Romanzo sentimentale: l’amore degli adulti

Difficile da definire non solo per la sua destinazione stratificata ma anche per la sua duttilità tematica, il romanzo sentimentale ha mantenuto intatta la capacità di coinvolgere il suo pubblico, seppure attraverso vicende e personaggi nuovi rispetto alla tradizione: ora sono le figure adulte a dominare la scena, mentre ai giovani; un tempo veri protagonisti, è destinato un ruolo secondario e di semplice supporto.
 
«L’amore degli adulti, mi dissi, è complicato e pesante, meglio non fidarsene» (Claudio Piersanti, L’amore degli adulti).«E quando, poi, davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta… Stai ferma, in silenzio e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va dove lui ti porta.» (Susanna Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore). Basterebbero queste due citazioni a esemplificare la varietà di registri tonali entro cui si dibatte il romanzo sentimentale nei suoi esiti più recenti: la ritrosia perplessa non priva di autocommiserazione ironica e l’appello generico ma accattivante all’autenticità affettiva individuano poli opposti nell’ambito di un universo composito e stratificato, popolato di voci dissonanti. Difficile tracciarne una mappa ma è possibile, almeno, scorgerne un orientamento significativo: si tratta ancora oggi di una produzione di successo, in grado di coinvolgere, con modalità diversificate, larghi strati di pubblico. L’appello ai sentimenti risulta coinvolgente anche a fine millennio e la leggibilità sembra prerogativa connaturata alla scrittura che indaga nel mondo degli affetti: il successo imprevedibile e duraturo di Va’ dove ti porta il cuore e la sostanziale tenuta sul mercato della letteratura rosa seriale dimostrano la vitalità del genere sentimentale a tutti i livelli della sua variegata produzione. Eppure, proprio se si tenta di riscostruirne la fisionomia composita, il genere si rivela sì articolato ma anche fluido e sfuggente. Le gerarchie, ad esempio, sembrano apparentemente identificabili con chiarezza, eppure si rivelano quanto mai reversibili. Immediatamente riconoscibile il livello più basso della produzione sentimentale, ormai da un ventennio consegnata alle strategie editoriali abili e consolidate del rosa seriale, collezioni Harmony in testa. Anzi, la letteratura romantica d’evasione ha ormai rimosso ogni imbarazzo ed esibisce con disinvoltura la propria funzione di intrattenimento, invitando a un consumo consapevole, non più destinato solo a un pubblico ingenuo e marginale. Può persino sbarazzarsi delle convenzioni tradizionali e compiere sortite spericolate sul terreno prima proibito della pornografia. Eppure la narrativa sentimentale di maggior prestigio è estranea a tale spavalderia, anzi, avverte la sdolcinatura «rosa» come un rischio sempre incombente, un marchio d’infamia da evitare con attenzione accurata. Al noto best-seller della Tamaro è stato imputata l’accusa di essere un romanzo rosa e tali appaiono, a giudizio di molti, i romanzi di Maria Venturi. Ma le ambiguità non riguardano soltanto il giudizio di valore. A rendere difficoltosa la definizione del genere sentimentale concorre non solo la sua destinazione stratificata ma anche la sua innegabile duttilità tematica. Già Maria Pia Pozzato, nel 1982, a proposito del romanzo rosa, rilevava le difficoltà di definire un genere il cui motivo dominante, l’intreccio amoroso, è di per sé elemento assai labile di riconoscibilità specifica. Si parla d’amore, si sa, in tutti i romanzi. li romanzo rosa, in tempi recenti, non se ne è fatto, per la verità, un problema, anzi, ha saputo sfruttare la permeabilità fluida dell’intreccio sentimentale per assumere i travestimenti più scintillanti e impadronirsi di ogni offerta possibile dell’immaginario romanzesco, dall’avventura esotica o western allo scenario gotico o d’epoca. Al confronto le evoluzioni del romanzo sentimentale medio-alto sono senz’ altro meno spericolate, ma non meno insidiose. A metterne in discussione l’identità non sono i flirt inevitabili con i generi narrativi affini e di volta in volta alla moda, dal neoromanzo di formazione al romanzo storico o alla saga familiare. La questione di fondo è un’altra e si risolve, piuttosto, in un interrogativo perplesso: è ancora la dominanza dell’intreccio amoroso, tra giochi di coppia, triangoli, congiunzioni e separazioni a definire la riconoscibilità del romanzo sentimentale odierno? Più spiccata, per la verità, appare la tendenza a puntare sul pathos dei sentimenti, sul gioco complesso delle relazioni affettive che complicano ma danno anche significato all’esistenza. Del resto neppure le sollecitazioni dal basso, lo abbiamo detto, risolvono le ambiguità del campo di indagine. E se è ormai assodato che il marcato protagonismo femminile, il motivo del confronto polemico tra i sessi, il gioco estenuante della seduzione e del diniego, l’happy end d’obbligo siano i materiali riconoscibili di costruzione della trama rosa, è anche innegabile che risultino ormai continuamente messi in discussione da una produzione commerciale sì ma ugualmente spregiudicata, persino disposta a mettere in piazza il gioco sporco della sollecitazione e della rimozione erotica. Così, sul finire del secolo, il rosa seriale arriva a compiere l’esperienza del limite, dimostrando nei suoi esiti «hard» il coraggio di sbarazzarsi proprio degli effluvi caramellosi in cui era da sempre invischiato. Ma i sentimenti sono ancora un fardello ingombrante per la narrativa di maggiore impegno, che alla loro indagine presta registri diversificati di scrittura.
Siamo prossimi talvolta alle soglie dell’intrigo rosa più tradizionale. E il caso della vasta produzione romanzesca di Maria Venturi, che ha riversato nei suoi numerosi romanzi l’esperienza senza dubbio utile di direttrice di rotocalchi femminili e, in seguito, la familiarità con la sceneggiatura televisiva. La narrativa della Venturi sembra riprendere dal rosa il motivo fondamentale dell’intreccio, ossessivamente incentrato sul tema del conflitto tra i sessi, sul connubio tra aggressività immotivata e autolesionismo esasperato. Anzi, nei romanzi della scrittrice il masochismo femminile celebra i suoi trionfi, ispirando con accanimento ostinato la condotta delle protagoniste: così Laura, eroina di L’amore stretto o Chiara, protagonista di La storia spezzata e di Un’altra storia, concentrano le energie in un gioco tenace al massacro, a danno dei rispettivi matrimoni. Rispetto alle convenzioni del rosa ci sono, però, alcune novità e diverse inutili complicazioni. Le complicazioni inutili rimandano allo psicologismo banale e fastidioso, da rotocalco appunto, con cui l’autrice si sforza di dar spessore al rovello interiore dei personaggi. Più interessanti le differenze: spiccano la preferenza accordata a matrimoni già consumati, punto di partenza e non più epilogo dell’intreccio, nonché il protagonismo privilegiato di figure femminili mature, per di più spesso sterili o, comunque, angustiate da problemi di infertilità. Tutti aspetti che basterebbero da soli ad allontanare i personaggi femminili della Venturi dal cliché dell’eroina «rosa», se non se ne profilasse uno più sostanziale: le donne della Venturi non ne condividono la strategia seduttiva, l’attivismo alacre unidirezionalmente mirato alla conquista del maschio. Per loro, invece, l’amore è passione cieca, una forza ineluttabile cui sottomettersi supinamente, sforzandosi, caso mai, di esaltarne l’effetto devastante. Accolti con discreto favore dal pubblico femminile ma di fattura mediocre e, comunque, incapaci di fare tendenza, contribuendo quanto meno al rilancio di una letteratura romantica d’autore, i romanzi della Venturi propongono, però, alcune costanti tematiche rinvenibili anche in testi di maggiore spessore e di destinazione più elevata. Può trattarsi di una semplice coincidenza ma stupisce, ad esempio, la rilevanza che il motivo della fatalità della passione acquista in testi di tipologia e qualità di scrittura assai diversi. E non si tratta soltanto della mitologizzazione banale del colpo di fulmine, ma della percezione di una forza oscura che incombe sui personaggi, predeterminandone le scelte e condizionandone le relazioni. Così è per i protagonisti della tragedia provinciale narrata in Il caso Courier di Marta Morazzoni, storia di una relazione adulterina che un commerciante, Monsieur Courier, riesce a coniugare con un ménage matrimoniale piatto e tranquillo fino a quando la morte accidentale dell’amante non lo spinge a un gesto definitivo e disperato. Succube rinunciataria rispetto a un destino incrementato da ipocrisie e incomprensioni familiari è anche Chiara, la protagonista di Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia, che si iscrive, peraltro, nell’albo delle evocatrici attempate di saghe familiari. E se i due romanzi citati costruiscono attorno alla vicenda sentimentale ambienti di maniera, ma socialmente e localmente definiti, la provincia francese piuttosto che la campagna meridionale, in altri casi prevale l’indefinitezza suggestiva della storia paradigmatica. Così è per i protagonisti maschili dei due racconti di Roberto Piumini raccolti in Le virtù corporali, nei quali l’esperienza dell’incontro con la donna, narrato in un registro ora lirico-evocativo ora onirico-visionario, si configura come esperienza del limite, impatto con un’apparizione angelica che scompiglia le vite dei personaggi inducendoli a confrontarsi con le dimensioni archetipiche della vita e della morte. È un’esperienza del limite anche quella narrata in Vissi d’amore di Paola Capriolo, che si ispira liberamente alla vicenda della Tasca di Puccini, raccontata dal punto di vista del malvagio, il perfido barone Scarpia. Raffigurata in registri e contesti affatto differenti, la relazione amorosa è, comunque, dominio di forze misteriose, che il destino o l’indecifrabilità delle pulsioni interiori contribuiscono a complicare. Più che narrarne pianamente lo sviluppo, la scrittura romanzesca, pur variamente modulata, si sforza, in questi casi, di evocarne la genesi arcana. L’esito non è forse nemmeno un romanzo sentimentale, ma un romanzo della passione, intesa come attrazione misteriosa o inevitabile appuntamento con il destino.
Ma c’è un’altra ragione per cui la tecnica della ricostruzione, affidata al recupero memoriale o allo studio biografico, risulta il registro narrativo prevalente. Ed eccoci di fronte all’altro elemento qualificante dell’odierna narrativa sentimentale. Le storie sentimentali degli anni Novanta sono storie di amori adulti e, in questo senso, la già citata raccolta di racconti di Claudio Piersanti, L’amore degli adulti, inaugura una vera e propria stagione. La generazione dei quarantenni, non ancora sicuri della propria identità, relitti postgiovani di relazioni già fallite, è l’attrice principale dei racconti sentimentali, concentrati sul tentativo di raccogliere brandelli di passato o di registrare gli sforzi compiuti dai personaggi per aggirare lo scoglio della solitudine e della diffidenza. Di qui la varia casistica narrata, con uno stile ben giocato tra pathos contenuto e autoironia sottile, dal Piersanti, la cui opera si impegna, peraltro, a far saltare un altro luogo comune diffuso sulla letteratura sentimentale: la convinzione che si tratti, a tutti i livelli, di un circuito esclusivamente femminile tanto nella produzione quanto nella fruizione. Le voci maschili appaiono, invece, senz’altro minoritarie ma non assenti, come dimostrano i casi di Piersanti e del già citato Piumini. E se talvolta si attardano a riproporre i temi tipicamente novecenteschi della crisi della virilità, non mancano di individuare anche la strada di una possibile solidarietà tra i sessi, che passa attraverso la condivisione sofferta dell’isolamento e della marginalità.
La vita sentimentale dei quarantenni è, comunque, il soggetto privilegiato anche sul versante femminile. Lo confermano, ad esempio, le opere più recenti di Lidia Ravera, dalla raccolta di racconti Sorelle all’ultimo romanzo Maledetta gioventù, tutti incentrati su storie di matrimoni in crisi, di trasgressioni adulterine tentate e poi rientrate, di fughe e separazioni, sullo sfondo dei contesti familiari forzatamente anticonvenzionali tipici della generazione di mezzo. «La mia vita prende forma soltanto quando il passato soverchia il futuro. La mia vita ha forma e questa forma è il fallimento delle mie sporadiche corse. La tua vita ha forma: tu hai sempre corso, tu hai unito al sogno la costanza e ti sei forgiata un destino». Così scrive, in una lettera immaginaria alla moglie, Carlo, il protagonista maschile di Maledetta gioventù, storia di un viaggio e di una permanenza: viaggia Linda in fuga dal marito che l’ha tradita con una studentessa e che, rimasto invece a casa, deve gestire l’ansia dell’abbandono, i rapporti difficili con i figli, le smanie della giovane amante occasionale. Le parole di Carlo suonano emblematiche, se riferite non tanto alla vicenda narrata ma alla fisionomia della narrazione stessa. Le storie sentimentali recenti sono costrette a prendere le distanze dal racconto di formazione vero e proprio. Una distanza non definitiva ma imbarazzata e inevitabile. La vicenda sentimentale non è più l’esperienza centrale di una giovinezza incompiuta che, proprio attraverso il rapporto con l’altro sesso, porta a termine un processo formativo. Qui se di incompiutezza si tratta, la condizione tende quanto meno a cronicizzarsi e la scrittura romanzesca non può evitare di fare i conti con tale mutata prospettiva. Se l’intreccio rosa ha sempre rispettato i tempi e le tappe di una fiaba di iniziazione femminile, i romanzi sentimentali di maggiore impegno degli anni Ottanta si adattavano facilmente anch’essi all’impianto del romanzo di formazione. Ci si trovava caso mai di fronte a casi di formazioni fallite, i cui protagonisti faticavano a liberarsi dai nodi ingombranti dei legami parentali. Ma di giovani pur si trattava. Ora invece sono le figure adulte a dominare la scena: ai giovani è destinata una parte secondaria, un ruolo filiale di totale supporto, assorbito com’è dalle beghe della coppia genitoriale in primo piano.
Anche la scelta di delegare al punto di vista giovanile la funzione narrativa corrisponde semplicemente all’espediente di puntare sulla focalizzazione dal basso: così avviene nel racconto Sorelline che apre Sorelle, la raccolta già citata della Ravera, o in alcuni episodi di Maledetta gioventù, in cui si assume l’ottica dei figli alternandola a quella dei genitori. E l’imbrigliamento dei giovani nel ruolo filiale è confermato dal trattamento riservato all’unica figura giovanile estranea a tale condizione: Mimì, la giovane amante di Carlo, il cui nome da operetta già suggerisce il registro della deformazione ironico-grottesca in cui si iscrive il personaggio.
Certo il protagonismo dei quarantenni potrebbe rivelarsi un adattamento epocale più che una svolta sostanziale; nulla di più di un percorso evolutivo spiegabile in termini sociologici, imputabile al fenomeno attuale della maturazione ritardata o all’appartenenza generazionale degli stessi scrittori. L’età adulta potrebbe semplicemente soffrire dei limiti di una giovinezza prolungata, incapace di vivere i propri lutti e perciò pervasa della stessa condizione di incompiutezza della giovinezza fisiologica. Colpisce però la riluttanza ad affrontare l’indagine della crisi. Lo scavo nell’interiorità è, invece, abilmente eluso. I quarantenni in crisi, quando non si fanno raccontare dagli altri, evitano di parlare di sé: diventano narratori di formazioni rovesciate, biografi accurati, impegnati a ricercare nelle storie familiari i significati e i valori in cui riconoscersi. A volte sono ancora i rapporti parentali a risultare ingombranti e invasivi, com’è, ad esempio, per la protagonista di I: amore molesto di Elena Ferrante, la cui ricerca, tesa a far luce sulla morte misteriosa della madre, assume le movenze del racconto giallo, ma si risolve nella ricostruzione di una storia d’amore senile, che cattura la narratrice nel gioco morboso di identificazione con la figura materna.
Il filone più significativo, però, tende a mettere tra parentesi la contiguità generazionale. Ancora una quarantenne è, ad esempio, la narratrice di Il catino di zinco di Margaret Mazzantini che, nel tracciare una sorta di biografia post mortem della nonna Antenora, la ritrae protagonista di una singolare saga familiare. Una saga ricostruita all’insegna del salto generazionale giacché la narratrice ripercorre la storia familiare della nonna ma omette la propria e se accenna, per dovere di cronaca, alla figura paterna, passa sotto silenzio assoluto quella materna. Ed è proprio in queste saghe familiari stravaganti, dominate dalla terza età, che assume una configurazione nuova un filone non trascurabile del romanzo sentimentale odierno: a dar corpo al racconto non è tanto la vicenda amorosa, quanto una relazione affettiva forte, in tanto rassicurante in quanto coinvolge esponenti di due generazioni distanti, come è per le nonne e le loro nipoti. L’intrigo sentimentale, quando c’è, è oggetto di una narrazione di secondo grado, capitolo significativo ma destinato a integrarsi nel resoconto, carico di umori sapienziali, di un’esperienza di vita. Le condizioni del patto narrativo possono ovviamente variare, nel senso che i due attanti della relazione affettiva possono scambiarsi i ruoli. E se le nipoti narratrici sanno far uso di uno stile efficace, com’è nel caso della Mazzantini, che alterna un registro corposamente realistico a scarti visionari, le nonne si affidano più modestamente a una scrittura piana, moderatamente intrisa di pathos. Eppure non indulgono al racconto autobiografico vero e proprio, scartano l’ispirazione intimistica del libro di memorie.
L’autorevolezza del narratore attempato, nonna o zia, a seconda dei casi, non ostenta certezze né annovera successi, piuttosto azzarda consuntivi esistenziali: ma ha senz’ altro bisogno di un interlocutore, giovane, se possibile anzi giovanissimo. Il genere privilegiato non è dunque l’autobiografia ma il romanzo epistolare, cui si affida il compito quasi pedagogico di comunicare un’esperienza di vita autentica. D’obbligo il riferimento a Va’ dove ti porta il cuore di Susanna T amaro ma anche a Dolce per sé di Dacia Maraini. E non importa se nel caso del romanzo della Maraini Vera, l’autrice delle lettere alla nipote, è una zia diciamo acquisita per la destinataria, la piccola Flavia, nipote, in realtà, del suo ex compagno. Anche in questo romanzo la storia della relazione amorosa tra Vera, donna matura, e Edoardo, giovane musicista, risulta un episodio significativo sì ma compreso in un itinerario esistenziale più complesso, che attraverso l’esperienza dell’amore, del dolore, della morte chiama in causa un gioco ben più intricato di legami affettivi. Ecco che il romanzo sentimentale diviene in questi testi romanzo di sentimenti, l’essenza dei quali si riassume nell’ appello allusivo alla ricerca della propria autenticità esistenziale. E l’allusività ammiccante non può che risultare l’unica cifra stilistica possibile per un appello siffatto. Se non è chiaro dove porti il cuore, è perché un simile itinerario sentimentale è tracciato da un’autorevolezza vacillante, artificiosamente assicurata dall’età attempata del narratore. La pretesa di suggerire una pedagogia dei sentimenti, proposta con dimessa bonarietà, rischia di rivelarsi un abile camuffamento: «Tu stai crescendo con tale rapidità, Flavia, che io non so più a chi sto parlando. Non so nemmeno se quella bambina non sia semplicemente una parte di me che si affaccia timidamente ai bordi della memoria di un corpo che invecchia» (Maraini, Dolce per sé). Si insinua il dubbio che il coinvolgimento di un destinatario giovane non sia che un pretesto per sostanziare di significati sapienziali la ricerca di se stessi, aggirando lo scoglio della confessione autobiografica. Un alibi solido per mascherare un atteggiamento che ha spesso ispirato la scrittura femminile, intervenendo a condizionare i meccanismi del testo: l’identificazione narcisistica. Per smontarlo occorre forse ripartire dal basso e accettare senza pregiudizi la spudoratezza onesta dell’odierno romanzo rosa.