«Amor librorum nos unit» è stato lo slogan dei librai antiquari che hanno vinto la protesta contro Amazon e potrebbe rappresentare la conferma della supremazia del libro di carta rispetto a quello digitale e auspicabilmente orientare le scelte ministeriali in materia di sostegno alla cultura e alla lettura che in questo momento risultano invece, purtroppo, ostili a uno sviluppo economico del comparto editoriale.
A poco più di un mese di distanza l’uno dall’altra, quest’anno ci hanno lasciato Cesare De Michelis (Dolo, 19 agosto 1943 – Cortina d’Ampezzo, 10 agosto 2018) e Inge Schonthal Feltrinelli (Gottinga, 24 novembre 1930 – Milano, 20 settembre 2018), due personalità di primo piano nel mondo dell’editoria italiana, di fatto recentemente accomunate dalla cessione del 40% delle quote di Marsilio a Feltrinelli dopo che l’Antitrust, nel 2016, aveva imposto lo scorporo di Bompiani e di Marsilio da Rcs Libri (acquistata da Mondadori) e la casa editrice veneziana era tornata nelle mani del suo fondatore e del figlio Luca, oggi amministratore delegato.
Cesare De Michelis è stato un intellettuale a tutto tondo: editore colto e stimato, bibliofilo appassionato, raffinato critico letterario, a lungo docente universitario nonché attivo organizzatore culturale, la sua biografia è densa di importanti traguardi che qui possiamo ricordare solo in parte. Nel 1965, appena laureato, era entrato nella proprietà della casa editrice fondata a Padova nel 1961 dal padre, assumendone quattro anni più tardi la direzione per diventarne poi amministratore delegato e infine presidente. Trasferita nel 1973 la sede della casa editrice da Padova a Venezia, De Michelis si fa notare per l’attenzione alla contemporaneità e il personale fiuto editoriale che lo porta a scoprire da una parte Susanna Tamaro, Margaret Mazzantini, Chiara Gamberale, dall’altra il cosiddetto “giallo nordico” iniziato con la pubblicazione di Henning Mankell e proseguito con la Millennium Trilogy di Stieg Larsson, per non tacere della collana di poesia diretta negli anni novanta da Giovanni Raboni o delle pubblicazioni in collaborazione con la Collezione Guggenheim, la Fondazione Cini e via dicendo. Grande bibliofilo, appassionato di Aldo Manuzio, la sua casa veneziana è famosa per ospitare una biblioteca di oltre settantamila «volumi, volumetti e opuscoli, spesso accompagnati dai ritagli degli articoli che ne parlarono, da una prima effimera bibliografia» ha dichiarato l’editore, aggiungendo di essere riuscito, nel tempo, a colmare le lacune più gravi della sua raccolta proprio su quei temi e su quegli autori che aveva personalmente studiato, «perché per riconoscere i libri giusti bisogna prima sapere quali sono» (e questo sarebbe un monito utile a tanti editori, ma anche a molti, sprovveduti, lettori, nostri contemporanei). Al mestiere di editore Cesare De Michelis ha dedicato Tra le carte di un editore (Marsilio), Editori vicini e lontani (ItaloSvevo) e un libro di memorie di cui si attende la pubblicazione.
Sul panorama dell’editoria non solo italiana, ma internazionale, si staglia imponente la figura di Inge Feltrinelli, nata fotoreporter (famosi i suoi scatti di Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Greta Garbo, Fidel Castro) e vissuta editrice, prima a fianco di Giangiacomo Feltrinelli, che sposa nel 1959 e con il quale avvia una vastissima rete di rapporti editoriali internazionali (con i Rowohlt, i Knopf, i Gallimard, i Rosset) che fanno acquisire alla casa milanese le opere di importanti scrittori non solo della Germania del dopoguerra, Gruppo 47 e oltre, ma anche di Garcia Marquez, Doris Lessing, Nadine Gordimer solo per citarne alcuni. Poi, dopo la tragica morte del marito (14 marzo 1972), Inge diventa presidente della casa, proprio negli anni di piombo, quando la redazione e le librerie devono passare attraverso soprusi, attentati, perquisizioni e intanto superare il dolore più grande, quello della perdita del loro fondatore. Insieme a Giampiero Brega, direttore editoriale, Inge saprà traghettare la Feltrinelli fuori dagli anni più difficili, quando anche le proposte di saggistica, i libri che erano stati per lungo tempo un importante punto di riferimento della cultura giovanile, perdono di valore, innanzitutto commerciale, e la casa deve cercare una nuova identità editorial-letteraria. Gli anni settanta sono quelli in cui si paga lo scotto delle ultime direttive di Giangiacomo, che avevano accentuato la già forte rilevanza politica della produzione, a volte anche a scapito di un aspetto più manageriale e di attenzione alle dinamiche di mercato che andava ormai imponendosi nella realtà editoriale italiana. Sono gli anni in cui la Feltrinelli “perde” (o lascia andare, si lascia scappare, a seconda dei casi) alcuni autori importanti ma, superata con slancio la grande crisi del 1981, ne acquisirà di nuovi e spesso li saprà legare a sé conducendo un’intelligente politica d’autore costruita sulle basi di una solida fedeltà editoriale alla quale contribuisce in maniera fondamentale la figura di Inge Feltrinelli. Dal mondo arrivano Isabel Allende, Banana Yoshimoto, Daniel Pennac, Richard Ford, Ryszard Kapuscinski, Nelson Mandela, Amos Oz. Dall’Italia Gianni Celati, Antonio Tabucchi, Michele Serra, Erri de Luca, Stefano Benni, Alessandro Baricco, Maurizio Maggiani, fino a Roberto Saviano. Con la stessa intelligenza e lungimiranza, la casa riesce a riaffermare anche la produzione saggistica, sulla quale abilmente innesta nuovi e fecondi filoni di studio, ricerca e divulgazione. Nella società Librerie Feltrinelli, creata nel 1998 in seguito alla scissione tra l’attività editoriale e la rete di vendita, Carlo Feltrinelli, figlio di Inge e Giangiacomo, amministratore delegato della Giangiacomo Feltrinelli Editore, è presidente mentre Inge Feltrinelli ricopre la carica di presidente onorario e nel 2005 viene nominata vicepresidente della holding finanziaria Effe 2005. Inge Feltrinelli è stata inoltre consigliere della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e membro del comitato promotore della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri. Famosa per i suoi impeccabili ricevimenti, per i pranzi conviviali e per le feste sontuose, per la sua passione per il ballo e per gli abiti rosa, rossi e arancioni, di Inge Feltrinelli andrebbe senz’altro maggiormente valorizzato, nel ricordo, l’impegno nella promozione della cultura, per il quale infatti ha ricevuto una serie impressionante di riconoscimenti, nazionali e internazionali, che mi pare giusto provare qui almeno a elencare: Accademico di Brera, Commandeur dans l’Ordre des Arts et des Lettres, Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica federale di Germania, oltre che Cavaliere dell’Ordine al merito e Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, consigliere della Fondazione famiglia Siegfried e Ulla Unseld, membro della Accademia europea di Yuste; è stata insignita del Publishing Merit Award dalla Feria Internacional del Libro di Guadalajara e della medaglia Carlo Magno per il suo contributo al processo di unificazione europea e allo sviluppo dell’identità europea e le sono state conferite tre lauree honoris causa dall’università di Ferrara, dalla Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano e dall’università Ruprecht-Karls di Heidelberg. Su Inge sarà scritta una biografia, un progetto a cui ha lavorato lei stessa con un giornalista svizzero di lingua tedesca che sarà l’autore del volume, fa sapere Carlo Feltrinelli dalla Buchmesse di Francoforte, che quest’anno si è aperta proprio con un ricordo dell’editrice.
La dipartita di Cesare De Michelis e di Inge Feltrinelli segna un ulteriore passo nel processo di avvicendamento alla guida delle grandi – ma anche delle piccole e medie – famiglie editrici, un processo che non comincia ora ma che ormai possiamo iniziare ad apprezzare, e in futuro potremo valutare, nella sua compiutezza: abbiamo già citato Carlo Feltrinelli e Luca De Michelis, non possiamo dimenticare Luca Formenton, Antonio Sellerio, Giuseppe Laterza, ma anche Giovanni, Matteo e Barbara Hoepli, Pietro Biancardi (Iperborea), Andrea Gessner (nottetempo), Eva Ferri (e/o, Europa Editions), Raffaello Avanzini (Newton Compton), Annamaria Malato (Salerno), Shulim Vogelmann (Giuntina) e molti altri editori di seconda, terza, quarta, quinta generazione e così via.
Mercato stabile, crescono le esportazioni
Le fiere del libro sono la sede elettiva per parlare dell’andamento del mercato, grazie alle analisi che vengono presentate proprio in queste occasioni. Quest’anno ad aprire le danze è stata Tempo di Libri (Milano, 8-12 marzo 2018,97.240 visitatori, +60% rispetto al 2017, ma nel 2019 non si farà), anticipando di un mese quello che di solito era il primo appuntamento dell’anno, la London Book Fair (10-12 aprile 2018), seguita dal Salone del libro di Torino (10-14 maggio 2018, 144.386 visitatori), dalla Frankfurter Buchmesse in autunno (10-14 ottobre 2018) e a dicembre da Più libri più liberi di Roma (5-8 dicembre 2018). La fotografia più recente del mercato che abbiamo a disposizione nel momento in cui scriviamo è quella scattata dall’ufficio studi Aie a ottobre 2018 e presentata alla fiera del libro di Francoforte, da cui emerge un calo delle vendite a valore tra lo 0,2 e lo 0,4% nei primi nove mesi del 2018 rispetto allo stesso periodo del 2017, un dato che potrebbe però migliorare entro fine 2018 visto che il 36% delle novità esce tra settembre e dicembre. Dunque il mercato dei libri non cresce, nonostante cresca la produzione libraria: +8,7% le novità a ottobre 2018, + 5,7% il catalogo dei libri in commercio che supera ormai quota un milione, +0,5 % il numero delle case editrici attive (sono quasi 5.000 quelle che hanno pubblicato almeno un libro nel corso dell’anno), delle quali molte si segnalano per la loro sorprendente vitalità: La Nave di Teseo con Baldini+Castoldi e Oblomov, Sem, Pianeta, Solferino, ma anche Hacca, Nutrimenti, Nuova Frontiera, 66thand2nd, NN, L’orma, solo per citare alcune delle realtà più attive in un mercato che è più differenziato e dinamico oggi di quando Rizzoli non era ancora di Mondadori. E cresce anche il peso dell’editoria italiana all’estero, questa è una buona notizia, con l’export in aumento del 6% e la vendita di diritti di autori italiani sui mercati internazionali addirittura del 10%, a cui corrisponde anche la lenta ma costante crescita degli autori italiani sul totale delle pubblicazioni nel mercato domestico, dove attualmente i titoli tradotti si assestano intorno a una percentuale del 16-17%. Visti sul lungo periodo i dati sono ancora più eloquenti: tra il 2014 e il 2018, infatti, i titoli venduti all’estero sono aumentati del +36,5 %, mentre quelli acquistati sono calati del –10,7%. Altri dati di mercato riguardano i prezzi medi di copertina e il prezzo medio del venduto, che rimangono stabili. Il canale di acquisto preferito si conferma essere la libreria (quasi 71%), seguita dagli store online (21,5%) e, da lontano, dalla grande distribuzione (circa 9%). Del resto, se confrontiamo questi dati con quelli di dieci anni fa, vediamo chiaramente che la quota di mercato della gdo, che era arrivata a sfiorare il 20%, è stata erosa dagli acquisti online che dieci anni fa contavano solo per il 3 % circa.
A tutti questi dati se ne possono aggiungere altri ancora più recenti (Aie, dicembre 2018) che riguardano in particolare i piccoli e medi editori (fatturato fino a dieci milioni di euro) i quali fanno registrare un andamento migliore di quello del mercato in generale. Più di una copia su tre di quelle vendute nel 2018 (il dato si ferma alla prima settimana di novembre) sarebbe infatti di un piccolo o medio editore. E ben il 41,8% del fatturato complessivo del mercato del libro di quest’anno (era il 39,8%) proviene da questo comparto. Sono questi i numeri che meglio rappresentano la vivacità del segmento. Il fatturato dei piccoli e medi editori (in librerie, store online escluso Amazon e senza considerare la grande distribuzione in cui sono poco rappresentati) cresce del +2,2% (in parte dovuto anche al prezzo di copertina del venduto, che è del 20-21 % più alto rispetto a quello degli altri editori), ma cresce anche il dato a copie (+1,2%). In questi anni dunque quella che definiamo piccola editoria è cresciuta ma ha anche avuto una profonda trasformazione al suo interno: i primi 100 marchi editoriali della piccola e media editoria rappresentano il 69,3 % del mercato e i primi 500 il 91,6% su oltre seimila editori complessivi. «L’editoria» ha commentato il presidente di Aie, Ricardo Franco Levi «si conferma la più grande industria culturale del paese e, al suo interno, si evidenziano in particolare la vivacità e i buoni risultati dei piccoli e medi editori. Ciò nonostante, per quanto il settore editoriale reagisca molto meglio di tutti gli altri comparti della cultura, pesa il calo dei consumi. Risulta quindi necessaria più che mai una politica di promozione della lettura e un sostegno alla domanda.»
Tagli alla cultura, non cresce la lettura
Perché le note dolenti riguardano proprio il tema del sostegno e della promozione della lettura in particolare e della cultura più in generale. La prima sorpresa amara in questo senso è arrivata dai tagli al credito d’imposta varati dalla legge di bilancio 2019, che entreranno in vigore a partire dal 2020. Stando ai dati disponibili a dicembre 2018, sono previsti un taglio di 20 milioni di euro per il Bonus cultura riservato ai diciottenni per il 2019, una riduzione del credito d’imposta pari a 1,25 milioni di euro per le librerie e pari a 375mila euro per le case editrici. I risparmi derivanti dai tagli alla cultura ammonterebbero, in questo modo, a un totale di 5.590.250 euro a partire dal 2020. Come contraltare all’operato in materia di cultura del nuovo governo, che nel frattempo ha anche bocciato la direttiva europea sul web-coypright, possiamo citare il sostegno offerto dal precedente governo alla campagna dell’Aie #unlibroèunlibro che proprio di recente (ottobre 2018) ha dato i suoi frutti con l’approvazione della direttiva della Commissione europea che d’ora in poi permetterà a tutti i paesi membri di applicare agli e-book la stessa Iva dei libri cartacei. Finora invece una direttiva del 2006 prevedeva un’Iva minima del 15% sui libri elettronici (mentre per i libri di carta, giornali e riviste erano consentite imposte agevolate al 4%). L’Italia già nel 2015, per iniziativa dell’allora ministro della Cultura Dario Franceschini, aveva scelto di abbassare l’iva al 4% con un gesto coraggioso quando in Europa questa era una posizione minoritaria, che oggi viene invece finalmente legittimata assicurando gli stessi diritti a tutti i lettori, sia su carta sia in digitale.
Veniamo ora alle note dolenti che riguardano proprio tutti, grandi e piccoli, editori e lettori, cioè quelle relative alla lettura, che ormai va misurata, che sempre più andrà misurata, necessariamente in un’ottica di mix di supporti visto che, sempre secondo l’Aie, il 62% degli italiani legge su carta, il 25% in digitale, l’8% ascolta audiolibri. Ammetto che i dati sulla lettura sono quelli che, con il passare degli anni e con l’aumentare delle rilevazioni, mi mettono sempre più in difficoltà, come è accaduto anche con quelli, numerosi, che ho consultato per scrivere queste pagine. Alla fine, spero di essere riuscita a interpretare correttamente la notevole disparità che emerge tra i dati Istat dell’indagine quinquennale e i dati dell’ufficio studi Aie. Secondo il Rapporto Istat pubblicato a dicembre 2017 solo il 40,5% degli italiani ha letto almeno un libro non scolastico nel 2016. Secondo l’Aie invece leggerebbe il 62% della popolazione italiana con più di 15 anni. Ricardo Franco Levi, presidente dell’Aie, interpreta l’indagine annuale dell’Istat come «per forza di cose parziale» perché, spiega, «è basata su una domanda un po’ romantica, cioè quanti libri si leggono per puro diletto». Mentre, sempre secondo Levi, se prendessimo i dati rilevati dall’Istat nelle indagini quinquennali, quando la domanda viene allargata ad altre motivazioni di lettura, vedremmo che il dato sale al 60% e che si avvicina al 62% rilevato dall’ufficio studi dell’Aie. Sia come sia, l’abbiamo già detto l’anno scorso e lo ripetiamo ora, il problema non è più, non è tanto e non è solo quanto si legge ma cosa e come si legge.
Come ci ha spiegato, da ultima e molto bene, Maryanne Wolf (Rettore, vieni a casa, Vita e Pensiero, 2018), nel circuito neuronale che è alla base della capacità del cervello di leggere sta rapidamente avvenendo una trasformazione che è sotto gli occhi di tutti e che avrà conseguenze per tutti, dai bambini dell’asilo che prendono l’iPad invece del ciuccio agli adulti che scorrono lo schermo dello smartphone invece di leggere un romanzo. Diverse ricerche in corso ci mettono ormai in guardia sui rischi che corrono tutti i processi essenziali legati alla lettura profonda (l’interiorizzazione della conoscenza, il ragionamento analogico e la capacità deduttiva, l’assunzione di un punto di vista diverso dal nostro che è all’origine dell’empatia, l’analisi critica e l’intuito) con le nuove modalità di lettura digitale. Sappiamo che gli esseri umani non acquisiscono la capacità di leggere per via genetica e che per svilupparsi il circuito della lettura si adatta alle richieste dell’ambiente in cui si trova: se il mezzo utilizzato in maniera predominante favorisce processi rapidi, consente di fare più cose contemporaneamente e di gestire una grande quantità d’informazioni, il circuito di lettura si adegua e il risultato è che il cervello dedicherà meno tempo e attenzione a quei processi di lettura profonda che richiedono più tempo ma che sono indispensabili per apprendere, a qualsiasi età. Nelle neuroscienze c’è una vecchia regola che vale per tutte le età: «se non lo usi lo perdi», un concetto molto utile se applicato alla lettura profonda perché implica una scelta che, se ne siamo consapevoli, potrebbe portarci a coltivare un nuovo tipo di cervello: un cervello bialfabetizzato capace delle forme di pensiero più rapide usando i mezzi digitali e delle forme di pensiero più profonde usando i mezzi tradizionali. Tutto ciò però vale non solo per la lettura dei classici dell’Ottocento o dei manuali di storia moderna ma, molto più prosaicamente e, vorrei aggiungere, quotidianamente, vale anche per quel tipo di lettura più semplice, più immediata, più diffusa che è (o dovrebbe essere) quella che esperiamo a scopo di informazione. Che cosa succede in questo ambito? Succede, come ha ricordato recentemente Robert Darnton («la Repubblica», 20 ottobre 2018), che ormai «il 46 percento dei cittadini americani riceve le notizie dal social, non da fonti giornalistiche. Si creano così circoli chiusi in cui gli utenti collegati tra loro non accedono mai a siti di media online, non verificano se le news sono fake oppure no. Non si documentano. E questo,npurtroppo, ha portato a Trump». E questo, purtroppo, avviene, in maniera sempre più pervasiva, anche nel nostro paese.
«L’e-book è un prodotto stupido»
Per il 2017 i dati Aie parlano di una riduzione del 15,9% di titoli e-book, ma il dato che più stupisce, sul quale vorrei soffermarmi un attimo, è quello che ci dice che solo il 13,7% degli e-book sono pubblicati da case editrici, la parte restante sarebbe pubblicata da piattaforme o da aziende che vendono servizi di pubblicazione ad aspiranti autori, tanto che si è già arrivati a parlare di autopubblicazione come «fenomeno di massa in Italia» facendo riferimento a chi sicuramente fa la parte del leone anche in questo ambito, la solita Amazon. Sappiamo che Amazon non ama fornire dati, di fatto evita accuratamente di farlo, ma in questo caso ne possiamo citare alcuni rivelati da Stefania Vitulli per «Il Foglio» (2 ottobre 2018): autori e editori indipendenti avrebbero guadagnato oltre 220.000.000 di dollari di royalties solo dalla loro partecipazione al programma Kindle Unlimited, dicono, con il 95 % di editori e autori che rinnovano ogni mese l’adesione. Nel 2017 migliaia di autori indipendenti avrebbero guadagnato più di 50mila dollari e oltre un migliaio hanno superato i 100mila dollari di royalties. Sono dati che, ovviamente, lasciano il tempo che trovano, e soprattutto lasciano aperte tutte le perplessità legate alla natura stessa e al significato più profondo del self-publishing, dubbi che, nella mia opinione, si trovano molto ben rappresentati nella seguente dichiarazione di Valentina Maran (autrice Piemme ma anche self-published): «È facile pubblicare online? Parrebbe. Se non hai mai pubblicato il cartaceo. Se sei passata per una casa editrice pubblicare online sarà complicato perché ti sei abituato alla professionalità». Questa la sua conclusione: «Voglio un editor. Una casa editrice. Un correttore di bozze. Una distribuzione. Voglio qualcuno che faccia le cose per me. Pagate dei professionisti che curino il vostro lavoro dall’inizio alla fine in ogni dettaglio. Non badate a spese. Se l’avete scritto bene si venderà da sé e rientrerete dei costi». Uno a zero per la carta contro il digitale self-published.
Del resto, secondo i big dell’editoria internazionale, «l’e-book è un prodotto stupido» e ha le ore contate. Ormai da tempo al centro del dibattito non c’è più la questione, superata, se l’e-book ucciderà il libro di carta. Il prodotto più apprezzato si conferma essere il libro cartaceo, ma digitali sono ormai l’infrastruttura e il metodo con cui viene scritto, editato, pubblicato, stampato, distribuito, promosso, pubblicizzato ecc. Si discute dunque e piuttosto di quanto le nuove tecnologie influenzano la filiera produttiva e i contenuti a disposizione, oltre alle relazioni tra autori, editori e lettori. Questi i temi “caldi” del Future Book Forum 2018, per esempio, dove si è discusso di algoritmi sempre più sofisticati, in grado non solo di profilare le preferenze dei lettori per personalizzare l’offerta, o di misurare la popolarità social degli autori per orientare gli investimenti pubblicitari, ma addirittura di essere usati per una prima selezione dei manoscritti che arrivano in casa editrice: pare lo faccia Unbound, casa editrice londinese in crowdfunding, la quale ha ammesso, candidamente, di far valutare i testi che riceve, oltre che dagli editor, «da un’intelligenza artificiale in grado di apprendere» («Corriere della Sera», 25 novembre 2018).
Qui potremmo sfoderare il sillogismo proposto da Claudio Piersanti in una recente puntata del dibattito sullo stato di salute del romanzo («Doppiozero», 31 ottobre 2018): «Non si vendono libri perché sono brutti ma si fanno brutti libri perché non si vendono libri». La conseguenza è che in un mercato invaso dalle novità, in cui una resa del 25 % può considerarsi fisiologica e fino al 40% sostenibile, il ciclo di vita del libro si è enormemente ridotto: se fino a poco tempo fa un libro poteva rimanere sugli scaffali delle librerie per qualche anno, oggi fatica a superare i dodici mesi e molto spesso – direi, sempre più spesso – quello dei dodici mesi è un traguardo che non arriva a vedere nemmeno da lontano. Non è un caso se è diventato virale il tweet in cui la libraia del Broadhurst’s Bookshop di Southport (Liverpool) dichiarava, felice, di aver venduto un libro che aveva in stock dal 1991, rimasto quindi sugli scaffali per ventisette anni!
Cosa possiamo sperare per il futuro? Forse che l’impiego di algoritmi di vendita sempre più precisi (da parte dei big che se lo possono permettere) permetteranno di adattare la produzione alle vendite e ci risparmieranno dai «libri no», come li chiamava Giulio Einaudi? O è un’utopia? Quest’anno si è discusso molto anche del diritto di resa di per se stesso (il meccanismo sul quale sostanzialmente vive il nostro mercato editoriale, senza il quale, siamo abituati a pensare, editori, librai e lettori soccomberebbero), arrivando a metterlo in discussione: secondo Ernesto Ferrerò, voce più che autorevole, «finché si ammette il diritto di resa il sistema non può che crescere patologicamente, come la rana della favola, aumentando la produzione per compensare le rese crescenti, proprio come accade a certi prodotti finanziari, finché un brutto giorno la bolla scoppia e tutti giù per terra». La sua conclusione è amara: «I libri pubblicati e gli scrittori della domenica continueranno a crescere, e i lettori a diminuire» («La Stampa» 11 ottobre 2018).
Intanto negli Stati Uniti si discute se sia giusto che la città di New York faccia uno sconto alle tasse di Amazon (tra sgravi fiscali e altri incentivi pari a circa 1,5 miliardi di dollari) per ospitare una delle sue due nuove sedi (l’altra da Arlington, in Virginia).
Mentre i librai antiquari hanno organizzato uno sciopero internazionale contro AbeBooks, il sito di Amazon specializzato nella vendita di libri rari e usati, che doveva durare una settimana ma che si è concluso prima perché dopo soli tre giorni erano già riusciti a ottenere quello che volevano, dimostrando, come minimo, che l’unione che fa la forza. Tutto è iniziato quando AbeBooks ha annunciato che entro il 30 novembre 2018 avrebbe smesso di lavorare con le librerie antiquarie di Corea del Sud, Polonia, Repubblica Ceca, Russia, Ungheria, senza spiegare perché, dicendo solo che il problema riguardava i metodi di pagamento dei librai dei paesi in questione. Immediatamente quasi 600 librerie di ventisette paesi, di cui venticinque italiane, hanno aderito allo sciopero rimuovendo, in due giorni, quasi quattro milioni di libri dal catalogo di AbeBooks e riuscendo a ottenere qualcosa che non si poteva certo dare per scontato: probabilmente non era mai capitato che una categoria di venditori riuscisse a ottenere qualcosa da Amazon, come si era già dimostrato nei rapporti con le case editrici, che negli anni sono stati più volte problematici, sia negli Stati Uniti che in Italia, dove, di recente, sono stati Sandro Ferri e Sandra Ozzola, fondatori delle Edizioni e/o, a diffondere un comunicato in cui denunciano la richiesta da parte di Amazon di uno sconto, naturalmente a loro favore, definito «troppo gravoso […] e neppure giustificato dal volume dei loro affari con la casa editrice». Di fronte al rifiuto della casa editrice di applicare questo sconto, Amazon ha sospeso l’acquisto di tutti i libri delle Edizioni e/o e ha reso quelli che aveva in magazzino, con il risultato che ora i libri delle Edizioni e/o sono disponibili su Amazon solo attraverso soggetti terzi e quindi a condizioni più sfavorevoli per tempi di consegna e per costi di spedizione addebitati al cliente. Un sopruso, in poche parole, al quale sarebbe bello che tutti gli “amanti del libro”, editori, librai, lettori, sapessero opporre resistenza unendo le forze.
Gli strumenti di difesa non mancano: se nel 2016 avevamo avuto l’opus magnum di Giuseppe Montesano, il monumentale Lettori selvaggi (Giunti), seguito nel 2017 dalla sua editio minor, il piccolo ma prezioso vademecum intitolato Come diventare vivi (Bompiani), quest’anno gli amanti del libro non potranno perdere la nuova edizione aggiornata (che segue a solo un anno di distanza il successo della prima) della Guida tascabile per maniaci dei libri (Edizioni Clichy) a cura del misterioso collettivo The Book Fools Bunch che si autodefinisce «un misterioso gruppo di esperti e maniacali lavoratori dell’editoria» e che, fatta qualche domanda agli amici e agli amici degli amici, crediamo di poter definire come un collettivo a schiacciante prevalenza femminile. La guida comincia con l’elenco dei 30,250 e 1.000 libri fondamentali, seguita da due nuove sezioni che non erano presenti nella prima edizione: la prima è l’elenco dei libri fondamentali per bambini e ragazzi, la seconda è l’elenco dei libri imperdibili e dei libri più amati da oltre duecento librai italiani che sono stati intervistati sul tema. Il volume prosegue con le vite degli scrittori in pillole, poi gli incipit, i premi letterari, i bestseller, le stroncature, i libri diventati film, citazioni sui libri, una breve storia dell’editoria. Una sezione particolare è dedicata al cibo e all’alcol nei libri, e una sezione alle curiosità. La guida è un elenco, insieme colto e popolare, sicuramente trasversale, e per gli amanti del genere costituisce una lettura senza dubbio istruttiva, posto che, come è ovvio che sia e come viene dichiarato anche nella prefazione, le scelte fatte possono essere discutibili, e ben venga, aggiungiamo noi: a discuterle i lettori si possono divertire.