Criminapoli

Nel giallo e nel noir napoletani l’intrattenimento letterario, pur sempre votato allo svago e alla distensione mentale, conduce il lettore a una distanza ravvicinata dalla violenza autentica della camorra. L’esasperazione dell’illegalità organizzata trova rispecchiamento nell’oltranza fantastica del Kriminalroman, e viceversa ogni inverosimiglianza iperbolica dello stesso Kriminalroman diventa più credibile a fronte dell’oggettiva abnormità camorristica. La coazione del vero allo stereotipo fittizio appare perfettamente compiuta, mentre la presunta convenzione narrativa rinnova le proprie risorse di significato.
 
L’immagine di Napoli desumibile da una produzione giallistica e noir alquanto nutrita ne conferma il ruolo di capitale della delinquenza che le viene abitualmente assegnato dai mezzi di comunicazione di massa: o, per meglio dire, questo ruolo è assunto in letteratura quale condizione ambientale pressoché scontata. Compete al noir, piuttosto che al poliziesco, delineare i panorami più sconsolati e truci: illuminare un’umanità abbrutita dalla sopraffazione e dalla precarietà assoluta, un consorzio cittadino regredito a compagine tribale che si regge sulla violenza e sulla corruzione continuate. Bandita ogni traccia di una cultura millenaria, di una storia stratificata e ammirevole, non restano che degrado e rovine. La monnezza, assai prima di ogni emergenza igienico-demagogica, appare ordinario arredo urbano e suburbano. Accanto, blindate e sorvegliatissime, le residenze lussuose dove i padroni del crimine conducono una vita da talpe. Quella modernità mancata sul versante del positivo sviluppo economico-civile viene raggiunta per negazione proprio nell’ambito delle attività delittuose: la capacità di intrapresa e la complessità organizzativa del malaffare tratteggiano una parodia dell’industrializzazione e del capitalismo legalizzati, che trova radicamento precisamente nei luoghi più segnati da un’arretratezza rusticana premoderna.
Nanni Balestrini offre un affresco disperante di tutto ciò in Sandokan. Storia di camorra (2004): l’epopea nera dei vari Bardellino, Nuvoletta e Schiavone muove appunto dal contado campano, dal borgo innominato di San Cipriano d’Aversa, ma non assurge ad alcuna mitizzazione poiché la parola del racconto – agglutinata in lasse di mezza pagina, cruda, estranea a qualunque omertà o commiserazione – appartiene a un figlio di agricoltori che trova nello studio e nel lavoro da emigrato un compenso sia pur modesto all’alienazione civica patita nelle terre d’origine. L’effetto del parlato ridondante e fluviale, nutrito di cliché giornalistici, privo di interpunzione e povero di colore idiomatico, vi convive per paradosso con un accurato impianto documentario-testimoniale, di tenore saggistico, e con una sicura cognizione etico-politica della fenomenologia criminale.
Attraverso l’affresco dell’antisocietà camorristica il noir napoletano propone una sorta di apoteosi del male moderno. I connotati della Napoli più convenzionale, «pizza e mandolino», tendono a svanire al pari di ogni sfondo monumentale o mitezza mediterranea, per lasciare campo alla sequela febbrile di azioni che compongono l’abietta consuetudine dell’illegalità metropolitana, senza troppe differenze rispetto ad altre latitudini e continenti: abuso di droghe, traffici clandestini, sessualità coartata, falsificazioni, aggressioni, inseguimenti, ammazzamenti. Nei libri di Giuseppe Ferrandino, Andrej Longo, Angelo Petrella, Luigi Romolo Carrino prevale una visione cupa e unilaterale delle relazioni interpersonali, dove le istituzioni e la società civile non hanno alcun titolo di rappresentanza. Se mai si concede spazio narrativo ai corpi ufficiali dello Stato, è per verificare il grado di corruzione cui essi medesimi soggiacciono. L’estremo di tetraggine in questo senso è raggiunto dal romanzo breve di Angelo Petrella Cane rabbioso (2006), dove prende voce un ufficiale di polizia, tossicomane compulsivo, implicato in una cupola di membri deviati delle strutture poliziesco-militari. L’indifferenza feroce e la coordinazione maniacale del racconto rendono efficacemente l’avvitarsi ineluttabile di esistenze consumate. Nella stringatezza del testo, peraltro, non si capisce bene come un poliziotto impegnato senza sosta a «farsi» e a far fuori il prossimo, nonché a scampare alle trame dei compari, abbia il tempo e la lucidità necessari a comporre libri di discreta fama e occupare un ruolo direttivo in un partito dove si canta L’Internazionale. Per inscenare il sovvertimento degli abituali criteri di bene e male, tornerebbe utile in alcuni snodi decisivi una caratterizzazione più motivata.
Nonostante la mancanza di ogni prospettiva di legalità e convivenza dignitosa, permangono nel noir napoletano i segni di un’umanità residua, tanto più preziosa perché maturata al di là di qualunque perimetro istituzionale, su un piano di elementarità sensibile. La narrazione o il baricentro prospettico sono sovente assegnati agli stessi attori e protagonisti di vicende criminose, a personaggi marginali avviluppati dalla rete dell’illegalità: a loro si riconosce anche un ruolo di vittime, senza che ne venga sminuito l’ottundimento coscienziale. Anzi, proprio calandosi nel modo di sentire e vedere della manovalanza camorristica più subalterna, è possibile tentare la comprensione dei meccanismi della soggezione mentale e dell’angustia etica che sembrano escludere ogni facoltà di cambiamento. Viene così ripresa e sviluppata la lezione di Attilio Veraldi, che mentre declinava già negli anni settanta il modello dell’hard boiled secondo un iperrealismo dalle sfumature caricaturali, poneva al centro dei propri romanzi traffichini e mezze cartucce del sottobosco delinquenziale. Si trattava di pesci piccoli presi tra pesci molto più grossi e famelici di loro, come Sasà Iovine, aspirante commercialista e tangentista fallimentare in La mazzetta (1976), o Ciro «Naso di cane», guappo motorizzato in Naso di cane (1982), che tenta di realizzare un suo sogno d’amore in barba al codice malavitoso (i romanzi di Veraldi sono stati riproposti negli ultimi anni dall’editore Avagliano).
Ferrandino si appropria nel modo migliore dell’esempio di Veraldi, abbassando la levatura sociale e lo stesso grado di consapevolezza dei suoi protagonisti/narratori, Pericle il Nero nel romanzo omonimo (Granata Press, 1993; Adelphi, 1998) e Pino Pentecoste nel successivo Il rispetto (ovvero Pino Pentecoste contro i guappi), del 1999: l’uno, picchiatore della camorra, letteralmente «fa il culo alla gente» per supremo oltraggio e inconsapevole automortificazione, sino a diventare capro espiatorio in conseguenza di un accordo tra clan; l’altro, detective specializzato in affari di corna, precipita volente o nolente in un turbine di relazioni pericolose, tra killer professionisti, ladri di cavalli, maneschi commissari di polizia, senza di fatto muoversi dal proprio ufficio. Rispetto a Veraldi, si estremizza la carica grottesca dei personaggi e delle situazioni; soprattutto, viene meno un intrigo delittuoso che venga ricostruito in modo più o meno attendibile. Al contempo, si accresce l’incidenza della parlata dialettale, a cui la morfosintassi sgangherata del racconto si avvicina per calco diretto o simulazione pseudogergale; l’apparato idiomatico e la retorica figurativa si fanno pittoreschi, grossolani e sanguigni, sino a esiti di espressionismo ruspante.
L’enfasi stilistica in Pericle il Nero appare più misurata e funzionale alla storia di fuga, deriva ed eventuale salvazione di un energumeno quasi inemotivo; viceversa, la maniera ferrandiniana si addensa e si intensifica con II rispetto, a beneficio della sua inclinazione comico-farsesca e in conseguenza della stessa stanzialità dell’azione, più favorevole all’espansivo monologare di Pino Pentecoste. Malgrado gli opposti caratteri dei personaggi centrali, ambedue sono soggetti alla concatenazione degli eventi che capitano loro intorno, senza possibilità di orientarli e neppure comprenderne pienamente i nessi. Pericle si dispone alla registrazione di sensazioni, discorsi, spostamenti, azioni, senza fornire commenti o ipotesi interpretative al di là di qualche ragguaglio sul contesto camorristico. Eventi di violenza ferina sono da lui sofferti o compiuti, e poi raccontati, con scarso lume di ragione: sono infilati uno via l’altro, lasciando che sia il lettore a desumere i possibili risvolti psicologici e morali dell’accaduto. Sullo sfondo, la commistione deleteria fra politica, criminalità e superstizione religiosa si identifica nell’immagine ambivalente e corpulenta di Signorinella, boss al femminile e capo delle oranti di san Gennaro. Come è senza meta la fuga intrapresa da Pericle, così non sembra avere un senso conclusivo la successione di informazioni che vengono allineate sulla pagina, senza apparenti increspature emozionali. Senonché Pericle si guadagna l’ospitalità e la comprensione di Nastasia, operaia polacca con figli a carico: una figura marginale quanto lui, con la quale non gli sembra impossibile intraprendere una nuova vita all’estero, dopo aver maturato a poco a poco coscienza dello svilimento sofferto a causa della mentalità camorristica.
Tanto Pericle il Nero risulta condannato a una peregrinazione dal domani incerto, quanto Pino Pentecoste s’insedia al centro del proprio mondo: anzi, del proprio ufficio e del proprio palazzo. Circondato dal vocio di un quartiere popolare, egli è ben deciso a rimbeccare i visitatori più equivoci che si succedono con ritmo sostenuto e teatrale alla sua porta, arrecandogli minacce, insinuazioni, proposte, violenze e attentati. L’unità di spazio e tempo viene mantenuta in proporzione diretta al dinamismo frenetico dei dialoghi e degli incontri, intervallati dalle riflessioni petulanti e filosofiche del protagonista. I tasselli della vicenda, insieme ai moventi dei vari personaggi, vengono palesandosi e incastrandosi attorno al fulcro immobile di Pino Pentecoste, cui non resta che incassare e resistere, nonostante le velleità di «occhio privato» che sa il fatto suo. Quel «rispetto» da lui inteso come criterio fondamentale di condotta, che andrebbe difeso a ogni costo, se pure sopravvive agli affronti della guapperia e del vicinato, viene duramente messo alla prova dalla disparità tra intento e risultato del suo stesso resoconto.
Parvenze di monologo attualizzante assume anche Acqua storta di Luigi Romolo Carrino (2008): qui però la centralità di un narratore protagonista radicato nel sistema camorristico dà luogo a un racconto teso, dalle rilevate nervature liriche, dove l’accensione memoriale convive con la cronaca spietata della violenza. Il conflitto non si esplica tanto tra elementi sociali difformi, quanto piuttosto germina e s’insedia nella coscienza individuale di Giovanni, figlio di un boss. Una struttura di racconto scalarmente retrospettiva illumina a poco a poco la natura omosessuale del suo legame con Salvatore, quindi la soluzione omicida cui Giovanni perviene nel tentativo dapprima di nascondere lo scandalo, poi di sanare l’offesa inferta all’onore della famiglia. La sovrapposizione tra atavismo patriarcale e codice camorristico fa capo a obblighi sanguinari, che devastano il tessuto dei rapporti interpersonali più intimi. Il topos romantico di amore e morte trova una realizzazione inedita e ribassata, ma tradizionalmente poetica, nel cuore stesso dell’industria criminale contemporanea. Non per nulla, il cimitero delle Fontanelle è una delle poche sedi sicure d’incontro per i due giovani, tra i teschi degli antichi appestati: ritualità arcaica e snaturamento criminale del giudizio etico appaiono perfettamente solidali.
Mirato sin dal titolo a denunciare un analogo capovolgimento di ogni moralità antropologica è Dieci di Andrej Longo (2007), che raccoglie sotto le insegne di un elementare decalogo dell’antisocialità napoletana altrettante tranches de vie illustrate dai rispettivi protagonisti. Sono racconti brevi e autonomi di mere vittime o piccoli sbandati, immersi nel medesimo contesto di rassegnata consuetudine e abbandono: narratori improbabili ai limiti dell’analfabetismo, che acquistano con la capacità di raccontare anche un motivo di dignità e considerazione. Una patina dialettale si stende sulla sintassi coordinativa e approssimativa propria del parlato incolto. Il narrato si svolge in maniera ellittica, non contiene premesse o spiegazioni, ma lascia che il singolo episodio si delinei gradualmente, sino a sottintendere lo svolgimento di un’intera esistenza. Quand’anche gli atti della guapperia non siano oggetto diretto di rappresentazione, essi si avvertono per cenni come contorno ineluttabile e soffocante. La qualità della convivenza si è tanto deteriorata, anche solo rispetto a un passato recente, che l’unica speranza è riposta spesso nell’emigrazione, o comunque in una sistemazione lontano dai luoghi nativi. Viceversa chi si lascia accalappiare dai miraggi di successo e ricchezza facile sopravvivrà nella consunzione o nell’incubo della morte violenta. I risultati di realismo scabro e puntuto prodotti con Dieci sono alquanto distanti da quelli dell’opera precedente di Longo, Addante (2003), che muove dai contorni verosimili di un concentrato microcosmo paesano per virare poi sui toni della stilizzazione iperbolica. Nel raffigurare lo scontro tra due famiglie, quella di Domenico Cocozza, pizzaiolo di estrazione operaia, e quella del Piragna, malfattore incontrastato, Addante chiama in causa i rapporti tra adolescenti e adulti, uomini e donne, idealismo e rassegnazione. I temi evocati sono complessi, ma la dinamica d’intreccio si svolge secondo schemi nell’insieme semplificati, atti a valorizzare lo spessore unidimensionale dei personaggi e i procedimenti di amplificazione coloristica.
Con l’Andrej Longo anteriore a Dieci (già esordiente, lui pure, presso Meridiano Zero: Più o meno alle tre, 2002), il versante noir della narrativa napoletana di tema criminale si avvicina a quello giallistico: dove quanto più l’intreccio è costruito come risoluzione di un caso particolare, tanto più sembrano dilatarsi e insieme compendiarsi le implicazioni di ordine sociopolitico. Bruno Coppola, Massimo Siviero e Goffredo Buccini costruiscono gialli a enigma incentrati su procedimenti più o meno formali di detection, ma il singolo evento delittuoso offre l’opportunità, se non di svelare intrighi internazionali, di ostacolare almeno progetti criminosi che potrebbero compromettere le sorti di un’intera città e gli stessi ordinamenti della vita associata. A prevalere è il modello di un inquirente pacato e ironico ma risoluto, che sa certo affrontare momenti di pericolo diretto, ma perlopiù è chiamato a districarsi tra colloqui investigativi dagli esiti ambigui e l’interazione imprevedibile di apparati, organizzazioni, interessi politico-economici ingenti. Bruno Coppola declina al femminile una tale figura con il ciclo romanzesco dedicato alla giovane Clotilde, sotto gli occhi della quale i misteri di una Napoli antica e sotterranea si incrociano con le macchinazioni dell’affarismo globalizzato: a rischio di incappare nel pericoloso stereotipo del «terrorismo internazionale» (Clotilde e il segreto di San Rocco, 2003). Massimo Siviero in Vendesi Napoli (2005) prende le mosse, in modo emblematico, dall’omicidio del soprintendente alle Antichità: è l’intero patrimonio monumentale di Napoli, e con esso la memoria storica collettiva, a rischiare di essere privatizzato e svenduto. Senza raggiungere il parossismo allegorico di Siviero, anche Buccini persegue una cifra di stilizzazione grottesca: nondimeno, conferisce al suo Canone a tre voci (2000) un assetto enunciativo polimorfo e articolato. Attraverso procedure di rovesciamento a sorpresa della prospettiva, nel romanzo si viene imponendo la rotondità sagace del capitano Vitalizio Ronsisvalle, carabiniere brillante e tenero compagno omosessuale, custode di una giustizia appannata da conformismi e doppiezze inaudite. Un panorama criminale meno complottistico, ma di resa letteraria altrettanto efficace, si prospetta nei gialli di Ugo Mazzotta imperniati sul commissario Prisco. I disegni delittuosi avranno qui un profilo più modesto, ma appaiono tanto più inquietanti perché sono proiettati sullo sfondo di un Appennino abruzzese dipinto come un piccolo paradiso naturale (Il segreto di Pulcinella, 2004). La squadra investigativa è una sorta di colonia partenopea (La Bella Napoli recita il primo titolo della serie, 2002): la dislocazione montana esalta le doti migliori del carattere cittadino, in una miscela di arguzia, intelligenza e arte d’arrangiarsi, ma non consente a nessuno, tanto meno al commissario Prisco, di sottrarsi ai fantasmi sempre incombenti della civiltà urbana.