L’intimità domestica: la residenza e il sito

Gli interni inscenati dalla nostra narrativa mutano, com’è ovvio, secondo l’evolversi dei costumi sociali. E poiché nella rappresentazione dello spazio spesso si condensa un’idea del tempo, ai disadorni appartamenti di certi romanzi recenti corrisponde spesso una semplificazione delle strutture temporali: cosa che peraltro non esclude un rapporto di forte sinfonia fra abitazione e personaggio.
D’altro canto, vari indizi fanno pensare che nelle case narrate la dimensione della chiusura in una privata intimità venga contrastata dall’apertura verso l’esterno, resa possibile dai mezzi di comunicazione (primo fra tutti il telefono). Forse, l’immagine letteraria della casa sta cambiando natura: da ricettacolo di memorie a nodo comunicativo.
 
C’è stata un’epoca in cui le case narrate dai romanzi tendevano a svilupparsi, oltre che in estensione, in altezza. Sopra i locali di abitazione, eventualmente disposti su più piani, c’erano soffitte o solai; sotto, più o meno buie e profonde, le cantine. A volte i solai sembravano perfino serbare una qualche impronta degli spazi sopraelevati per eccellenza (almeno nella narrativa ottocentesca), le torri: mentre nelle cantine covava la memoria di antichi ipogei, segrete, prigioni. Certo, gli uni e le altre potevano anche risultare poi ingombri di vecchi mobili borghesi e corrose suppellettili, del tutto innocue, almeno in apparenza. Ma intanto la distribuzione lungo la direttrice alto/basso garantiva uno spessore temporale che alla maggior parte degli interni romanzeschi odierni è venuta a mancare: così come è venuta meno, per lo più, quell’ambigua appendice allo spazio domestico che è il giardino, a volte proteso verso il mondo esterno, a volte (più spesso) ulteriormente ripiegato nella dimensione dell’intimità, fino a costituire una sorta di interno assoluto. L’inclusione o incorporazione della natura vegetale valeva come sanzione di un radicale distacco dalla realtà di fuori, come definitiva estromissione di tutto quanto eccedeva gli orizzonti della famiglia (o della stirpe). Una convinzione, s’intende, quasi sempre ingannevole: come dimostra il più famoso giardino della narrativa italiana del secondo dopoguerra, quello dei Finzi-Contini.
. Tutto questo in linea generale; i casi singoli sono un’altra cosa. Non stupisce ad esempio di trovare in uno scrittore come Michele Mari, per nulla incline ad allinearsi con i modi correnti, un residuo dell’antica stratificazione spazio-temporale degli interni domestici, nella forma di una collezione di fumetti collocata sull’ultimo scaffale di una biblioteca. All’annuncio della prossima paternità, il letteratissimo protagonista de I giornalini (primo racconto di Tu, sanguinosa infanzia) viene ghermito dall’ossessione· di mettere in salvo il piccolo tesoro delle sue remote letture infantili, fondamenta di un’intera formazione umana e intellettuale. Un’incauta uscita della moglie («Pensa a quando i tuoi vecchi fumetti verranno buoni per Filippuccio») lo riempie di orrore. Quei vecchi albi di Topolino, Tintin, Cocco Bill, Nembo Kid, L’Uomo Mascherato, dovranno essere salvaguardati accuratamente dalla curiosità della futura prole, ignara di quante memorie, e quanto private e incomunicabili, quei vecchi fumetti siano depositari. L’ansia sfiora lo spasimo: «Ah basta, basta, si sta troppo male a parlare di queste cose, giornalini, quali giornalini? Tu non sei ancora nato e tuo padre chiude, finis, argomento esaurito, si può mica palpitare così, fine della discorsa, si cresce soli, si vive soli, si muore soli, cercheremo di incontrarci su altri piani, giocheremo a scacchi, andremo al cinema insieme, ti insegnerò a usare il Vinavil, un giorno ti regalerò un libro di Stevenson. Ma questi giornalini, Filippo, sono impartecipabili, sono il fiore della mia infanzia, capisci, dunque sono la mia essenza, se me li togli mi uccidi, toglimi la Divina Commedia, toglimi Moby Dick oppure prendi Aulo Gellio, tutta la Loeb, vuoi il Battaglia? Vuoi i Rerum Italicarum Scriptores, il Ramusio? Ma non chiedermi Kamumilla Kokobì, non chiederlo mai». Nell’ultimo libro di Mari, Rondini sul filo, vertiginoso monologo céliniano interamente consacrato al tema della gelosia retrospettiva («il vero tradimento, è all’inizio… è prima.. . nel prima, l’orribile prima… l’incontrollabile inconoscibile prima… io ho vo- luto conoscerlo, posso più tornare indietro adesso, più ne so più ne devo sapere.. . ») , gli ambienti domestici non giocano un ruolo predominante: la narrazione si svolge essenzialmente nello spazio mentale di un febbrile delirio. Pure, anche qui s’intravede un’immagine di casa a più strati, dove un gesto qualsiasi può provocare da un momento all’altro l’affioramento inopinato di eventi lontani, di altre vite («Lo spazio, nei suoi mille alveoli, racchiude e comprime il tempo», ha scritto Bachelard). Così, dalle pagine di un banale volume su una razza canina – «chissà quante volte ne avevo visto la costa» – emergono alcune scabrose, compromettentissime lettere del più odiato fra gli amanti che la moglie avesse avuto prima di incontrare il protagonista. L’effetto sulla psiche del quale risulta devastante (ed è qui, forse, che il cammino verso la follia diventa irreversibile) .
il caso di Mari è sintomatico. Se una casa è un interno suscettibile di contenere altri interni (stanze appartate, armadi chiusi, cassetti segreti), mi sembra si possa dire che in linea generale la narrativa italiana degli ultimi anni, a onta della sua tenace impronta intimistica, ha alquanto indebolito questa dimensione del “nascosto” domestico, mettendo in scena preferibilmente interni più orizzontali o “piatti”, poveri (o privi) di risvolti reconditi. Spazi dalla topologia più semplice, che non prevede un’organizzazione di annessi anfratti ripostigli falde sovrapposte: strutture insomma dove non si materializza un’estensione temporale significativa. Il che non implica, beninteso, alcun giudizio di valore: del resto, tali sono gli appartamenti dove vive la maggior parte della popolazione, e quindi degli scrittori, e dei lettori, dei tempi nostri. Un buon esempio di narrazione quasi interamente ambientata in un interno disadorno e senza misteri è Luisa e il silenzio di Claudio Piersanti. La trama di questo prezioso romanzo breve è presto riassunta: la protagonista, una donna non più giovane, impiegata in una fabbrica di giocattoli, una volta raggiunta l’età della pensione abbandona il lavoro; poco dopo scopre di avere un tumore, decide di non curarsi, muore. Muore silenziosamente, all’insaputa di tutti, senza un lamento o una recriminazione, contenta come sempre, anzi, puntigliosamente paga di quel che la vita le ha riservato. Il libro si apre con un risveglio mattutino nell’appartamento di Luisa; e anche se svariate scene successive sono ambientate altrove (l’ufficio, la casa del principale, i giardini pubblici), la vicenda viene poi interamente assorbita dentro lo spazio casalingo. L’identificazione luogo/personaggio è fin dall’inizio molto marcata: si direbbe che quell’appartamentino presso la circonvallazione di una grande città sia stato secreto dalla personalità di Luisa, come il guscio da un mollusco. Luisa è una donna dimessa, priva di ambizioni e di desideri, che non ha opinioni, non pensa mai niente di interessante, non prova invidia per nessuno: anzi, si ritiene privilegiata di avere quel poco che ha. E la sua abitazione si presenta come un precipitato di abitudini, ambiguamente sospese fra opposte impressioni di sicurezza e di squallore: la cucina un po’ fredda (ma per fortuna c’è la stufetta elettrica), la gabbia del canarino, la poltrona Frau ereditata dalla madre, l’immancabile TV.
La prima avvisaglia della malattia è un malore che la coglie in trattoria. Sulle prime sembra un episodio passeggero, che i piccoli rassicuranti riti serali, chissà, dissiperanno: «Forse la minestra avrebbe cancellato quel ricordo di carne bruciata che ancora la nauseava. Le consuete brutte notizie del telegiornale catturarono la sua attenzione e la tirarono un po’ su. Coprì con un telo il canarino, già accoccolato sull’altalena, e si consolò pensando che non tutti avevano una casa confortevole come la sua». Al progredire inesorabile del morbo, Luisa reagisce richiudendosi in sé, rinserrandosi nello spazio di una dimora sempre più simile a un involucro, entro il quale si può trovare fino all’ultimo qualche motivo di consolazione. Un tenace, struggente bisogno di idillio giunge al limitare stesso della morte: «Per fortuna nel mondo ci sono olive e poltrone comode, programmi televisivi fatti per passare il tempo, e anche film, libri gialli, salumieri che ti portano la spesa a casa, canarini che cantano. Negli altri appartamenti si preparava la cena, i rubinetti si aprivano e si chiudevano, molti tiravano lo sciacquone, seguivano telegiornali e cartoni animati, o trasmissioni a premio. L’uomo del piano di sopra, un giovane atletico, orinò vigorosamente, tanto che Luisa alzò lo sguardo al soffitto. Un lungo zampillo chiassoso proprio sulla sua testa, al quale rispose il canarino con un canto dolcissimo. Se i suoi vicini vivevano normalmente non li detestava, anzi, le facevano compagnia, non si arrabbiava se ogni tanto cadeva in terra qualcosa. Lo sapeva anche lei, i coperchi cadono facilmente, e dopo il fracasso cominciano a ruotare minacciosi annunciando nuovi fragori. Erano pacifici rumori domestici». Tanto più efficace suonerà quindi il finale del romanzo, che nella stessa frase notifica lo svolgimento delle esequie, la ristrutturazione dell’appartamento, l’insediamento di una nipote nella casa, che della silenziosa Luisa non conserverà più alcuna traccia.
Un cuore semplice, infine? Sì e no. La fisionomia della protagonista è meno lineare, meno limpida di quanto risulti da queste note. In particolare, va ricordato il suo odio per i giovani che fanno rumore in strada («generazione di mostri»): un rancore sordo, tutto interiore, che però conosce momenti di sorprendente ferocia. Del resto, il rapporto con i più giovani è un tratto fondamentale nell’immaginario abitativo. Una dimora muta sensibilmente aspetto se è il luogo dove abitano e vengono cresciuti bambini o ragazzini: anche se non particolarmente amati o vezzeggiati, o apertamente negletti («omessi»): come nel caso del Talento di Cesare De Marchi, che s’apre con la descrizione simultanea della famiglia d’origine e della casa paterna, tristemente abitata da una grigia coppia con quattro figli, di cui uno down. Il protagonista passerà attraverso altre abitazioni: prima un appartamentino da scapolo, luogo di ingannevoli promesse di felicità (si veda il primo incontro amoroso, con una fanciulla che giudiziosamente raccomanda «Prima, chiudiamo almeno il rubinetto del gas»), poi una villetta coniugale di cui avverte la potenziale estraneità («era un investimento o una catena?»). L’ultima scena del libro, con il tentato (e probabilmente riuscito) suicidio, è di nuovo ambientata nell’appartamentino. Un attimo prima di perdere i sensi, l’eroe riesce faticosamente ad aprire il chiavistello della porta, in un estremo tentativo di evadere dal destino fallimentare che si è costruito: un destino tanto conforme alla sua personalità, quanto lontano dalle sue illusioni.
Naturalmente, l’immedesimazione dimora/personaggio- che a volte si può spingere ai limiti dell’identificazione casa/corpo- può riguardare figure diverse dal protagonista della storia. Un caso notevolissimo è rappresentato dal romanzo di Elena Ferrante L’amore molesto. Ricercando le cause dell’improvvisa e misteriosa morte della madre Amalia, la protagonista ispeziona il suo appartamento, sito in un vecchio palazzo del centro storico di Napoli. La descrizione di questo luogo è fra le pagine più memorabili del libro: uno stabile tetro e imponente, sporco, con un grande portone, un «cavernoso passaggio» verso il cortile interno, dove sosta sempre qualcuno (studenti, passanti in attesa dell’autobus, venditori ambulanti … ), un ascensore stranamente signorile. Come prevedibile, la casa di Amalia è ancora tutta piena di lei: e infatti un indugio nella stanza da bagno, ingombra di biancheria sporca da lavare (Amalia si era sempre vestita di stracci, sia per parsimonia, sia per l’abitudine di non rendersi piacente per non attizzare la rovinosa gelosia del marito), produce un vero e proprio scatto visionario, il primo del libro: «Lasciai gli indumenti sparsi per il pavimento, senza la forza di tornare a toccarli, chiusi la porta e mi ci appoggiai contro. //Ma inutilmente: l’intera stanza da bagno mi scavalcò e si ricompose davanti a me, nel corridoio: Amalia ora sedeva sulla tazza e mi guardava con attenzione mentre mi depilavo. Mi stavo coprendo la caviglia con una corteccia di cera rovente per poi passare, gemendo, a scollarmela decisamente dalla pelle. Lei intanto mi raccontava che da ragazza si era tagliata la peluria nera dalle caviglie con le forbici … ».
Fin qui ci siamo imbattuti in tipi di case abbastanza tradizionali. Ma ovviamente non mancano, nella nostra narrativa recente, soluzioni abitative più insolite, e (in un certo senso) legate ai tempi. li protagonista dei thriller di Massimo Carlotta, l’Alligatore, ex detenuto politico, vive quasi clandestinamente in un appartamento ricavato al di sopra del locale notturno che gestisce, a parziale copertura della sua attività di investigatore; e il suo amico e sodale Max la Memoria, tuttora latitante (almeno fino alla fine di Nessuna cortesia all’uscita), non si muove da un nascondiglio che è insieme archivio dati e base operativa (oltre che esemplare domicilio di una persona dalla vita sedentaria e sregolata). Al di là della fattispecie giudiziaria, dunque, uno strano miscuglio di rifugio privato e nodo comunicativo, di luogo chiuso e incrocio di percorsi: una soluzione che forse può rivelare un’importante linea evolutiva dell’immagine letteraria dell’abitazione. Una conferma- su un diverso piano sociale- di questa particolare tipologia domestica, si trova in Come ombre di Alessandro Golinelli, fluviale romanzo di costume che sciorina un esteso campionario di personaggi giovani o post-giovani, tutti esponenti di un modo di vita modernamente urbano: singoli, coppie stabili o instabili, conviventi provvisori. Anche se gran parte della storia si svolge in interni, alla descrizione dei décors non è dedicato infine molto spazio, eccezione fatta per la casa di Giacomo (il tavolino veneziano, il tavolino rococò, la ribaltina falso Settecento… ). Per il resto, i cenni al mobilio sono rapidi, fuggevoli: la pulita ma banale fòrmica gialla della cucina di Martina, la libreria che inutilmente Greta chiede all’infedele marito Walter di progettare. In compenso, gli ambienti appaiono ammobiliati, se così si può dire, dai discorsi dei personaggi: dal dialogare ininterrotto, spesso futile o banale, a volte drammatico e/o ridicolo, sempre inconcludente, di una piccola rete di amici (uomini e donne, etero e gay) intenti a viversi con nevrotica voluttuosa imprecisione. Ebbene, non di rado rientrare fra le pareti di casa non significa appartarsi nell’intimità, ma al contrario, entrare in contatto con gli altri. L’ambiente domestico è caratterizzato infatti innanzi tutto dalla presenza del telefono. I personaggi di Come ombre si telefonano sovente, e se non si trovano, lasciano messaggi alle segreterie telefoniche. Inoltre, i passaggi da una sequenza narrativa all’altra sono spesso mediati dal telefono, grazie alla tecnica (ormai più televisiva che cinematografica) di riprendere il racconto, alla conclusione della conversazione, passando da chi ha fatto la telefonata a chi l’ha ricevuta. Il telefono, insomma, come dispositivo per le liaisons de scènes.
La storia del telefono nella letteratura è ancora, credo, tutta da scrivere; ma nel frattempo ben altri mezzi comunicativi si sono affermati e diffusi. E ci si può chiedere che cosa rimarrebbe della tradizionale opposizione interni/esterni, quando gli scrittori si mettessero a raccontare storie di personaggi non solo telefonanti (e eventualmente drogati del telefonino), ma anche appassionatamente naviganti, patiti del web-surfing, e-mail dipendenti. Del resto, che la rivoluzione informatica possa provocare qualche crisi anche nel trattamento narrativo dello spazio, è davvero il minimo che ci si possa aspettare. La realtà virtuale è lì a disposizione di chiunque, personaggi letterari compresi: tanto per accrescere le potenzialità fattive dell’individuo, quanto per espandere lo spazio intimo delle réveries, di cui la casa è da sempre simbolo e custode (ivi incluse le truci e materiali fantasie dei cannibali). Forse è presto per dire che nella raffigurazione letteraria dell’abitazione la dimensione temporale stia cedendo terreno a quella spaziale: che cioè l’immagine della casa si stia evolvendo, da ricettacolo di memorie (personali o condivise) a nodo spaziale e comunicativo- a “sito”, insomma, più informatico (quindi, geografico) che archeologico. Ma qualche sintomo esiste. Restiamo in attesa di ulteriori riscontri.