La fucina dei fumetti

Narra la leggenda che Angela Giussani abbia avuto il primo spunto creativo per «Diabolik» osservando i pendolari in transito alla Stazione Cadorna di Milano, e intuendone i nuovi bisogni di lettura. Un’affinità elettiva, ancora prima che una scelta industriale, quella tra la città e le storie disegnate? Di certo c’è stato un tempo in cui la popolazione fumettistica ambrosiana era non solo numerosa e multiforme, ma anche frutto di una politica di prodotto innovativa fino alla spregiudicatezza: «Topolino», «Tex», «Linus» significavano Mondadori, Bonelli, Giovanni Gandini. Un’età dell’oro che però non sembra aver lasciato in eredità al ventunesimo secolo un formato autoctono capace di reggere l’avanzata di manga e graphic novel.
 
Milano, oggi, è la capitale economica e industriale del fumetto in Italia.
Questa affermazione potrebbe apparire talmente diretta e priva di compromessi da suscitare un feroce sospetto di vetero-lombardismo. Eppure uno sguardo allo stato dell’editoria a fumetti non può che confermarla.
Le edicole sono dominate dai prodotti delle milanesi Walt Disney Company Italia («Topolino», «W.I.T.C.H.» ecc.) e Sergio Bonelli Editore («Tex», «Dylan Dog» ecc.). A seguire quelli della romana Eura («Lanciostory», «Skorpio» ecc.) e delle meneghine Astorina («Diabolik») e Edizioni Paoline («Il Giornalino»).
Anche in libreria, gli editori con le vendite migliori hanno la propria sede a Milano: Mondadori e Rcs.
Le fumetterie, negozi specializzati con una rete di distribuzione dedicata, vendono prodotti con località di origine più capillarmente distribuita sul suolo nazionale (e con centri di eccellenza a Bologna, Milano e Roma). Va però detto che i volumi di venduto in questo canale, per quanto meritevoli di attenzione, sono sicuramente meno significativi rispetto a quanto avviene nelle edicole e nelle librerie.
Milano, dunque, è oggi la capitale economica e industriale del fumetto in Italia. Ma nessuno può trovare in questa affermazione la benché minima ragione per inorgoglirsi all’ombra di un campanile (o di una madonnina). La città e gli editori che in essa vivono hanno conquistato questa posizione grazie a una strana parabola storica, i cui punti salienti meritano di essere messi a fuoco.
 
Una fucina di idee
Nel 1936 la casa editrice milanese Mondadori aveva rilevato dal fiorentino Nerbini la testata «Topolino». Una dozzina di anni dopo, l’editore aveva acquistato una macchina per stampare il mensile «Selezione del Reader’s Digest». Il prezioso macchinario rimaneva inutilizzato per lunghi periodi e allora, per ottimizzarne l’uso e ammortizzare l’investimento, si decise di modificare il formato di «Topolino» perché si adeguasse a quello di «Selezione» e, soprattutto, alla macchina da stampa. Questa modifica di dimensioni produsse una sostanziale trasformazione nei modi di produzione e di fruizione. Innanzitutto le dimensioni inducevano a rimontare il materiale d’importazione statunitense: in originale le strisce quotidiane di «Topolino» erano costituite da quattro vignette affiancate orizzontalmente e le storie tratte dai comic books, grazie alle maggiori dimensioni degli albi, si sviluppavano su quattro strisce per pagina.
Accanto alle storie raccordate e rimontate per rispondere al nuovo formato, si diede progressivamente nuovo impulso alla produzione autoctona. Contemporaneamente il nuovo «Topolino», con il suo formato «libretto» assai più agevole del precedente «giornale», era divenuto oggetto facilmente gestibile che poteva essere letto ovunque, anche da un pubblico adulto. In edicola, l’approntamento di una sezione idonea a ospitare un periodico a fumetti di quelle dimensione garantì uno spazio espositivo per altre pubblicazioni che iniziarono a emularne, oltre al genere e agli stilemi grafici e narrativi, anche dimensioni e paginazione.
All’alba degli anni sessanta, uscì il primo numero della serie di «Tex» ancora oggi in edicola (la collana «Tex gigante»). Il formato con cui si presentava l’albo non era una novità. Si trattava del frutto di una serie di approssimazioni successive grazie alle quali la famiglia Bonelli (Gianluigi, l’ideatore di Tex, la moglie Tea, prima responsabile dell’azienda, e il figlio Sergio, ideatore di Zagor e Mister No e attuale direttore della casa editrice) aveva identificato il contenitore che meglio poteva accompagnare i lettori di un’Italia che aveva rialzato il capo dalle ristrettezze più cupe. Il formato striscia, diffusosi tanto per emulare il modulo con cui venivano prodotti e apprezzati i fumetti statunitensi, quanto per minimizzare il consumo di carta, non rappresentava più lo spirito dei tempi. Un albo, dalla carta spessa e porosa, con tempi di lettura significativamente più lunghi, consentiva di sincronizzare il bisogno dei lettori e il respiro dell’avventura seriale.
Quel formato, pur producendo ritmi narrativi tradizionalmente legati alla struttura della striscia e inconsapevoli delle possibilità offerte dallo spazio della pagina intera, divenne popolarissimo e ci volle poco perché la covata iniziasse a dischiudersi.
Nel novembre del 1962 apparve in edicola il primo numero di «Diabolik», un albo per molti versi innovativo. Si trattava dell’invenzione di Angela Giussani, signora quarantenne, che aveva trascorso una quindicina d’anni osservando l’intemperanza imprenditoriale e la geniale cialtroneria del marito, l’editore Gino Sansoni. Da questa esperienza aveva tratto un’estrema consapevolezza del mondo dell’editoria, maturando la capacità di ideare un prodotto che meglio potesse esprimere l’Italia nel momento in cui il miracolo, che pareva inarrestabile e destinato a rendere il popolo italiano uniformemente più ricco, andava a infrangersi contro la congiuntura. La leggenda vuole che Angela Giussani avesse intuito, guardando i pendolari frettolosi che scendevano dai treni nella Stazione Cadorna, che non esisteva un prodotto editoriale specificamente pensato per loro. Per soddisfare questa esigenza inespressa, «Diabolik» nasceva come agile tascabile sul cui centinaio di pagine si sviluppavano storie cruente al ritmo di due vignette per pagina. Il disegno e le inquadrature erano sempre semplicissimi, spesso scontati. Ma il racconto metteva in scena un criminale privo di scrupoli che riusciva a mettere sotto scacco polizia e società. Dopo pochi mesi, nelle edicole iniziarono ad apparire i primi emuli di «Diabolik» e si scatenò una corsa – bilaterale – alle efferatezze e alle denunce.
Nell’aprile del 1965, nelle edicole italiane fece capolino una strana rivista. Il lettore che l’avesse presa in mano avrebbe immediatamente percepito quanto quel giornale fosse diverso da tutti gli altri esposti nel chiosco. Sulla copertina verde, occupata da un bambino seduto per terra che abbracciava una coperta e si ciucciava il pollice, si leggeva: «Linus, rivista dei fumetti e dell’illustrazione». La rivista, progettata e voluta dall’intellettuale e libraio milanese Giovanni Gandini, fu una rivoluzione, perché – per la prima volta – il fumetto e l’illustrazione erano collocati in una prospettiva critica, storica e sociale. Su quelle pagine, accanto al grande fumetto statunitense, si presentavano autori italiani e internazionali originali che avevano finalmente trovato uno spazio in cui esprimersi. Su quelle pagine si maturava uno sguardo che, pur mantenendosi affettuoso e appassionato, diveniva colto, consapevole della storia dei linguaggi e attento alle novità.
Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, il «Corriere dei piccoli» – supplemento che il «Corriere della Sera» dedicava, dal 1908, ai lettori più giovani – attraversò una serie di trasformazioni. Nel 1965, il direttore Carlo Triberti guidò una metamorfosi del settimanale che consentì l’approdo di numerosi fumetti di scuola francobelga («Gaston Lagaffe», «Michel Vaillant», «i Puffi», «Rie Roland» ecc.) e una libertà mai vista prima agli italiani Dino Battaglia, Mino Milani, Grazia Nidasio, Hugo Pratt ecc. A partire dal 1972, la rivista cambiò la propria testata (per poi riappropriarsene successivamente, garantendo un periodo di convivenza dei due titoli), diventando il «Corriere dei ragazzi», la migliore rivista destinata a un pubblico giovanile della seconda metà del ventesimo secolo.
«Linus» e il «Corriere dei ragazzi» erano le tappe preferenziali attraverso cui un adolescente poteva acquistare una fruizione colta e consapevole del fumetto.
Ancora a Milano, l’editore Andrea Corno e suo cognato Luciano Secchi gestivano una casa editrice che sembrava progettata appositamente per osservare la concorrenza ed emularne le innovazioni: sulla scia del successo di «Diabolik», l’Editoriale Corno aveva varato «Kriminal» e «Satanik»; osservando la composizione di «Linus», aveva allestito la rivista «Eureka». L’analisi di mercato attenta e vorace non era confinata ai soli chioschi nazionali. Poteva attraversare l’oceano. A partire dal 1970 la casa editrice iniziò a presentare, per prima con continuità, le serie dei supereroi Marvel: «L’Uomo Ragno», «Devii», «Thor», «I Fantastici Quattro», «Capitan America» ecc.
Grazie a questa fucina di talenti editoriali capaci di sfornare prodotti diversissimi e innovativi e, con essi, di modificare la forma del mercato, Milano poteva dirsi realmente capitale del fumetto. Non era certo l’unico posto in cui se ne producevano (o se ne producevano di buona qualità), ma era la città in cui accadevano le cose importanti.
Poi, quasi inaspettati, arrivarono gli anni ottanta.
 
La ballata delle occasioni perdute
I due fenomeni commerciali che attraversano con maggior vigore il mercato del fumetto negli ultimi vent’anni sono l’importazione del manga, il fumetto giapponese, e il diffondersi del graphic novel, il romanzo a fumetti.
Le prime iniziative di pubblicazione sistematica e molto visibile di prodotti che afferissero a queste tendenze sono avvenuti a Milano e, come vedremo, con un anticipo sui tempi quasi affascinante: ma spesso si è trattato di occasioni mancate, nel senso che non hanno consentito all’editoria meneghina di trarre vantaggi consistenti e di lungo periodo.
Nel novembre del 1979 apparve in edicola, per le edizioni Fabbri, il primo numero del settimanale «Il Grande Mazinga». Si trattava di un albo spillato di 32 pagine al cui interno apparivano, colorate per il mercato italiano, le avventure di uno dei robot giganteschi più amati in Giappone e in Italia (grazie alla serie di cartoni animati). La corsa si interruppe venticinque numeri dopo, all’esaurirsi del materiale originale, nel luglio del 1980.
Il presumibile successo della testata fece sì che la pubblicazione di quel primo manga non rimanesse un evento isolato. All’inizio del settembre 1980, apparve in edicola il primo numero di un altro settimanale dedicato a una delle serie televisive più amate: «Candy Candy». Il formato, inizialmente, era identico a quello di «Mazinga»: nelle 32 pagine spillate si potevano leggere le puntate del fumetto giapponese adattato al mercato italiano e colorato perché lo scollamento visivo dalla serie televisiva non fosse troppo forte. Dopo qualche mese, la foliazione del settimanale aumentò – arrivando a 48 pagine – e l’offerta per le giovani lettrici si arricchì di rubriche. Nel numero 77 fu pubblicato l’ultimo episodio della serie del manga, ma il successo del settimanale era ormai tale da indurre l’editore a non chiudere la testata. Da quel momento, sulle pagine del periodico iniziarono ad apparire nuove storie dell’eroina giapponese realizzate da autori italiani. A queste avventure inedite furono affiancati altri manga, adattati e colorati («Luna», «Geòrgie», «Lady Oscar» ecc.), e nuove rubriche: la foliazione del settimanale aumentò ancora. Il periodico rimase in edicola per oltre un lustro, modificando più volte contenuti, numero di pagine e testata (prima «Candy Candy TV Junior» e poi «Candy issima»). Chiuse, col numero 326, nel dicembre 1986.
La vicenda delle pubblicazioni Fabbri è una spia importante, sebbene spesso dimenticata, della parabola milanese dell’industria fumettistica. E interessante osservare come l’importazione di manga a opera di Fabbri fosse improntata alla volontà di assecondare i gusti di un pubblico che sentiva la fascinazione per i cartoni animati importati dal Giappone, grazie all’impetuosa offerta televisiva garantita dall’ingresso sulla scena delle emittenti private commerciali. Si trattava di un’operazione condotta con spirito squisitamente emulativo che traeva la propria linfa vitale dalla popolarità dei personaggi e non cercava in alcun modo di andare oltre la superficie: capire le formule narrative e la struttura del manga. L’operazione di Fabbri venne emulata da altri editori e le edicole iniziarono a riempirsi di albi che raccoglievano gli adattamenti autoctoni dei cartoni animati più popolari. Ma la tendenza finì per esaurirsi prima che gli anni ottanta si fossero conclusi.
Per avere una vera ondata di manga in Italia, si dovrà aspettare che la prima generazione di telespettatori di cartoni animati nipponici raggiungesse l’età sufficiente a varcare le soglie delle case editrici per progettare prodotti editoriali: albi destinati a un pubblico che, pur amando l’animazione, riconoscesse al manga autonomia espressiva. E ciò avvenne, fuori Milano e con un significativo punto di aggregazione a Bologna, all’inizio degli anni novanta.
Nel 1983, «Linus» era una rivista di piccole dimensioni che aveva perso la guida di Oreste Del Buono, allontanatosi dalla Rizzoli nel luglio del 1981. Sul finire dell’anno, grazie all’attenta mediazione dell’agenzia Storiestrisce, venne allegato al mensile un albo spillato in bianco e nero. Si trattava della prima puntata di Maus di Art Spiegelman. L’edizione italiana fu la prima traduzione mondiale dell’importante opera dell’autore newyorkese. Fino a quel momento il racconto delle memorie paterne degli orrori nazisti, mascherato da fumetto di animali antropomorfi, era apparso solo su «Raw», la rivista che Spiegelman autoproduceva negli Stati Uniti. Maus sarebbe stato raccolto in volume solo nel 1986, anno in cui – grazie all’uscita di questo libro e del Ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller e al loro straordinario impatto estetico e commerciale – si può datare la nascita del graphic novel come classe merceologica.
Nonostante la lungimiranza dimostrata nell’intercettare il fenomeno nascente, «Linus» e Rizzoli non riuscirono a cavalcare il fenomeno e i volumi (numerosi e spesso di notevole qualità) pubblicati sotto il marchio Milano Libri continuarono a essere posizionati accanto al settore «satira e umorismo» e a essere venduti come fumetti o, nella migliore delle ipotesi, come strenne.
Per osservare progetti capaci di inventare una sezione dedicata al romanzo a fumetti nelle librerie italiane avremmo dovuto aspettare gli anni duemila e, ancora una volta, allontanarci da Milano.
 
Mercato e formato: una relazione sbiadita
Esauritosi il periodo in cui Milano riusciva a essere uno dei centri di progettazione dei formati editoriali e di produzione delle opere tra i più interessanti su scala mondiale, alla città è rimasto il dubbio beneficio di essere la sede degli editori commercialmente più rilevanti.
Il fatto che Milano abbia cessato la propria funzione di propellente ideativo del fumetto non ha prodotto – purtroppo – una traslazione altrove del motore delle idee. Oggi, in Italia, non esiste un’area geografica in cui si concentrino gli editori capaci di sperimentare, innovare e percepire i bisogni del pubblico del fumetto stampato (cioè quello per cui è ancora necessaria una sede fisicamente locata in una città – altro discorso e altre analisi meriterebbero i fenomeni di presenza digitale che stanno rendendo evanescente il concetto di centro produttivo).
Questa assenza è frutto di una traiettoria storica che ha portato l’Italia a non avere – come capita invece negli altri paesi in cui il fumetto ha un mercato consolidato – un formato nazionale capace di assecondare le esigenze dei pubblici più diversi.
Negli altri stati esistono formati dominanti che, nonostante la presenza di nuovi moduli commerciali (tipicamente l’albo manga e il graphic novel), riescono a offrire ancora oggi opere innovative e di successo (e, qualche volta, i due attributi riescono a convergere sul medesimo prodotto editoriale). E la ragione per cui questi formati non esauriscono la loro vitalità è che essi ospitano contenuti eterogenei: non esauriscono la loro funzione nell’ambito di un unico genere.
Il tankobon in Giappone, l’album in Francia e il comic hook negli Usa sono pronti ad affiancare ai generi dominanti infinite variazioni, offrendo così agli autori, agli editori, ai commercianti e, soprattutto, ai lettori la possibilità di agire sui prodotti più diversi, capaci di toccare corde e sensibilità individuali distantissime.
In Italia un formato nazionale con quelle caratteristiche non esiste. Quasi tutti i moduli editoriali progettati nella seconda metà del ventesimo secolo o sono scomparsi («Corriere dei ragazzi») o sono collassati su un’unica testata («Topolino» e «Diabolik»). L’unico formato che è ancora visibilmente presente in edicola è il «bonelliano», bramato e imitato ma anche sempre meno seguito dai lettori. Ed è estremamente interessante osservare l’omogeneità del racconto che esprime. Quel formato – cui afferiscono stilemi narrativi, processi produttivi e modi di consumo assai codificati – è vittima di se stesso. E capace di raccontare solo le storie per cui i suoi ideatori originari lo hanno progettato: l’avventura alla maniera di Gianluigi Bonelli arricchita dalla mescolanza di generi della letteratura popolare in accordo agli insegnamenti di Sergio Bonelli.
E questo anche quando il marchio in copertina non è quello dell’editore milanese.