeting (se c’è stato), terminato il passaggio in Italia di un grande nome straniero, l’incontro può trasformarsi in un piccolo thesaurus al quale l’editore deve continuare ad attingere per promuovere i propri libri. Diventa prestigio, ritorno d’immagine, costruzione di un dialogo costante con i lettori».
«Forse bisogna pensare che il lettore è cambiato», ci dice Letizia Sechi. E forse, sembra dirci Serena Danna, giornalista specializzata in culture digitali al «Corriere della Sera», a essere cambiato è anche il modello e il lavoro del giornalista, di quello tradizionale come culturale: «Fino a qualche anno fa si usciva a fare l’intervista e si tornava in redazione a scriverla; ora, invece, si esce con telecamera e smartphone, si fanno riprese, si registra l’audio e magari si fanno delle foto. Oggi, infatti, c’è l’idea che un servizio non si esaurisca nel solo testo, ma debba avere un corredo multimediale. Ed è proprio questo corredo multimediale cui diamo spazio attraverso il canale digitale».
Questo solleva anche un’ulteriore riflessione, relativa a come siano cambiati i rapporti tra la parola e l’immagine nella costruzione del contenuto culturale. Per Letizia Sechi «nella produzione della propria comunicazione gli editori devono (ormai) fare i conti con la necessità di produrre anche la parte visiva che accompagni i testi, in qualunque ambiente si trovino e secondo le regole di ciascuno, con particolare attenzione ai siti e ai blog degli editori stessi».
In un articolo del 26 luglio su ilLibraio.it Gino Roncaglia rifletteva su come questi linguaggi rappresentino al contempo nuove e sfidanti strategie da utilizzare anche per avvicinare alla lettura le giovani generazioni, perché «la strada della promozione digitale della lettura (indipendentemente dai supporti usati) è oggi – e nell’immediato futuro – assai più promettente ed efficace della promozione della lettura digitale…». Ampliando questa affermazione al tessuto più ampio dei lettori in Italia, Letizia Sechi ritiene che sia fondamentale promuovere, prima ancora dei libri, la lettura (qualsiasi tipo di lettura) restituendole accessibilità, desiderabilità e valore.
Tra i differenti strumenti e ambienti per farlo, «il booktrailer prodotto dall’editore può avere come destinazione, oltre al web, anche il punto vendita fisico, laddove è possibile avere uno spazio per proiettarlo. Può essere anche spontaneo, frutto della fantasia e creazione dei lettori, come succede per esempio al festival Mare di Libri di Rimini. Le piattaforme di social reading prevedono un proprietario (da Amazon per Goodreads al Gruppo Mondadori per Anobii, per citare due delle più note) che deve essere in grado di garantire solidità tecnologica e – per quanto possibile – trasparenza, perché la discussione intorno ai libri viva e cresca in modo interessante. Parlando di blog, credo che ci si dovrebbe interrogare sull’attribuzione del termine “letterari” a qualunque sito o blog parli (o forse sarebbe più corretto dire “nomini”) dei libri. Se il discrimine risiede nella competenza, qualità dei contenuti e conoscenza della materia, i blog, tanto quelli amatoriali quanto i letterari contribuiscono alla promozione del libro, formando delle micro-reti interessanti da presenziare e conoscere: se ben coltivate sono infatti fondamentali per consolidare e ampliare la rete di fiducia intorno all’editore».
Secondo Francesca Marson, se «la maggior parte degli editori italiani è presente sui tre social network principali (Facebook, Twitter, Instagram), le potenzialità intrinseche di ciascun social – in particolar modo di Instagram, che è in crescita – vanno ancora esplorate. Così come non è mappata in maniera scientifica la rete, che è ovviamente vastissima rispetto alle redazioni dei giornali: si ha la sensazione che manchi ancora una figura interna alle case editrici, che si occupi in modo continuativo e specifico di individuare – fra blogger, youtuber, comunità online – gli interlocutori adatti. Ovviamente tenendo conto che il settore digitai di alcuni grandi e medi editori è certamente più strutturato di altri».
Come sfruttare quindi l’uso del digitale per mettere a valore questa esperienza di “allargamento” della lettura?
Secondo Letizia Sechi «selezionare alcuni elementi di interesse intorno al libro e trovare i modi migliori per confezionarli e proporli ai lettori rappresenta proprio la strategia più editoriale di tutte. Penguin per esempio offre più o meno regolarmente una guida pensata per i gruppi di lettura; per la saggistica poi le possibilità diventano infinite. È ovvio che anche solo in termini di risorse a disposizione (il tempo, prima tra tutte) l’editore non può proporre un corollario di conoscenza nemmeno per la metà dei libri che pubblica. Ma si potrebbe cominciare dal rispondere con esaustività alle domande che spesso i lettori stessi pongono attraverso i canali social, e capire come valorizzare i vari punti di interesse. Forse questo, più di molto altro, posiziona l’editore come un riferimento culturale».
Aggiunge Francesca Marson, citando una recente intervista su «la Lettura» di Don DeLillo, che «oggi per esempio lo scrittore statunitense non scriverebbe più Libra: grazie a Internet, la conoscenza approfondita delle dinamiche del delitto Kennedy è alla portata di tutti. Trentacinque anni fa, invece, DeLillo girava il Nord America per incontrare testimoni ed esperti, visitava di persona i luoghi, raccoglieva prove e indizi: lo slancio narrativo di un simile progetto, negli anni duemila, necessiterebbe probabilmente di un approccio diverso (e forse non è un caso che Stephen King abbia “reinventato” l’omicidio più famoso della storia americana con il suo 22/11/63). Questo che cosa ci dice?».
Se è cambiato il lettore, il giornalista, e forse anche l’autore, ha senso parlare di lettura nel senso tradizionale del termine? L’Aie si è domandata nel 2017 se non sia il caso di rimettere in discussione questo concetto a favore di una “lettura multicanale”, dove i libri diventano contenuti di informazione e servizi attraverso siti Internet, riviste, social network, pay tv e molto altro.
Per trovare modalità efficaci per far incontrare buoni libri e lettori interessati, a una lettura multicanale non corrisponderà quindi il bisogno, tornando a Kotler, di una comunicazione in grado di ibridare linguaggi e strumenti, online e offline?