Romanzo poliziesco: enigmi in serie, thriller e «corti»

Il giallo italiano è ormai diventato di moda: si è infiltrato anche in generi e modelli di scrittura apparentemente lontani; raggiungendo livelli di diffusione ragguardevoli e allargando il ventaglio dell’offerta, dai romanzi a enigma di Camilleri al noir di Lucarelli alle short stories sul modello dell’ormai classico Scerbanenco.
 
Il successo, a volte, fa bene. Stimola la creatività, spinge a sperimentare nuovi schemi, induce ad allargare e a diversificare l’offerta. Anche in campo letterario: dove sempre più di rado si ritrova l’originalità pensosamente nascosta o rinchiusa in appartate sperimentazioni d’avanguardia (ammesso che di avanguardia si possa ancora parlare in epoca postmoderna) e sempre più spesso la si riscontra invece proprio nel cuore dell’industria culturale, talora collocata addirittura ai vertici delle classifiche dei best sellers o illuminata dalla luce curiosa e chiassosa dei grandi media. Prendete il caso della cosiddetta narrativa «gialla»: il processo di sdoganamento del genere, faticosamente avviato nel corso degli anni Ottanta, dopo decenni di ostracismo più o meno esplicito e palese da parte delle élites intellettuali e degli apparati giornalistico-accademici dell’establishment letterario, nel corso degli anni Novanta è finalmente giunto a maturazione e ha prodotto frutti abbondanti e succosi. Tanto che il giallo è diventato di moda, si è infiltrato anche in generi o in modelli di scrittura apparentemente lontani dalla sua standardizzata iteratività e ha raggiunto livelli di diffusione e di consumo davvero ragguardevoli. Non solo: proprio il successo – non del tutto scontato – ha allargato il ventaglio dell’offerta, ha spinto autori e editori a tentare strade inedite e ha facilitato – proprio grazie alla quantità di titoli prodotti – anche l’emergere di opere contrassegnate da indiscutibili qualità e originalità.
Tre sono i modelli che tendenzialmente, all’interno di questo processo, sembrano in grado di imporsi sugli altri:
1. la ripresa del classico «giallo a enigma», insaporita da ambientazioni e caratterizzazioni provinciali di indubbia suggestione e imbastita su un uso colto della lingua che si riallaccia per molti versi alla lezione di Carlo Emilio Gadda o di Leonardo Sciascia;
2. l’affermazione – più volte tentata ma quasi sempre abortita in passato – di un modello di noir italiano capace di raccogliere le atmosfere e le suggestioni del miglior thriller internazionale (da James Ellroy a Thomas Harris), ma adattandole alle necessità di un’ambientazione volutamente «locale»;
3. il recupero del racconto breve (o della short story) come strumento di particolare efficacia per «mordere» in presa diretta le contraddizioni e le aporie della società italiana, sulla scia di un modello che risale – nei primi anni Sessanta – ai racconti fulminanti contenuti nelle raccolte Centodelitti o Milano calibro 9 di Giorgio Scerbanenco.
Il primo modello è quello praticato con maggior successo da Andrea Camilleri: il suo ciclo di romanzi incentrato sulla figura del commissario Salvo Montalbano, di stanza nella cittadina siciliana di Vigàta (uno dei luoghi immaginari più credibili di tutta la letteratura italiana contemporanea), è il più bel serial poliziesco che la nostra narrativa abbia saputo produrre dai tempi del ciclo di Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco. Meno algidi dei racconti della saga di Renato Olivieri dedicata al commissario Ambrosia e più coinvolgenti dell’epica quotidiana che faceva da sfondo alle avventure investigative di Sarti Antonio nei gialli di Lariano Macchiavelli, romanzi come La /orma dell’acqua, IL cane di terracotta o IL ladro di merendine hanno il pregio non trascurabile di saper inventare un mondo e di dispiegarlo con avvincente limpidezza davanti agli occhi del lettore. Abilissimo nel gioco di variazioni sull’identico che lega un racconto all’altro attraverso una fitta rete di rimandi, allusioni, riprese e concatenazioni, Camilleri è l’unico vero narratore seriale del poliziesco italiano contemporaneo: per l’abilità con cui in tesse i suoi intrecci a scansione geometrica, per la felicità con cui sa caratterizzare i personaggi con rapide pennellate di colore o con sapide notazioni comportamentali e per l’efficacia di una lingua sintatticamente italiana ma infarcita di voci idiomatiche e vernacolari che conferiscono un leggero sapore «esotico» – quasi un’idea di lontananza etica prima ancora che geografica o ideologica – alle avventure del suo commissario insofferente della burocrazia, capriccioso nella scelta dei metodi investigativi e incapace di resistere alle tentazioni gastronomiche più «pesanti» della cucina siciliana. Complessivamente estraneo ai modelli corrivi di poliziesco siciliano codificati da una serie televisiva come La piovra, Camilleri racconta una Sicilia demafiosizzata in cui la forte caratterizzazione locale dell’ambientazione è direttamente proporzionale alla delocalizzazione diegetica degli intrighi delittuosi che diventano oggetto di racconto. I crimini e i misfatti su cui Montalbano si trova infatti a indagare non posseggono quasi nessuno dei connotati convenzionali della criminalità mafiosa, raramente hanno a che fare con l’onore o con la guerra fra clan, e si offrono piuttosto al lettore come paradigmi di una malvagità delittuosa che affonda le sue radici più nel terreno dell’antropologia che in quello della geografia. Ma proprio in questo inedito impasto, e nella scelta di raccontare «misteri» non specificamente siciliani in un contesto ambientale che è invece descritto con tratti di fortissima caratterizzazione regionale, sta forse uno dei motivi (e dei segreti) del suo successo.
Il modello del noir trova invece la sua realizzazione più compiuta nel lavoro di Carlo Lucarelli e – segnatamente – in un romanzo come Almost Blue, sicuramente uno dei testi più suggestivi di tutta la narrativa italiana del decennio. In precedenza Lucarelli si era misurato per lo più con il giallo storico, costruendo congegni narrativi molto rigorosi ambientati in prevalenza nell’Italia degli anni Quaranta, sullo sfondo epocale della Repubblica di Salò. Con Almost Blue approda invece direttamente alla contemporaneità e la racconta con un registro stilistico teso e nervoso, capace di farsi carico di tutte le suggestioni d’intreccio e di linguaggio messe a punto dal cosiddetto psycho-thriller di scuola americana. L’azione si svolge a Bologna e in Emilia, in quella gigantesca megalopoli che va da Parma a Rimini e che si distende frenetica e febbricitante dall’Appennino al mare. Tre le voci narranti, che si alternano nei vari capitoli del libro sempre in «soggettiva»: un ragazzo cieco che «spazza» la città con lo scanner e ne capta i suoni, i rumori, le urla e i brusii; una giovane agente della Questura di Bologna che si trova a dover far convivere la sua sensibilità femminile con l’universo prepotentemente e ostentatamente maschile della Polizia; infine un giovane serial killer che si fa chiamare Iguana, assetato di sangue, che assume l’identità delle sue vittime e corre per la città sparandosi nelle cuffie del walkman sempre acceso le note più acide e metalliche del rock duro. Congegnato come una partita a tre, o come un concerto jazz eseguito da tre solisti su strumenti diversi, Almost Blue si regge su un intreccio narrativo tutto sommato abbastanza canonico: l’Iguana colpisce a ripetizione, spinto dalla furia omicida che lo possiede e dalle «campane dell’inferno» che risuonano senza requie nelle sue orecchie; la poliziotta gli dà la caccia invano, osteggiata dalla diffidenza dei colleghi spesso ottusi o prevenuti; e il ragazzo cieco, che non conosce i colori ma capta le voci oscure della città e le decodifica, diventa decisivo nel gioco di caccia e fuga. A volte la scrittura di Lucarelli si fa così tesa e nervosa che sembra di essere nella succursale emiliana di un incubo come quello narrato in Il silenzio degli innocenti di Thomas Harris: stessa capacità di dar corpo all’inquietudine e all’allucinazione, stessa qualità coinvolgente e ipnotica del ritmo e dello stile. Poco importa se nel finale concitato qualche dettaglio appare non del tutto risolto: al noir il lettore non chiede né esattezza né ordine, quanto la capacità di evocare il caos (emotivo, affettivo, relazionale) e di dargli l’impressione di viverci dentro. Lucarelli ci riesce, e vince. Indicando una strada che potrebbe produrre fecondi sviluppi in futuro.
Resta da accennare al terzo modello (quello del racconto più o meno breve), che ha conosciuto negli ultimi anni una frequentazione abbastanza intensa e declinata sui registri più diversi. Si va dal thriller con venature splatter perseguito da Paolo Di Orazio in Primi delitti, dove undici adolescenti «devianti» raccontano in prima persona, con un tono che oscilla fra l’odio e il delirio, la loro prima esperienza omicida, al progetto più ambizioso di Piero Colaprico in Kriminalbar: dieci racconti conclusi e compiuti, ma legati da una sottile rete di continuità spazio-temporale, che mettono a fuoco un ritratto mosso e vivace della nuova malavita metropolitana. Nel suo mondo cinico, livido e feroce, con una scrittura rapida e incalzante, Colaprico narra di truffe e ricatti, di sequestri e scannamenti, di rapine ed evasioni. La misura «corta» non solo si addice in modo particolare al tono complessivo della materia narrata, ma intercetta anche le abitudini fruitive di un pubblico di massa che anche al di fuori dall’ambito strettamente letterario (si pensi al successo di forme come il clip, lo spot o il cortometraggio filmico) appare sempre più desideroso di testi a forte tasso di intensità emotiva ma dal consumo rapido e teso. In questa prospettiva, il modello del racconto appare dunque in perfetta sintonia con il sistema di attese e con i bisogni collettivi. Anche se al termine della lettura, come alla fine di un libro di racconti di Scerbanenco, il lettore ha come l’impressione di aver incontrato qualcosa di più di semplici frammenti di narrativa a suspense. Forse, tra le righe, ha perfino la sensazione di aver intercettato una delle forme contemporanee del male di vivere. O una nuova e amarissima «cognizione del dolore».