Romanzo fantastico: magia e multimedialità

Un decennio di rilancio, di rinnovamento e metamorfosi per la narrativa fantastica o fantastico-avventurosa che, pur nella scarsa tensione allo sperimentalismo stilistico, è sempre più orientata ad attingere a tradizioni letterarie quasi per definizione non italiane e a lasciarsi «contaminare» da media e realtà esterni.
 
Sul fatto che una tradizione narrativa in senso lato «fantastica» ovvero «fantastico-avventurosa» in Italia non abbia mai davvero attecchito, non è il caso di spendere troppe parole. il discorso è in effetti annoso. Data per lo meno all’inizio del secolo scorso, e si fonda su una presunta maggior «classicistica» razionalità che, in quanto eredi della civiltà greco-latina, distanzierebbe noi italiani dalle intemperanze immaginative dei popoli settentrionali. Né pare valgano a scalfire questo pregiudizio i nomi d’autori di primo e primissimo piano, come – li butto lì un po’ a caso – Bontempelli, Landolfi, Buzzati, Calvino e un certo Volponi, ovvero quelli di rincalzi più che dignitosi quali Delfini, Zavattini, Morovich e Ortese; per non parlare poi – andando a ritroso – di episodi cospicui della scapigliatura e di aree non del tutto trascurabili del nostro romanticismo «gotico» (Guerrazzi, ma anche il Pellico e il Di Breme più spregiudicati, e la pletora di misconosciuti narratori in versi che costituiscono uno dei punti di forza della prima modernità italiana). Ma, appunto, è una polemica persa in partenza; e poco importa che da Goethe in poi sia quasi un luogo comune – attivo nei lettori. stranieri – rilevare l’antipatia tutta italiana per un «modo», il romance, che l’intero mondo occidentale ha apprezzato innanzi tutto nei romanzi cavallereschi del nostro Rinascimento.
Tanto più sintomatico, allora, sarà un rilievo cronologico forse non del tutto casuale: e cioè che la tradizione in ombra del fantastico in lingua italiana è andata incontro a un vero e proprio rilancio, a una metamorfosi e a un rinnovamento, da un decennio o poco più a questa parte. Dunque: risale al 1988 l’esordio di Paola Capriolo con i racconti della Grande Eulalia, e l’anno successivo il romanzo Il nocchiero fissa la cifra narrativa cui la scrittrice fino a oggi è restata fedele; nel 1989, poi, con Di bestia in bestia si apre la carriera di Michele Mari; solo di due anni precedente è Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni; e di due anni successivi sono Castelli di rabbia, esordio narrativo di Alessandro Baricco, nonché Jacob Pesciolini di Enzo Fileno Carabba (vincitore appunto nel 1991 del premio Calvino). Rilievi, questi, ai quali affiancherei altri segnali editoriali decisamente eloquenti: come il successo del Bar sotto il mare (anno 1988) di Stefano Benni, l’uscita proprio nel 1989 del Vangelo di Giuda di Roberto Pazzi; ovvero, retrocedendo di poco, il passaggio, nel 1986, dell’anziana Anna Maria Orte se alla casa editrice Adelphi (per la quale avrebbe poi pubblicato un paio d’opere nuove, decisive per le sorti del nostro genere), o anche, e magari soprattutto, l’inizio in quello stesso anno della fortunata serie fumettistica di Dylan Dog, di cui è ideatore Tiziano Sclavi (serie anch’essa suscettibile, nell’ultimo decennio, di rappresentare uno degli aspetti più importanti del fantastico «all’italiana»). Mentre – per ragioni che spero di render chiare nel corso di queste pagine – appare tutto sommato «remota» l’esperienza di Tabucchi che, come ha mostrato Remo Ceserani nel suo saggio sul Fantastico (Il Mulino, 1996), in Il gioco del rovescio (1981 e 1988) e in Piccoli equivoci senza importanza (1 985) aveva saputo dar prova d’un fantastico esemplare, per certi versi calligrafico, nutrito di abbondanti succhi letterari, vale a dire nato da una contaminazione postmoderna sì, ma forse troppo chiusa su se stessa, troppo condizionata dall’accorta manipolazione delle proprie autorevoli fonti.
Certo: così sinteticamente tratteggiato (magari anche a prescindere dagli slarghi fumettistici), il nostro è un dominio altamente disomogeneo, caratterizzato in particolare da un tratto distintivo negativo («assenza di realismo»), e invece povero di fondamenti comuni, di riferimenti stilistici e tematici non troppo generali e generici. Ciononostante, un paio di invarianti possono essere rilevate. Da un lato, colpisce il bisogno di attingere a tradizioni letterarie quasi per definizione non italiane: al retaggio gotico inglese (Mari, soprattutto), al romanticismo tedesco (Ortese e Capriolo), alla fantascienza (in particolare Benni e Carabba), al romanzo d’avventura «stevensoniano» e alla ricchissima produzione sudamericana (Baricco). Non è proprio un caso, a me sembra, se il modello straniero solitamente più frequentato dal fantastico nazionale – quello surrealista – appaia nel complesso poco presente, anche se, certo, la ristampa nel 1986 della bella antologia curata quarant’anni prima da Gianfranco Contini, Italia magica (che era sottotitolata Racconti surreali novecenteschi), in qualche modo ha avuto a che fare con la nuova ondata di narrazioni fantastiche. Secondo carattere «positivo», forse più importante del primo: la scarsa tensione sperimentale, ovvero avanguardistica, di tutti o quasi questi autori, sul piano segnatamente dello stile. In effetti, il successo che ne ha accompagnato le sorti editoriali nel corso degli anni Novanta è motivabile anche con un tasso di leggibilità solitamente parecchio alto, con un impegno nella scrittura che – persino nei casi di personalità, come quelle di Mari e Baricco, la cui pagina non è affatto riconducibile ai moduli dell’italiano standard – non contraddice mai il piacere del racconto dispiegato, l’interesse per una storia-storia da gustare con passione sino all’ultima riga. Con il rischio, però (corso, beninteso, solo da alcuni degli scrittori ricordati), di indurre un diffuso grigiore espressivo, una medietas elocutiva che contrasta, e in modo spesso stridente, con l’eccezionalità dei casi raccontati, li omologa a una norma percettiva banalizzante, li borghesizza assimilandoli a un sistema di valori curiosamente prosaico.
Ma è proprio in questo settore, nel settore delle opzioni stilistiche e rappresentative (e della conseguente modellizzazione d’un lettore ideale), che sono percepibili le prime importanti differenze. Si prendano a esempio in considerazione i romanzi di Baricco, Capriolo e Pazzi usciti nel 1999: vale a dire rispettivamente City, Il sogno dell’agnello e La città volante. Opere che, per strade certo non coincidenti, sembrano tutte lavorare alla costituzione (o ricostituzione) d’un sublime normalizzato, d’una «magia» letteraria, più che d’un fantastico o una fantasia in senso forte. È il caso, tipicamente, di Capriolo e Pazzi: in grado di mettere al centro della propria narrazione un apologo massimamente lineare (infatti suscettibile presso altri autori di dar luogo a una narrazione breve, a un semplice racconto), che non solo si dilata alla dimensione di romanzo, ma si carica di sovrasensi allusivi e in qualche misura simbolici, più che allegorici, fluttuanti e non di rado generici, che tuttavia tanto più affascinano il lettore in quanto non richiedono un forte impegno di lettura, un confronto serrato con snodi o impuntature rappresentative. Il fenomeno Baricco è solo apparentemente opposto: il suo stile non può definirsi monotono, essendo viceversa frequentissimi in lui gli episodi in cui un improvviso cambio di registro eleva la mera prosa di romanzo al rango addirittura della poesia, d’una pseudoversificazione che ambisce a costituire un «commento» o una divagazione lirico-epici, paralleli al filo principale della storia. E tuttavia, specularmente rispetto ai due altri autori con cui fa gruppo, anche Baricco finisce per scommettere su una specie di sublime indotto: le digressioni, il caleidoscopio degli episodi e delle forme evocate svolgono una funzione euforizzante, eccitante, chiedono al lettore di abbandonarsi fiducioso ai picchi d’una – appunto – magia, tutto sommato molto agibile e frequente, rinnovabile a comando ogni qual volta lo richieda l’estro dell’autore (piuttosto che del narratore), e perciò tanto più arbitraria. Come del resto Baricco ci suggerisce (si veda per esempio il risvolto di copertina di City), l’esperienza primaria dei suoi romanzi è costituita dall’atto del raccontare, dal mistero che si svolge innanzi tutto in una persona ben individuata e individuabile, che cerca in tutti i modi di renderei partecipi di un sublime da lei pienamente vissuto.
Tuttavia io credo che a questa poetica dello stupore e dell’estasi protratta o procurata, alle bolle di sapone d’un’enfasi tragica intelligentemente volgarizzata, e d’una intenzionalità magica (dove la parola sarà dunque da intendersi anche nell’accezione calcistico-sportiva, per cui di fronte a prestazioni agonistiche di massimo rilievo si esclama, enfatici e rapiti, «Magico Ronaldo», «Magica Juve», o «Magici azzurri»), si contrapponga .un’area del fantastico italiano decisamente più problematica e negativa, e insieme più disposta a rischiare su modi e strategie espressivi discontinui, fortemente contaminati, in qualche caso addirittura lacunosi e incoerenti. È su tale versante che collocherei senza indugi gli ultimi due romanzi di Anna Maria Ortese, Il cardillo addolorato ( 1993) e Alonso e i visionari ( 1996) : in questa anziana signora che si era formata negli anni Trenta all’insegna del realismo magico di Bontempelli (in effetti, il suo scopritore), il fantastico si riallacciava alle proprie radici storiche, hoffmanniane e romantiche, e sapeva restituire una visione massimamente problematica, magmatica e metamorfica del mondo. Sia essa l’infanzia o l’animalità, una femminilità offesa o lo «Spirito del mondo», il perturbante di Ortese agisce in profondità ed esemplarmente proprio perché asimmetriche e incomplete, sbavate, sono le vicende entro cui agisce; e gli evidenti limiti strutturali dei suoi romanzi arginano i rischi «lirici» e «profetici» d’una scrittura il cui messaggio – apparentemente facile, apparentemente definito – in realtà muta continuamente sotto i nostri occhi.
Ed è un versante, questo, su cui è possibile collocare anche la parte più sofferta e polemica dell’opera di Michele Mari. L’apologo gotico di Di bestia in bestia (più ancora che il godibilissimo gioco, cioè pastiche, di Io verrò pien d’angoscia a rimirarti), l’irrequietezza paradossale e sconfortata di parecchi racconti contenuti in Euridice aveva un cane (1993) e in Tu, sanguinosa infanzia aggrediscono la nostra realtà, e magari anche – ma proficuamente – il lettore alla ricerca di emozioni epidermiche. E l’ aggressione, lo shock sono quelli determinati da una sensibilità latamente postmoderna, capace di restituire un reale grottesco e stratificato, complesso e doloroso, tanto più minutamente notomizzato quanto meno amato. Obiettivo questo che, con strumenti letterari e stilistici assai meno smaliziati, ma con un di più di giocosità umoristica tutt’altro che p rodi ve all’ottimismo, è riscontrabile in un autore all’apparenza così lontano da Mari come Stefano Benni: assiduo contaminatore, manierista e appunto postmoderno, di generi e stili «di massa», e insieme portatore d’una polemica sociale addirittura esplicita, che, anzi, in qualche caso rischia di turbare la levità della scrittura comica.
Il punto, a ben vedere, è proprio questo: il miglior fantastico di fine millennio è forse quello che si lascia modificare, coinvolgere, polluire da media e realtà esterni, dai veri perturbanti della nostra scena letteraria, dagli orchi o vampiri o lupi mannari che maggiormente sconvolgono i sonni di critici, mamme, professori: e che con ogni evidenza sono rappresentati dai mezzi di comunicazione di massa. Se lunghissima è la serie degli sconfinamenti multimediali di Benni (oltre la sua attività di autore per la TV, mi piace anche nominare due dimenticati film come Topo Galileo – 1987 – e un Musica per vecchi animali – 1989 – con un Dario Fo e un Paolo Rossi non ancora diventati o ridiventati figure abituali dell’immaginario televisivo italiano), va pure sottolineato che non pochi lettori del peraltro notevole Poema dei lunatici lo hanno scoperto perché Fellini ne ha derivato il suo ultimo film; ed è fuor di dubbio che Dellamorte Dellamore di Tiziano Sclavi ha tratto giovamento dalla sua sovrapposizione esplicita alla serie fumettistica di Dylan Dog (e al film, Nero, tratto dall’omonimo romanzo, che sarebbe uscito l’anno successivo). Il fenomeno è tanto più interessante perché coinvolge la letteratura in direzioni non del tutto prevedibili. Così, mentre il letteratissimo Mari scrive omaggi espliciti al fumetto e alla fantascienza (anzi, per la precisione, alle copertine di «Urania»), sappiamo che il fumettaro Hugo Pratt negli ultimi anni di vita aveva pensato di «tradurre» in mera letteratura le storie del suo Corto Maltese (da cui i due titoli, Una ballata del mare salato, del 1992, e Corte Sconta detta Arcana, del 1996); mentre Sclavi «introietta» nei propri romanzi tecniche cinematografiche (oltre che in Dellamorte Dellamore, per esempio in Nero e nel «giovanile» Film del 1974),e Benni si mette in scena come lettore, voce recitante le proprie opere in versi, insieme con un musicista come Paolo Damiani. Certo, bisognerebbe distinguere tra chi usa aspetti della cultura di massa dall’esterno, in modo per lo più effettistico, epidermico, quasi automatico e passivo, e chi invece sceglie di farli !evitare dall’interno della propria opera, di trasformarli in struttura profonda (vera e propria arrière-pensée del testo), in combinazione con (se non in opposizione strategica a) le molte altre forme della propria enciclopedia espressiva. Il che equivale, insomma, a separare le strategie di chi coattivamente subisce le molte lingue estetiche della postmodernità, e chi le padroneggia, le manipola, infine sintetizzandole in letteratura.
Lo ha scritto Mari con la massima chiarezza, anche se è una chiarezza di specie con ogni evidenza allegorica: «Forse il sogno più grande della mia vita fu quando Robert Louis Stevenson venne a chiedermi se potevo prestargli un po’ dei miei Urania» (Tu, sanguinosa infanzia, p. 25). Come fra bambini, scambiandosi e cedendosi oggetti, confondendo la fisionomia dei rispettivi posseduti. Solo debordando dai confini d’una letterarietà paga delle proprie norme chiuse, e accogliendo dentro di sé l’altro dei tanti generi e media fantasticanti che agiscono nell’immaginario postmoderno, la letteratura, oggi, può restituire in modo autentico lo stupore e la meraviglia, ma soprattutto la perplessità inquieta, ondeggiante e turbata, che da un paio di secoli almeno a questa parte è il tratto distintivo dell’esperienza fantastica.