La Milano implosa della poesia

L’apparenza (la toponomastica) non inganni: Milano sta scomparendo dalla poesia. I molti «nomi» della città propiziano un immaginario (il mare, la storia) sempre più separato dalla materialità attuale; piazze e strade sono dette da voci fantasmatiche, che le cancellano. Ma non è sempre stato così, e anzi il Novecento ad altro ci aveva abituato: a movimenti e relazioni ferree che tuttavia potevano suggerire l’utopia. Vero è che dal basso delle periferie duemillesche vengono anche segnali leggermente diversi.
 
Qualche verso per cominciare, magari provocando un po’: «A.A.A. cercasi killer nella tua zona, per questo arrivo da Ba-Ba-Barona. / Così è come la vera Milano suona, così è come la vera Milano suona»; ma anche: «I semafori cominciavano a lampeggiare arancioni. / Mi puoi spiegare il colore acciaio del cielo? / Le sfumature di grigio di cui ti parlavo, / del cielo berlusconiano di Milano? / Milano era veleno, / Milano era veleno». Da un lato un refrain – tratto da Popolare – del rapper milanese Marracash (al secolo Fabio Rizzo), di origini siciliane, peraltro fiero di sembrare (di essere bello come) un «marocchino», arrivato alla notorietà nell’estate 2008 con un pezzo, Badabum Cha Cha, magari orecchiabile ma tutt’altro che edificante o consolatorio. Dall’altro, i versi urlati da Le luci della centrale elettrica (in realtà, un solo interprete, il ferrarese Vasco Brondi), anche «loro» una novità dell’anno 2008, con l’album Canzoni da spiaggia deturpata, che contiene il citato Nei garage a Milano nord, dove è pure presente una rilettura disperata, espressionistica, di alcuni versi «da catalogo» di Rino Gaetano («Chi odia i terroni, / chi ha crisi interiori, / chi scava nei cuori» ecc.). Beh, se le si ascolta, queste canzoni, ci si accorgerà che la loro forza espressiva, magari letterariamente ingenua, suggerisce della Milano d’oggi molto più di quanto non sappia fare tanta poesia ufficiale degli ultimi o ultimissimi anni. Restando al rap, alcuni testi sono di una precisione sociologica quasi – troppo? – programmatica: e per esempio quando Marracash rappa certe parole («Darsi da fare, darsi da fare / Milano pesta, sgomito nella ressa / coi soldi in testa. / Levarsi da qui, una vita diversa / riesci ad immaginarla? / Sì, la mente gareggia! / Lotta per prevalere, per prevalere, / brucia e calpesta e se ti va male infesta le galere»), ci colpisce la consapevolezza in senso lato proletaria di chi sa che la smania dei milanesissimi dané, praticata dal basso, porterà quasi inevitabilmente lì – alla criminalità e al carcere.
Appunto, altrettanto non può dirsi per molti poeti-poeti che parlano della Milano d’oggi. Volendo sintetizzare al massimo, le tendenze dominanti per un verso inducono una derealizzazione fantastica garantita da luoghi improbabili, détournés, e, per un altro, generano un distanziamento storico, anche se magari applicato a una storia minore, locale, e non remota nel tempo. Per il primo aspetto, penso per esempio a una delle ultime poesie di Giovanni Raboni, la Piccola suite fluviale (2004), il cui secondo movimento suggerisce che «Porta Venezia sia bella come un porto» e insieme che «oscuri relitti galleggino / verso Lima, verso Loreto…». Dunque, come spesso succede nella poesia più vicina a noi, l’immagine di un ossimorico mare milanese scatena un effetto smaterializzante che solo la buona coscienza ideologica di Raboni riesce a mantenere nei limiti della boutade, dell’ironia o sarcasmo polemici, ma che in altri autori diviene immediata dereferenzializzazione e – peraltro legittimo – desiderio di fuga, perseguimento dell’ultima utopia possibile al cittadino milanese. Sperare, insomma, che a Milano, nel centro di Milano, compaia il mare. Così come, poniamo, accade al ligure Giuseppe Conte, già studente dell’università statale cittadina, il quale (in Canti d’Oriente e d’Occidente, 1997) si rivede intento a «capire in che direzione fosse il mare, al tramonto […] / dove è ponente, ha senso dire ponente in Lombardia […]?»). Quanto al côté storico, si può ricordare «il fiero don Giuseppe, el pret de Ratanà», una figura della Milano anteguerra, evocata da Maurizio Cucchi in Per un secondo o un secolo (2003) in relazione a un luogo periferico come la Cascina Linterno, che viene nobilitata peraltro da un ricordo petrarchesco. Certo, per esempio nella migliore poesia di Giampiero Neri, la storia diventa racconto di risentimenti e sconfitte (privati e pubblici), e pertanto risponde al bisogno di arrovellarsi sulle origini del male presente; nondimeno, colpisce che tale moto retrospettivo stia diventando un tic, una coazione ad arretrare.
E tutto ciò vuole insomma dire che una geografia fantastica e i ghiribizzi, le coincidenze bizzarre della storia sostengono l’autonomia della dizione poetica, permettono a un soggetto sempre più disciolto negli eventi molecolari della vita cittadina (l’io esemplarmente dislocato e spossessato di tanta poesia secondo-novecentesca) di individuare, se non una collocazione, per lo meno una precaria sponda alle proprie peregrinazioni in nessun luogo.
Né è il caso, credo, di interrogarsi sino in fondo sulla reale necessità di un simile percorso: cioè se la città possa darsi unicamente in forma di feticcio provvisorio, barlume di speranza oltre o prima, perché in essa di solido, di materialmente tangibile, sarebbe rimasto troppo poco; troppo poco per quella poesia, dico. Per dare una risposta si andrebbe lontanissimo, certamente, e si evocherebbero scenari postmoderni su cui altri e più approfonditi dovrebbero essere i discorsi. Vero è che, se si vuol trovare una qualche eccezione a tale presunta norma epocale, la si deve individuare in un poeta programmaticamente antico, «tragico», venuto da molto lontano, forte di una poetica moderna, se non premoderna addirittura, come Milo De Angelis. Difficile non provare qualche brivido leggendo Cartina muta (in Biografia sommaria, 1999): «nella nebbia della Comasina» si svolge il dialogo tra il soggetto dell’enunciazione e una donna un tempo amata, dentro una storia di droga e morte, dopo la conclusione della quale «Milano torna muta / e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio / e umido che le scioglie anche il nome, / ci sprofonda nel sangue senza musica». Come se, insomma, solo l’emergenza del dramma, di un dramma di periferia, potesse conferire nuovo senso a una vicenda, quella di Milano, altrimenti muta e priva persino di nome. D’altronde, se le cose stessero in questo modo, la concordanza sarebbe davvero inaspettata. Un maestro della poesia italiana d’oggi e i reboanti, grezzissimi rapper della Barona convergerebbero sulla medesima diagnosi: è vera solo la periferia, mentre il resto dello spazio appare un puro simulacro di flussi e relazioni prive di identità, o – più esattamente – portatrici di identità che però sono quelle del cittadino globale, della moltitudine.
Scriveva uno dei massimi poeti milanesi del Secolo, del secolo passato: «tra nere forme forma nera ho spazio»; ed eravamo solo nel 1913. Il Clemente Rebora dei Frammenti lirici in effetti evoca, anzi discorre con un inesausto flusso di parole in versi, la sua città: tuttavia non nominandone mai, esplicitamente, alcun luogo, non pronunciando toponimi urbani riconoscibili. Eppure, le relazioni, i rapporti tra parvenze, ingombri e motivi dell’agire cittadino tipicamente milanese sono lì, perfettamente attivi, operanti dall’interno delle parole e dei metri.
Che oggi, ormai un secolo dopo, una tale dialettica non funzioni più e che la città materiale, innervata di dilemmi storici, appaia solo episodicamente, nei cortocircuiti provvisori della parola che cresce sopra un vuoto di legami: tutto ciò, dico, non deve stupirci né meravigliarci. L’individuo post-fordista vive altrove. E il cuore d’un mortale cambia più alla svelta, ahimè, della forma d’una città. Piuttosto, dovremmo ammirare, retrospettivamente, l’onda lunga di un certo modernismo milanese che è stato costruito poeticamente sia da autoctoni (quasi nessuno dei quali comunque «purosangue»: Clemente Rebora di origini genovesi, Vittorio Sereni luinese, Franco Loi dalle ascendenze liguri e parmensi ecc.) sia e magari soprattutto da forestieri, spesso immigrati dal Sud. Lo sappiamo tutti abbastanza bene: piazza San Babila è stata canonizzata dal lucano Leonardo Sinisgalli, il Monforte (piazza del Tricolore) dal salernitano Alfonso Gatto, la Milano bombardata sarà sempre soprattutto quella di uno scrittore nato a Modica, provincia di Ragusa, Salvatore Quasimodo. E che dire, in anni più recenti, del manzoniano Miracolo a Milano del veneto Andrea Zanzotto (Dai campi dalle pietre – dalle stagioni labili, in IX Ecloghe, 1962) e soprattutto della Porta Tenaglia del fiorentino Franco Fortini (Paesaggio con serpente, 1987), così paradossalmente in sintonia con gli «acidi» e le «vernici» cittadine?
Riducendo il discorso all’osso, e secondo una tendenza già attiva in Rebora, la modernità poetica di Milano, la Milano detta in versi nel Novecento (almeno fino alla crisi degli anni settanta), aveva giocato le sue carte intorno a due dinamismi: il rapporto città/campagna e la verticalizzazione della boccioniana città che sale. Evidentemente, nessuno dei due temi può essere considerato solo novecentesco (basti fare un solo nome: quello di Giuseppe Parini; e basti ricordare – intorno al tema della metropoli che cambia – molti aspetti della poesia scapigliata); ma è indubbio che solo nel ventesimo secolo si sprigiona appieno il contenuto utopico immanente a tali modelli concettuali.
A leggere certe pagine poetiche degli anni trenta e (in parte) quaranta, in effetti, la sensazione è che la Milano degli ermetici riesca miracolosamente, almeno per un attimo, a saldare il gap con la campagna circostante: che le uscite e gli ingressi, i flussi e gli scorrimenti, possano quasi senza contraddizioni armonizzare il dentro e il fuori, il nucleo urbano e quella natura che, oltre, aspetta di entrare in contatto con la città, di farsi periferia. Appunto: le periferie di Gatto (ma anche, poniamo, di un’Antonia Pozzi) appaiono più come dei villaggi, liminari alla città-città, parti di una campagna che si prolunga, quasi senza discontinuità, fino al Duomo. Persino il paradigma ascensionale, derivante senza dubbio anche dall’enfasi aeronautica del futurismo, ma certo non privo di contatti con la suggestione primaria della cattedrale milanese, della sua Madonnina, continua ad agire nel tempo come speranza di riscatto e redenzione, storica e (se del caso) religiosa. Il fatto che (a proposito di un forestiero, un triestino, che Milano ha capito bene) in «Piazza / del Duomo […] invece / di stelle / ogni sera si accendono parole» sembra rendere più familiare la bellezza tanto delle insegne pubblicitarie di palazzo Carminati quanto degli astri che stanno sopra tutti noi. Le due specie di luce, in fondo, secondo Umberto Saba modernamente si rincorrono e integrano.
Troppo facile, a questo punto, additare, tra la fine degli anni cinquanta e gli anni settanta, la progressiva crisi dei due paradigmi. Già nella Ragazza Carla di Elio Pagliarani – siamo nel 1960 – la periferia comincia a separarsi dal centro urbano (piazzale Lodi sembra costituire una barriera difficile da oltrepassare, segna un confine che mette in crisi la protagonista), mentre le ricostruzioni del dopoguerra, la nuova crescita della città, sono raccontate non senza criticismi polemici. E con Se sia opportuno trasferirsi in campagna di Giovanni Giudici (da La vita in versi, 1965, ma la poesia è del 1960) l’ironia demolisce in modo pressoché definitivo ogni speranza di unire la metropoli alla campagna, agli spazi brianzoli. Ciò che sale, del resto, sono soprattutto file di case alienanti e brutte, in quelli che Sereni – attraverso Luciano Erba – dice «quartieri senza ricordo» (vedi del primo la splendida L’alibi e il beneficio, negli Strumenti umani, 1965): come per esempio può accadere anche in Giudici, che di una decentrata via Stilicone vede solo «Una fila di case e quasi niente / a confortarle dalla parte opposta» (da Lume dei tuoi misteri, 1984).
Assediata da opprimenti periferie, priva delle antiche speranze nate nel suo centro, Milano implode insomma su se stessa. Dalle Case della Vetra (di Raboni, 1966) in poi, la pietas per i luoghi si appunta sempre più su ciò che abbiamo perso, sulle virtualità spaziali di una città senza. E l’altrove tende a comparire fantasmaticamente, oniricamente: i tanti revenants cittadini di Sereni e Raboni ce l’hanno ricordato più volte. Lemuri, voci disincarnate, frammenti di discorso si manifestano in case vie quartieri illusoriamente familiari, e ne rivelano la natura fittizia. Non senza un sospetto di maniera, a me sembra, un eccesso di cinismo snobistico.
«Questa volta ho sognato / che ci siamo persi in due / nell’incubo nebbioso, / accogliente, della periferia», scrive Cucchi in Per un secondo o un secolo. Ma in una città priva ormai di nebbie, e con periferie repellenti come quelle gridate dai rapper, ogni tanto sorge il dubbio che nutrire nostalgie non faccia troppo bene – né alla poesia, né a Milano.