Romanzo storico: siamo in un’età iperstorica

L’interesse narrativo per la mistura di storia e d’invenzione non è mai cessato, ma le forme dell’immaginazione si sono via via diversificate seguendo le correnti del pensiero novecentesco e il mutamento dei saperi. È possibile che ora il romanzo storico diventi un nuovo e sperimentale laboratorio
 
1. A proposito di Q, il romanzo più irritante del 1999, Adriano Prosperi, ragionando su Qoelet, nome in codice dell’agente del cardinale Carafa che si firma Q., ne ha tratto argomenti per rilevare che questo romanzo storico, dove siamo richiamati al messaggio dell’Ecclesiaste, è frutto di una negazione della storia. Ma è così? Due sono gli eroi del laborioso intreccio: non solo Qoelet, martello di eretici e contadini, ma il nemico che gli sopravvive e che, dopo la micidiale babele europea, approda infine fuori d’Europa a un confortevole tepore (bagno turco e narghilé). Suo è lo scandaloso augurio, datato Natale 1555 da Istanbul: «Possano i giorni trascorrere senza meta». Sua l’ingiunzione conclusiva: «Non si prosegua l’azione secondo un piano». La coerenza non è virtù romanzesca. Irrompono il caso e gli individui a sgangherare l’eterno piano, o di Dio o del Papa, o dell’Impero o della Chiesa, o di principi o di repubbliche, o di Stati o di affari. Risuonano voci plurime, orchestrate in un abbassamento stilistico con punte un po’ triviali che simulano la presunta koiné dei lettori. («Porci bastardi, amici dei Giudei rottinculo!», schiamazza un certo Mulo, sicario in Venezia, durante una resa dei conti il 5 novembre 1551: quasi fossimo in un romanzo di tifoserie). Intanto Luther Blissett ha pubblicato da Derive/Approdi nel marzo 1999 un saggio con titolo e sottotitolo espliciti, Nemici dello Stato. Criminali, «mostri» e leggi speciali nella società di controllo. Un settario saggio o pamphlet, che riassume gli ultimi vent’anni di storia italiana e, stando dalla parte dei latomici navigatori di Internet, addita nel processo inquisitorio, rafforzato dalla demonizzazione mediatica, il principale strumento repressivo dello Stato e della Chiesa-stato. Nemici dello Stato mette in luce il fondamento politico di Q. Se torna il romanzo storico, torna dunque a valere la risposta che Italo Calvino dava a «Nuovi Argomenti» nel 1959: «Il romanzo storico può essere un ottimo sistema per parlare dei propri tempi e di sé». Quanto però al fondamento strutturale, bisognerà ancora interrogarsi sulla decisiva domanda: «Credete che sia possibile ricostruire vicende e destini che non siano puramente individuali?» Senza meta (dice il romanzo del 1999). Non secondo un piano. Perduto il senso della totalità.
2. Nel collettivo Luther Blissett gli autori dichiarati di Q sono quattro bolognesi fra i 25 e i 36 anni: Fabrizio Pasqualino Belletati, Giovanni Cattabriga, Luca Di Meo, Federico Guglielmi, esordienti subito portati allo Strega. L’autore di Bella vita e guerre altrui di mister Pyle, gentiluomo è Alessandro Barbero, che ha 36 anni quando nel 1995 pubblica il finto diario di un finto testimone, l’americano Pyle, inviato da Washington a Berlino durante le guerre napoleoniche. È il primo romanzo di un medievista che (per ora) non scrive romanzi sul Medioevo; andato allo Strega e subito vincitore. Le carte d’identità smentiscono il pregiudizio che gravava sul romanzo storico: forma istituzionale del rapporto fra letteratura e storia, di tradizione ottocentesca e imparentata con l’ambigua nascita della nazione. Un genere che sembrava rivolto alla continuità; affidato al successo di Eco e all’estro dei professori; o all’impronta archivistica e regionale di Sciascia; o a storie di famiglia, tempo biologico contro il tempo storico, da Natalia Ginzburg (con La famiglia Manzoni, 1983) a Rosetta Loy con Le strade di polvere (1987), a Isabella Bossi Fedrigotti, a Marta Morazzoni. Nell’inventario della nuova narrativa italiana steso da Raffaele Cardane, Franco Galato e Fulvio Panzeri in Altre storie (1996), dei dieci percorsi di lettura ritenuti indicativi dell’innovazione, nessuno riguarda il genere storico e, su oltre 150 titoli schedati, soltanto sei o sette qua e là incrociano la storia e soltanto due o tre il romanzo storico: La chimera, 1990, di Sebastiano Vassalli e Sostiene Pereira, 1994, di Tabucchi, nella categoria sospetta dei bestseller «in classifica»; e Il gioco dei regni, di Clara Sereni, negli «universi femminili» in mezzo ai quali però contraddice la pigra asserzione corrente del rifiuto femminile della storia. Barbero e Luther Blissett mostrano invece che si può essere nuovi e agguerriti, e tuttavia scegliere un’azione narrativa che proprio con il genere si misura. E spremerne lo stesso succo servendosi di tecniche opposte. Luther Blissett non lesina nell’invenzione e non si cura di questioni narratologiche; e, mentre trascina il lettore affannato nell’andirivieni di tempi e luoghi, s’ispira al romanzo di spionaggio, al thriller, al feuilleton; e, nelle cose di sesso, a un immaginario ribaldo: «Il vento ha sciolto alcune ciocche dall’ acconciatura, senza togliere nulla al fascino di donna, donandole anzi un’aria sensuale che prende al basso ventre e al cuore». Al contrario, l’ironia è sottesa alla settecentesca voce di Pyle, che governa linearmente le 650 pagine della scrittura e i tortuosi itinerari del viaggiatore. Barbero, modellandosi sui testi d’epoca, attribuisce a Pyle, con rari (ironici) scarti, la mentalità sociale che può aspettarsene un lettore istruito. Ma ne sa più del personaggio, sa quel che è restato degli ebrei di Varsavia e dei monumenti di Dresda: confusione della vita e generale insensatezza sono perciò l’effetto del libro.
3. Prosperi ha scritto, sugli autori di Q, che i romanzieri, dopo aver rubato agli storici i personaggi e le informazioni, tolgono alla storia, appiattendola nel presente, «ogni speranza di mutamento reale, di progresso». Edoardo Tortarolo è intervenuto su Bella vita per ribadirne il carattere affabulatorio, paradossalmente accentuato dall’immissione massiccia di storia: troppi eventi e incontri, tutti verosimili, tutti significativi! Girolamo Imbroglia è intervenuto sul rapporto fra presente e passato nel romanzo di Enzo Striano Il resto di niente (uscito in silenzio nel 1986 e ristampato con successo nel 1999), obiettando che Striano investiva i giacobini napoletani dei propri sentimenti di intellettuale comunista deluso. Luisa Passerini ha recensito Il gioco dei regni, resoconto dell’impegno politico, nel sionismo e nel comunismo, in tre generazioni di Sereni. È intervenuta, ancora Passerini, sulla forma del libro, sul montaggio dei documenti storici tenuti distinti dal testo narrante che veicola la memoria orale. E ne ha colto la criticità, segnalando l’eccesso o di sentimentalismo o di didascalismo nel situare le singole storie dentro la storia collettiva.
Ho riferito esempi di giudizi trasversali. Infatti la discussione s’accende anzitutto per il confronto fra sistemi letterari e sistemi extraletterari. Il romanzo provoca gli storici a riconsiderare la politicità dei saperi, a ridefinire lo statuto della disciplina, secondo differenziate opzioni. Luisa Passerini vede volentieri storicizzarsi una memoria che s’apre ai contributi dell’antropologia, e della psicologia e della cultura materiale, tipici di molte storiche e narratrici. Altri diffidano dell’eccesso di memoria, l’insignificante memoria. E del rischio di fine millennio per cui, di romanzo in romanzo, prevale l’impressione che la storia stessa, la narrazione storica, sia un soggettivo romanzo. Si profilano schieramenti aggiornati. Risulta infatti che un romanzo storico di qualche pretesa ha per forza a che fare con l’ideologia o almeno con le idee.
4. A proposito di idee o ideologie, sarebbe comodo paterne riconoscere di dominanti grazie a una dominante scelta d’epoca. A me è congeniale l’Illuminismo laico, al di qua del melodramma romantico, di Barbero. Guardo con interesse alle riprese del Settecento, che sono numerose e spesso nel genere infido della biografia: parecchie della finora rimossa Eleonora Fonséca Pimentel o anche, nel 1999, di personaggi sovrani, come Rousseau in L’ultima passeggiata, la decima incompiuta passeggiata, di Francesca Cernia Slovin, o come Casanova in Casanova e la malinconia, un «libertino moderato», di Giorgio Ficara. Ma so bene che il Pyle di Barbero è atipico e non fa tendenza, neppure per Barbero, il quale ha scelto altro periodo e registro nel successivo Romanzo russo (1998). Non c’è epoca che non abbia avuto la sua dose di riuso. Tuttavia ha attratto un’attenzione speciale il nostro cosiddetto secolo breve. Una storia ravvicinata. Un passato prossimo compromesso con il presente ed esposto a quotidiani revisionismi. Penso a Lucarelli, Pansa, Augias. Siamo ancora dentro il romanzo storico? È possibile pensare storicamente (raccontare, insegnare) il Novecento? Lascio il problema agli storici. Noto invece che un pregio del postmoderno – categoria d’obbligo per il riuso eclettico e il «nomadismo culturale» (Achille Bonito Oliva) – o meglio un pregio del discorso sul postmoderno è stato di accentuare la riflessione sul tempo: il tempo storico e la contemporanea (d’oggi) voracità.
5. Il tema della «fine della storia» ha favorito il configurarsi in atto di un’età iperstorica. Il tema, ugualmente eurocentrico, della «fine del viaggio» ha attecchito in un’età (qual è appunto la nostra) di enorme diffusione del consumo di viaggi. Se è vero che, andando per viaggi e luoghi decontestualizzati, viviamo l’apparenza della simultaneità, ma percepiamo solo il già noto che portiamo con noi, allora è plausibile che pure questo tema della fine dei viaggi (i quali poi non finiscono affatto) abbia contribuito a distrarre la riflessione dallo spazio verso il tempo. L’esperienza del viaggio sembra interiorizzarsi, sento dire, in una particolare esperienza del tempo: far pausa, perdere o riprendersi il tempo, tempo della lentezza, anche della lettura (assicurano i viaggiatori), la lettura anche di un romanzo. Se la simultaneità è percepita come abbaglio, allora meglio si spiega il recupero di memoria e storia che avviene (così pervasivo) nel qui e ora, nel presente di ciascuno. Su alcuni lettori, e io sono di quelli, hanno buona presa i romanzi in cui lo scrittore stesso entra nel testo per lasciarsi osservare a contatto con la materia storica, e la narrazione reinventa due tempi, l’uno fattuale e trascorso, l’altro vivo e mentale. Penso al Del Buono di La nostra classe dirigente (1986), che porta a compimento una storia generazionale e la costruzione di sé come personaggio (l’inetto: personaggio autobiografico, personaggio del romanzo novecentesco); al Mario Spinella di Lettera da Kupjansk (1987), che assieme alla guerra racconta il formarsi del romanzo e finge alla maniera di Diderot il dialogo con il lettore; alla Dacia Maraini di Isolina ( 1985) e di La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), la quale, cercando donne altrove, sempre mette in pagina la propria figura di donna che ha saputo impadronirsi degli attrezzi maschili del leggere e scrivere; alla Sereni, che conclude il romanzo rendendo conto della ricerca svolta. Il romanzo personale e storico riesce meglio, se è guidato da una memoria o da un convincimento forte: il garbuglio del fascismo nella coscienza degli italiani (Del Buono), la ferocia della politica in tempi bui (Sereni), la paura della guerra (Spinella), un’ipotesi di libertà delle donne (Maraini). Fa spavento discutere di nuovo di idee nel romanzo? E il romanzesco non ne viene danneggiato? Eppure, è alle idee che ci fa reagire il romanzo quando incontra la storia. Si veda l’accoglienza, politica e polemica, a Sostiene Pereira, mirata sul ritorno di Tabucchi all’impegno di «produrre un personaggio» (parole sue) e sull’assai schierata rappresentazione e interpretazione delle tragedie dell’Europa fascista. Tabucchi è pervenuto a un romanzo filato dopo lunga pratica della scrittura allusiva, citazionistica, e ha avuto l’ambizione di trasferirne in Pereira gli esiti illimpiditi. Spinella aveva seguito una via simile, passando dagli strenui esercizi concettuali e formali all’intento comunicativo di un vero romanzo. Ma è toccata a Tabucchi, in un periodo più propizio, la fortuna del bestseller.
6. Chi frequenta i romanzi e l’insegnamento non può non riconoscersi nelle provocazioni dell’americana Martha C. Nussbaum, che insegna etica e diritto in tempi di multiculturalismo e i cui scritti dal 1996 vengono con tempestività tradotti e divulgati in Italia. Ha sostenuto la Nussbaum che al romanzo spetta il ruolo educativo, sociale, di combattere il pregiudizio: a causa della struttura del genere, destinato a sollecitare il rispetto del lettore «per qualsiasi storia» su cui ne attiri l’attenzione. Qualsiasi storia. E ha rafforzato tale parere con l’appoggio di un semplice concetto di «immaginazione narrativa». Il criterio empirico dell’immaginazione narrativa – che agisce a livello profondo e crea un circuito di simpatia fra scrittore, lettore e personaggio – valorizza l’importanza del coinvolgimento, un fenomeno di cui tutti abbiamo provato da piccoli la potenza e spregiato da grandi l’ingenuità. Nei romanzi che ho appena citato il coinvolgimento avviene tanto con l’autore quanto con i personaggi. La stessa forza possono avere certi tratti in microcosmi narrativi frammentari: i lampi sul passato di Giovanni Ferrara, antichista, capace di evocare romani e cartaginesi da una panchina di Chiusi (in La sosta, 1996); o le date di Laura Pariani, insegnante («le date, per me, sono essenziali per costruire i miei personaggi»), che fa parlare maestrine e dottorini e pellagrose contadine ottocentesche (nel primo e miglior libro, Di corno o d’oro, 1993). Martha Nussbaum, riabilitando lo spessore civile e morale dell’interazione fra lettore e opera, propone un’idea di lettura vantaggiosa per il romanzo storico (bella idea, ma foriera di inquietudini. Liberale, ma adatta a riaprire il dilemma su libertà o responsabilità di chi scrive).
Per concludere, ho due osservazioni. La prima è che c’è stata una fase di sgretolio del genere, il quale oggi sembra ricomporsi nella più accettata delle formule: narrazione lunga e mista di vicende inventate e veritieri eventi. Come se niente fosse successo. Come se sul romanzo non fossero passate le avanguardie. Come se fosse cessato l’obbligo, per lo scrittore intellettuale, di esibire comunque consapevolezza delle proprie teorie e strategie narrative. È cessato l’obbligo e non è calato il divieto. Fra romanzo e storia è autorizzata la presa diretta e non è vietato il ricorso a una sofisticata intercapedine. È ammesso il rientro nella convenzione del genere e non è vietato il disperdersi e l’errare.
La seconda osservazione è che il romanzo storico può prestarsi a uno sperimentalismo complesso e tendenzialmente conoscitivo. Vorremmo aspettarci molto dal passato riveduto attraverso una nuova immaginazione che cresca nel mutamento attuale delle cose, delle culture e delle relazioni fra culture. Da un genere che presuppone la narrabilità di reali o possibili avventure collettive. Per ora sul banco del libraio vedo che continuano ad affollarsi i titoli di Andrea Camilleri, fra i quali i due recenti della serie storica, La concessione del telefono (1998) e La mossa del cavallo (1999). È bravo, il vecchio e civilissimo Camilleri, nel lavorare d’invenzione sulla trama delle prime inchieste postunitarie e nel districarsi da Sciascia e da Consolo declinando in classico divertimento l’esausto filone della sicilianità. A qualcuno piace per il mistilinguismo, qualcuno ne diffida e vi spia indizi di falsa buona letteratura ; e io l’ammiro per essersi inventato un universo intero, l’esatta e inesistente Vigata della seconda metà dell’Ottocento e di oggi. Non conosco nessuno a cui Camilleri dispiaccia sul serio.