Cantanapoli

La canzone moderna è nata a Napoli. Se è vero che a metà Ottocento, con un milione di copie vendute, lo spartito di Funiculì funiculà è stato un vero bestseller da hit parade, pure al giorno d’oggi la canzone napoletana resta l’unica produzione in dialetto che sia riuscita a imporsi stabilmente a livello nazionale, superando barriere linguistiche e pregiudizi culturali. Con una fisionomia composita, che con tempera la canzone d’autore seria che ci fa struggere l’ammore e il repertorio comico parodistico, i neomelodici (maggiori e minori) e Checco Zalone, ma trova spazio anche per il rap di denuncia civile contro la camorra.
 
«Adisen la canzon la nas a Napoli / e certament g’han minga tutt’i tort», concede a denti stretti Giovanni D’Anzi in Madonina (1937), «manifesto» della scuola milanese dai toni bonariamente sciovinisti. Quando dice «canzone», D’Anzi pensa naturalmente alla nostra tradizione moderna, a quella che fino agli anni settanta del secolo scorso si è chiamata «canzonetta». Di quella tradizione, Napoli è la capitale indiscussa: all’ombra del Vesuvio – prima e meglio che altrove in Italia – germoglia l’innesto fra melodramma e canto popolare che costituirà a lungo un modello per l’intera produzione nazionale. Fin dall’inizio dell’Ottocento, la festa della Madonna di Piedigrotta costituisce una sorta di laboratorio in cui composizione «colta» e gusto popolare, arie d’opera e melodie da strada, si incontrano e si intrecciano.
A Napoli conosce un notevole sviluppo, negli stessi anni, l’editoria musicale, dalla quale si svilupperà più tardi l’industria italiana del disco. Già nei primi decenni del XIX secolo sono attivi in città i ginevrini Girard, i francesi Cottrau e decine di altri stampatori di «copielle», fogli volanti che diffondono testo e spartito delle canzoni più famose (di Te voglio bene assaje, erroneamente attribuita a Donizetti, nel 1835 se ne vendono 180.000; cinquant’anni dopo, Funiculì funiculà ne venderà un milione). La canzone napoletana dell’Ottocento lascia progressivamente cadere i caratteri della produzione folklorica che le sta alle spalle, ma sempre più nettamente si distingue anche dalle arie d’opera e dalle «romanze da salotto», sue parenti nobili: è ormai la «canzonetta», un prodotto sempre più organicamente legato all’industria dell’intrattenimento («dal vivo» o su disco) e rivolto a un pubblico che include avvocati e muratori, erbivendole e nobildonne. L’espansione del mercato della musica attira a Napoli anche capitali stranieri; dalla Germania arrivano quelli che nel primo Novecento contribuiscono a fondare una succursale partenopea della casa discografica Poliphon Musikwerke. A dirigerla, nel 1911, non è un manager qualsiasi: è Ferdinando Russo, canzonettista dei più celebrati; tra i propri dipendenti, la Poliphon può vantare un altro popolarissimo autore, il poeta Salvatore Di Giacomo, stipendiato per fornire alla casa una dozzina di canzoni l’anno. Napoli è anche questo connubio tra mandolini e imprenditoria.
La canzone napoletana riesce a realizzare un miracolo anche sul piano della lingua: è l’unica produzione in dialetto a imporsi stabilmente a livello nazionale, superando barriere linguistiche e pregiudizi culturali. La si canta in Piemonte come in Sicilia, a Modena come a Campobasso: i suoi successi sono dei classici che tutto il pubblico italiano sente propri. Da un certo momento in avanti, il napoletano non viene più avvertito come un idioma legato a una determinata cultura locale, ma come una sorta di koiné canzonettistica. In questo napoletano «nazionalizzato» sono scritti, negli anni cinquanta del secolo scorso, i primi successi di quello che viene considerato l’iniziatore della moderna canzone «d’autore» italiana, il pugliese Domenico Modugno: Resta cu mmé, La sveglietta, La donna riccia, Strada ’nfosa. In tv, negli anni sessanta, la cremonese Mina interpreta – in napoletano – i pezzi più memorabili. D’altra parte, bisogna ricordare che a quella in dialetto si affianca a Napoli una produzione in lingua non meno importante: classici come Fili d’oro, Signorinella, Balocchi e profumi e addirittura la nazionalissima Leggenda del Piave sono stati scritti da autori napoletani.
Oltre che della canzonetta, Napoli può essere considerata la culla della sua variante «di qualità», di quella che molti anni dopo si chiamerà «canzone d’autore». A Napoli trova il proprio capostipite anche la figura del cantautore: è Michele Testa, in arte Armando Gill (1878-1945), autore di Come pioveva, primo a interpretare personalmente le proprie canzoni, di cui scrive testo e musica. Non è tutto: nei café-chantant napoletani, a fine Ottocento, Ferdinando Russo e Nicola Maldacea inventano un genere – la «macchietta» – dal quale si sviluppa un filone apparentemente minore e marginale, in realtà centralissimo, della canzone italiana, un filone variamente «comico» animato da artisti come Ettore Petrolini, Renato Rascel, Renato Carosone, ma anche Fred Buscaglione, su su fino a Enzo Jannacci, Paolo Conte, Elio e le Storie Tese, Checco Zalone. Napoli, che ha generato la melodia strappalacrime, genera anche il suo rovescio: lo sfottò in musica, lo sberleffo, la parodia. A Napoli nasce il mèlo, «e la barca tornò sola», e la sua memorabile antifona carosoniana: «E a me che me ne ’mporta…». La canzone «seria» ci fa struggere di luna e d’ammore, ma solo la macchietta riesce a entrare nel respiro internazionale della cartolina, solo lei fa cantare l’anima globalizzata del commerciante partenopeo «in nero» che – con toni quasi padani – evoca I cinesi (Checco Zalone): «Sono arrivati i cinesi e non zi vende più niente / Sono arrivati i cinesi e nui chiudimm battendi / Je v cacciav a tutti se ero presidente / Ripristiniamo i dazi ca se nò so cazzi / Sono arrivati i cinesi e che me tocca fà / Me tocca je a rubbà».
Nel corso della sua storia, la canzone napoletana ha conosciuto stagioni di crisi e di rinnovamento, si è mescolata di volta in volta con le musiche del momento, dal jazz al rock al cha cha cha, ha riscoperto e riproposto le proprie origini più antiche e popolari (la Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone), ha cercato – attraverso il blues – la strada della canzone d’autore (Pino Daniele). Ci sono stati anni in cui il bel canto dei Nunzio Gallo, degli Aurelio Fierro, sembrava destinato a tramontare per sempre; invece, il genere «melodico» ha continuato a rinascere dalle proprie ceneri e si è perpetuato fino ai giorni nostri. La «sceneggiata» di Mario Merola ha giocato un ruolo importante, ma c’è dell’altro. C’è una Napoli «sotterranea» che ancora oggi acclama i suoi idoli locali e stralocali, i cantanti cosiddetti «neomelodici», da Maria Nazionale a Ciro Ricci, da Lisa Castaldi a Fabrizio Ferri. La loro notorietà (con l’eccezione di Gigi D’Alessio) non si spinge oltre i confini della provincia, a volte del singolo quartiere, ma il legame con le subculture urbane è profondo e fortissimo. Qualche anno fa (dicembre 2006) Giuliano Amato, allora ministro dell’interno, fece assurgere questi artisti alle cronache nazionali accusandoli – testi alla mano – di fungere da propagandisti della camorra, di celebrare boss e latitanti, addirittura di farsi dettare i versi dai capiclan (qualcuno elencò allora tra i neomelodici Mariano Apicella, che per le sue canzoni conta su un paroliere «napoletano» d’eccezione: Silvio Berlusconi; gli esperti si affrettarono a precisare che Apicella non rientra nella categoria incriminata; la destra si scagliò contro la censura illiberale ai danni dell’arte). Più avanti (aprile 2008), Napoli canzone e camorra tornavano a fare notizia: Lucariello, voce degli Almamegretta, cresciuto a Scampia, presentava un rap, Il cappotto di legno, in cui si metteva in scena la (immaginaria) uccisione di Roberto Saviano da parte di un killer della camorra (l’interessato – chiamiamolo così – aveva dato il suo consenso a questa «esecuzione» musicale). In poco più di un secolo, dagli idilli di Salvatore Di Giacomo agli ammazzamenti rappati, la canzone napoletana ha fatto un bel po’ di strada.