Fuori e dentro il cuore di mamma Napoli

Gli scrittori napoletani sembrano avere un rapporto insieme controverso e irriducibile con la propria identità geografica e culturale. Ma per le scrittrici questo legame è ulteriormente complicato dalla tendenza a fare della città una madre simbolica, con cui è impossibile non identificarsi, ma che spesso si vorrebbe rifiutare. Parlare di Napoli significa parlare anche della condizione della donna meridionale: una condizione che resta molto difficile, tanto più negli ultimi anni di accelerato, drammatico degrado. Voci molto diverse appaiono così accomunate dall’esigenza di una ferma critica del presente; ma pure riaffermano, con la vitalità della propria città, la forza della speranza.
 
La napoletanità, comunque vissuta, è una dimensione a cui è particolarmente difficile sfuggire. Non importa più di tanto che si continui a vivere a Napoli, o che si viva altrove, magari proprio per fuggire da Napoli; e non importa tanto neppure che si scelga di rappresentare Napoli, o di parlare d’altro, che Napoli resti sullo sfondo o che la si ponga al centro della rappresentazione: dovunque si vada, comunque la si metta, Napoli è sempre lì, spunta da tutte le parti, e non la si può ignorare. Il rapporto intenso e controverso con la propria identità, del resto ribadita a ogni passo, si manifesta anzitutto nell’intreccio fra la diffusa, irresistibile voglia di scappare e l’insopprimibile spinta a restare, o almeno a continuare a raccontare Napoli anche e proprio perché la si è lasciata. Molti sono quelli che se ne sono andati, spesso ancora giovani: penso, fra gli scrittori delle generazioni recenti, a Erri De Luca o a Elena Ferrante. Senza contare che, negli anni tremendi che ci troviamo a vivere, proprio chi resta è costretto a parlare di una Napoli impoverita, in vivibile e declinante: con il conseguente paradosso di ritrovarsi a raccontare Napoli con nostalgia lacerante proprio mentre ci si continua a vivere. Peraltro, accanto a questa tensione di fondo si può aggiungere il disagio con cui viene quasi sempre vissuta proprio l’etichetta di «scrittore napoletano», che peraltro postula (cosa tutt’altro che scontata) l’esistenza di una letteratura napoletana. Non ne parlerò ora; ma vorrei segnalare almeno un denso volume, pubblicato da un piccolo editore salernitano, dedicato proprio alla rappresentazione di Napoli da parte degli scrittori, napoletani e non solo: Mario Prisco, La città verticale. Napoli nella letteratura dagli ultimi decenni dell’Ottocento al nuovo millennio (2006).
Per le scrittrici di sesso femminile il rapporto con la città si complica ulteriormente, e di molto. Anzitutto, è chiaro che la città natale si configura come il luogo primario di attualizzazione di un’antichissima, mai superata subordinazione della donna al dominio maschile, percepito con risentimento al tempo stesso atavico e modernissimo. Non a caso, quasi tutte le scrittrici napoletane rievocano, con amara ironia, il senso di frustrazione dei loro padri napoletani quando apprendono che nascerà una figlia: che fatalmente si ritroverà, prima inconsciamente poi consapevolmente, a conquistare la propria identità a partire da un senso di inadeguatezza, da un’insicurezza gravida di bisogno di rivalsa. Ma l’amore impossibile verso la città/patria si sovrappone all’identificazione simbolica, quasi sempre del tutto esplicita, con la città/madre: un’identificazione elevata al quadrato, e caricata di ulteriori ambivalenze, dal fatto che la scrittrice può essere a sua volta madre. Mi limiterò a citare poche battute da Ipotesi di intervista laconica (2003, edizione ampliata 2007) non rilasciata dalla Ferrante ad Annamaria Guadagni: «È sbagliato pensare che la madre dell’Amore molesto fa tutt’uno con Napoli?». / «Credo di no.» / «Lei è fuggita da Napoli?» / «Sì» (in La frantumaglia, 2007).
Un’analoga duplicità di sentimenti, tra invincibile fastidio e quasi fatale dipendenza, si ripropone, significativamente, anche nel rapporto con il dialetto: non a caso, molto spesso le scrittrici napoletane sottolineano le ragioni, viscerali o argomentate, per cui i loro personaggi (specie le protagoniste femminili) scelgono di usare o non usare il dialetto. Inoltre, come e più dei loro colleghi maschi, si mostrano ossessionate dall’esigenza di rifiutare la Napoli mitizzata, cioè mistificata, della tradizione, irrigidita nella micidiale congiunzione di comicità e sentimentalismo, per dare corpo e spazio a una Napoli senza illusioni, spesso programmaticamente sgradevole, persino insopportabile (Ortese docet). La contrapposizione fra Le due Napoli, per riprendere ancora il titolo di un saggio giustamente celebre su don Mimi Rea, è insomma più che mai attuale.
In modo esplicito o implicito, fa continuamente riferimento a Napoli La Via (2008), l’ultimo romanzo (ma ce n’è un altro incompiuto) di Fabrizia Ramondino, scomparsa tragicamente nel giugno 2008 nel mare che aveva sempre tanto amato. In prima approssimazione, La Via è tutto imperniato sulla figura del suo anonimo narratore, un marinaio, convalescente e zoppicante dopo un misterioso incidente, che trascorre qualche mese di convalescenza ad Acraia, immaginario paese dell’entroterra meridionale, quasi un Macondo del Sud Italia. Se l’uomo di mare è figura di sradicamento, cioè di solitudine ed emarginazione, ma anche di libertà, di una mancanza di legami che è mancanza di vincoli, il mondo di Acraia, carico di residui arcaici e al tempo stesso stravolto da un forsennato processo di modernizzazione, rimanda esplicitamente a Napoli, ma vuole soprattutto farsi simbolo di una più generale condizione meridionale, che non smette di alludere all’Italia tout court. La Ramondino dedica una costante, strenua attenzione alla materialità della vita, a una quotidianità nella quale il mangiare e la convivialità rivestono un interesse decisivo. Il percorso del narratore, claudicante flaneur di una città che non riesce a essere davvero una città, si costella così di incontri a pranzo o a cena, nei quali saranno gli altri personaggi a prendere volta a volta la parola, dando vita a una piccola folla di narratori orali di secondo grado, che trasmettono non soltanto storie, ma esperienze di vita: proprio come ci ricordava Benjamin, nel suo memorabile saggio sul Viaggiatore incantato di Leskov. Le voci dei narratori si sovrappongono senza sosta le une alle altre, e il flusso continuo delle storie va a stipare la pagina quasi senza soluzione di continuità. La Via appare così anche come un’apoteosi del narrare, tempo privilegiato di una possibile verità, se non addirittura della rivelazione, tempo della pausa e dell’incontro, sottratto alle convulsioni di un’esistenza sempre più incanalata in un movimento frenetico: quello della Via, appunto.
La curiosità del narratore, o la petulanza importuna di chi vuole raccontargli storie anche quando lui è stanco e annoiato, dà così luogo per certi versi a una vibrante elegia per un mondo che non c’è più, e per l’impossibile epica che potrebbe narrarlo: lo testimonia, fra le altre cose, l’esibito arcaismo dei nomi dei personaggi (Teodosio, Onofrio, Orso, Eusebia, Bartolomeo), che ribadisce quello, implicito nell’evidente anagramma, o quasi, del luogo: Acraia, arcaica. I personaggi lamentano in continuazione la pochezza arida e approssimativa del presente, a fronte di un passato dove tutto poteva essere arte, anche il furto. D’altro canto, La Via mette in scena una società ancora familistica e patriarcale, in cui rigide regole di esclusione e di controllo consentono tuttavia, o piuttosto creano, clientelismi, imbrogli, vendette: siamo, insomma, di fronte a un mondo violento e ingiusto, per il quale non è possibile avere indulgenza. Forse passato e presente continuano a manifestare una stessa legge di violenza, cui parrebbe rimandare il susseguirsi senza interruzione delle guerre, dalla battaglia di Cassino, che i protagonisti hanno vissuto direttamente e ossessivamente ricordano, a quelle della ex Jugoslavia. L’intrecciarsi consapevolmente disordinato delle storie trova un suo centro di gravità in una misteriosa figura femminile: donna Rosita, con la quale tutti hanno a che fare, ma che nessuno è ben sicuro di avere visto (neanche chi ci è andato a letto insieme…). Donna Rosita si è creata un enorme potere sfruttando il proprio fascino femminile, e ha dedicato tutta la vita a fare degli uomini «burattini» nelle sue mani; ma lo ha fatto per vendicarsi del padre, deluso dal fatto che gli fosse nata una figlia femmina: «Mamma non ha sgarrato certo, ma quando sono nata io, dopo parecchi anni di matrimonio… mio padre, mi hanno raccontato, le diceva sempre “manco a fare un figlio sei buona”… e così, quando finalmente sono nata io, lui che le ha detto? “E ora una femmina mi hai fatto?”… Questo le ha detto! Come se fossi stata un mostro, un animale…».
L’ossessione della maternità, e del rapporto madre-figlia, è al centro dell’opera di Elena Ferrante, dal folgorante esordio di L’amore molesto a La figlia oscura (2006), che la riconferma tra gli scrittori di maggior personalità della nostra narrativa recente. Nessuno come la Ferrante mette in scena l’ambivalenza verso la propria città, e verso la propria nazione: di lei sappiamo ben poco, ma è certo che ha lasciato Napoli presto, che vive all’estero da molti anni, che si occupa di letterature straniere. Con straordinaria consequenzialità, e non comune coraggio, la Ferrante è stata capace di spingere il proprio disagio verso una possibile identità, napoletana o quant’altro, fino al punto di cancellare la propria identità biografica: facendosi forte della convinzione (invero assai fondata) che «i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti» (Il dono della Befana, in La frantumaglia). In La figlia oscura la narratrice, un po’ come il marinaio della Ramondino, va in vacanza, ritrovandosi senza vincoli e in qualche modo spaesata: ma proprio la condizione di estraneità favorirà il riconoscimento inatteso di una somiglianza, di una parentela esistenziale. Per essere più precisi, la narratrice e protagonista ricostruisce in analessi una vicenda recente, al tempo stesso drammatica e insensata, tanto da sfiorare il grottesco, o meglio il «quasi buffo». Leda, questo il suo nome (più o meno anagramma della Delia di L’amore molesto), è una madre che si ritrova lontana dalle figlie, ormai più che ventenni, che vanno a vivere con il padre: pensa di soffrirne, ma si ritrova invece, con sua sorpresa, «leggera», e decide di andare per un po’ al mare. Sulla spiaggia nota una giovane madre che sta vicina alla propria figlia di pochi anni: in Nina, la giovane donna, Leda rivede se stessa madre, ma nella bimba (che si chiama Elena, come l’autrice, o meglio come il suo doppio pubblico) rivede se stessa figlia; inoltre, la bimba ha una bambola, nei confronti della quale assume evidentemente atteggiamenti materni. Il cerchio così si chiude, o piuttosto si moltiplica e riproduce all’infinito. Leda si riconosce in Nina anche perché la vede «anomala», non integrata con la folla invadente, amorosa e gelosa, chiassosa e rissosa, dei suoi parenti, guarda caso napoletani: una folla da cui Nina vorrebbe, forse, scappare.
Ancora una volta, il meccanismo di identificazione s’intreccia con il riconoscimento, sì, di una condizione materna e filiale, ma anche, visibilmente, di una comune napoletanità: evidentemente rifiutata e pure non meno evidentemente irriducibile. E ancora una volta il rapporto controverso con la propria identità s’intreccia con la questione del dialetto: nel libro ci sono infatti molte osservazioni che rimandano all’uso, o al non uso, o all’uso corretto del dialetto napoletano. Né possiamo dimenticare fino a che punto la Ferrante sia sensibile al nesso tra nomi e identità, sia pure nascosta: ce lo mostra, in La figlia oscura, l’autentico labirinto ecolalico, calcolatamente confusivo, delle somiglianze e sovrapposizioni tra nomi, soprannomi, vezzeggiativi, deformazioni dei nomi stessi: Nina, la madre; Elena, Lenù, Lenuccia, la bimba; Nani, Nena, Nennella, Nile, la bambola di Elena; e infine Mina, mammina, mammuccia, la bambola di Leda da piccola. In un serratissimo, rigoroso gioco di slittamenti, che rimescola identità e differenze, appartenenze e separazioni come in una matrioska narrativa infinitamente reversibile, le madri che scappano o che vorrebbero scappare, o che (come scopriremo) erano scappate s’intrecciano con le figlie perdute e ritrovate, e si condensano metaforicamente nella bambola, a sua volta perduta sulla spiaggia, poi ritrovata e sottratta e restituita. Tanto più che la bambola stessa, simbolica figlia della figlia, apparirà a un certo punto come se fosse «incinta», anch’essa madre «oscura», gravida di una «spruzzaglia bruna mista a sabbia» che si confonde con la «feccia poltigliosa» del corpo della figlia che cresceva nel corpo di Leda madre. In modo conturbante, analoghe immagini di opaca, greve mescolanza di liquido e solido caratterizzano il ricordo che la narratrice ha della propria infanzia a Napoli, della sua passata «vita acquitrinosa dentro cui a tratti scivolava ancora». L’ossessione simultanea della condizione materna e filiale si ritrova peraltro anche in La spiaggia di notte (illustrazioni di Mara Cerri, 2007), racconto per bambini in cui la Ferrante, con evidente analogia tematica, dà voce narrativa a una bambola, Celina, che, perduta dalla sua bimba/mamma, Mati, vive e racconta la notte angosciosa trascorsa sulla spiaggia. La bambola non teme solo la solitudine e la morte, ma anche che le vengano rubate le parole, che il Bagnino Crudele cerca di strapparle: «Faccio appena in tempo a serrarmi in bocca l’ultima che mi è rimasta: mamma». Ma le parole, conservate gelosamente, poi perdute e infine ritrovate, rimandano al Nome, che è tratto costitutivo dell’identità; quando Celina viene riportata a casa dal gatto Minù, educatamente si presenta e gli chiede come si chiami: «Sono così felice di aver ritrovato il mio Nome che riesco a essere contenta persino del suo».
La costante ma non rassicurante sensazione di ritrovare se stessa, e la propria identità, proprio nei luoghi di Napoli («È la sensazione del riconoscimento che mi sposta, mi mette a disagio») è al centro di Napoli sul mare luccica (2006) di Antonella Cilento, che sfrutta felicemente l’occasione offerta dalla collana «Contromano», tutta fatta di estrose (ma non sempre persuasive) «guide» d’autore a città. Genere a parte, la personalissima guida della Cilento è un libro vero, che muove da un amore verso Napoli forse senza ambivalenze, o dove quanto meno ogni possibile ambivalenza mette radici in un’identità non dubbia, irriducibile. Faremmo peraltro torto alla Cilento se dimenticassimo la lucida, durissima critica che della realtà napoletana aveva fatto pochi anni fa in Non è il paradiso (2003). Anche la Cilento, del resto, è energicamente impegnata a sfatare i luoghi comuni della napoletanità, nella scrittura così come nell’attività di conferenziera, e sa benissimo quanto questi luoghi comuni siano duri a morire: in molti passi, infatti, ricorda, con affettuosa ironia, come i primi a fabbricare gli stereotipi della napoletanità siano i napoletani stessi, ai quali non hanno mai fatto difetto né la capacità di ridere delle proprie disgrazie, né una pericolosa, invincibile autoindulgenza.
Come in una cosmogonia mitica, Napoli sul mare luccica delinea, a partire dagli elementi archetipi, fuoco, acqua, terra, aria-luce, una geografia molto concreta, e tuttavia sempre reinventata con la fantasia: a cominciare da Santa Lucia, punto di partenza del viaggio attraverso la città, annunciata dall’incomprensibile e ridevole «cirelonda» che dà il titolo al primo capitolo, deformazione infantile di «placida è l’onda», terzo verso della celeberrima canzone Santa Lucia (difficile non pensare ai molti spassosi analoghi equivoci infantili di Meneghello, dai «vibralani» ai «marsoni»). Il volumetto, che a suo modo conserva i caratteri di una guida alla città, trova un equilibrio insieme solido e suggestivo tra giornalismo e invenzione fantastica (di nuovo docet il grande esempio della Ortese, più volte evocata), passione e humour. Forse è la stessa coscienza delle tragedie in corso a imporre la ferma esigenza di non precipitare in pessimismi troppo consolatoriamente apocalittici, come se la Cilento scommettesse sulla possibilità di combattere al tempo stesso la mistificazione e l’acredine. Ancora una volta, Napoli viene vissuta, in modo del tutto esplicito, con la carnalità di un autentico rapporto amoroso: «Sempre diciamo che lasceremo Napoli o che ne saremo lasciati. Lo dicevo che i discorsi di chiusura sono in realtà discorsi di prosieguo…». Così, anche se sempre più incombono camorra e miseria, speculazione edilizia e globalizzazione distorta, immigrazione selvaggia e poco meno disperata fuga dalla città, Napoli si accampa, secondo un’immagine cara a molti scrittori napoletani, come un immenso corpo materno, ferito a morte e tuttavia immortale, inesorabilmente degradato eppure sempre sacro, anche per chi quotidianamente lo vede violato.
Non è al centro del discorso, ma pure costituisce uno sfondo irrinunciabile, la Napoli di Lo spazio bianco (2008), primo romanzo di Valeria Parrella, che si conferma come una delle voci più intense della nostra giovane narrativa, dopo il felice esordio dei racconti di Mosca più balena (2003) e poi di Per grazia ricevuta (2005). Lo spazio bianco forse non è un romanzo vero e proprio, ma è un libro che non può lasciare indifferenti, per come prende di petto, e a muso duro, il tema della maternità. La narratrice e protagonista Maria, docente di lettere nelle scuole serali, rimasta incinta di un compagno irresponsabile e già assente, dà alla luce Irene, che, nata troppo prematura, deve restare nell’incubatrice finché non sarà in grado di respirare da sola; ma potrebbe anche non farcela: «Il fatto è che mia figlia Irene stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene». Per quaranta giorni, Maria vive così in un angoscioso tempo sospeso, insopportabile per chiunque, ma ancora di più per lei, che non è «buona ad aspettare». Disperatamente protesa nello sforzo di trovare un senso a ciò che sta vivendo, Maria ripercorre la propria storia, soprattutto rivede il suo rapporto con i genitori, ricordandosi figlia proprio mentre sta diventando madre, forse… Intorno a lei si staglia una Napoli atroce, che non offre nessun varco alla consolazione: «Entrai in una nuvola gialla, che è l’atmosfera luminosa di Napoli quando si riflette nell’umidità del mare, e lì capii che ricordavo male: la città non finiva negli spazi contenibili», ma «continuava, continuava sempre lungo una serie di lotti immobili nel niente», fra «cavalcavia i cui svincoli servivano solo a buttarci frigoriferi vecchi e mobili sfasciati», «sterrate senza negozi e senza fermate d’autobus», quartieri controllati dalla camorra, o magari «l’ex Italsider, un mare mai bonificato, la sabbia radioattiva». Eppure Maria, che non è «mai stata indulgente» verso «le cose buone della vita», finisce per scoprire che una vita normale è ancora possibile: Irene respira, piano piano impara a mangiare; e Gaetano, cinquantasettenne operaio, che ha perso sotto una pialla tre dita della mano destra, sta scrivendo il tema che gli darà la licenza media, «in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto anni». Proprio nel suo tema, e nell’ultima pagina del libro, lo «spazio bianco» della scrittura diventa emblema di un ricominciamento possibile, nonostante tutto: «Lascia una riga in bianco e ricomincia sotto». Anche se al momento i segnali sono decisamente infausti, si fa fatica a non aderire a questo brusco, inequivocabile invito alla speranza.