Terre straniere: l’ottica dell’italocentrismo

Raccontiamo gli spazi stranieri per rassicurarci e riconfermarci, oppure per rischiare l’ignoto? Non pare che la seconda ipotesi abbia davvero intrigato i narratori italiani degli ultimi anni, troppo spesso attratti dall’essere-ovunque dell’Occidente trionfante e dalla fiducia nelle proprie operazioni mentali. Ma c’è anche qualche eccezione: dagli spazi instabili e discontinui che ruotano attorno all’identità ebraica, al terzo mondo e allo spazio di lotta del Messico di Cacucci, sino all’emarginato ed estraneo Portogallo di Tabucchi.
 
«Ma dove sono questi fottuti canguri?». Pare che il jazzista afroamericano Thelonious Monk, durante gli interminabili spostamenti in automobile attraverso l’Australia nel corso di una tournée anni Sessanta, abbia interrotto i suoi immusoniti e interminabili silenzi («mentre il suo sguardo vagava per la campagna […] che gli scorreva dinanzi agli occhi») con queste perentorie parole. Non so se Aldo Busi abbia conosciuto l’aneddoto (raccontato da Arrigo Polillo in Stasera jazz) quando ha scritto il suo Cazzi e canguri (pochissimi i canguri); mentre non mi sembra del tutto improbabile che alla definizione di quel gustoso titolo abbia contribuito la dicitura originale inglese d’un libro di Samuel Beckett, conosciuto in Italia come l’anodino Novelle, ma contraddistinto in origine dal suono di More Pricks than Kicks, la cui trasposizione nella nostra lingua è peraltro straordinariamente facile, nonché fonicamente altrettanto sapida -· Più cazzi che calci, appunto. Vero è che, .per Monk come per Busi, e come certo accade a molti altri viaggiatori; uno spazio Straniero, città stato continente, è innanzi tutto un emblema, una sigla, una specie di sineddoche: una parte che prevarica il tutto, cancellandolo, riducendolo se del caso a semplice pretesto sonoro. E allora «un luogo geografico» reale, l’Australia, regredisce al «surrogato della mente che non c’è», al «sentito dire di un continente racchiuso in un logo di marca di scarpe e di borsetteria, o in una bandiera prossima ventura» (Cazzi e canguri).
Se si volesse individuare lo scrittore italiano che più lucidamente (e anche, forse, più cinicamente) ha realizzato una simile strumentalizzazione degli spazi altri, che meglio ha saputo indebolire la diversità dello straniero, direi che è quasi obbligatorio fare il nome di Andrea De Carlo. E, forse, più che alla California di autostrade, ristoranti e supermarket raccontata in Treno di panna, bisognerebbe rivolgersi alla congiunzione, per certi versi geniale, fra la stessa California e il Messico, realizzata da Yucatan del 1986 (la cui nuova edizione del 1996 è preceduta da un’importante introduzione). Anzi, dovremmo forse parlare proprio di omologazione: un orizzonte abbacinante e piatto, scandito da vie di comunicazione che indifferentemente conducono all’epifania di un mostruoso hotel a forma di anfiteatro e di un altrettanto mostruoso sito archeologico, l’uno e l’altro avvolti dalla medesima, come dire?, estasi indifferente. E il narratore interno, come del resto i suoi compagni di viaggio (controfigure innanzi tutto dell’autore reale e di Federico Fellini), non è più in grado di introdurre alcuna vera gerarchia nei fotogrammi che gli corrono incontro attraverso i finestrini di una lussuosa Mercedes; sentendosi anzi a proprio agio unicamente nel chiuso degli alberghi, nel dominio nevrotico, astratto, prepagato – cioè garantito da una carta di credito -, della rigida sequenza camera-ascensore-piscina-ristorante-negozi.
L’ostentata superficialità di De Carlo brilla nondimeno, senza alcun dubbio, per un suo rozzo radicalismo, per il coraggio con cui è liquidato ogni ideale di colore e folklore, ogni resistenza della diversità. La California si rivela l’interpretante topologico (e ideologico) di una sensibilità postmoderna, il motore di successive e progressive assimilazioni. E dico «rozzo» perché, a ben vedere, gli ingombri che si schiacciano sotto i nostri occhi sono il prodotto di una deformazione soggettiva, il prodotto di un narratore indifferente o distratto, di un io solidamente difeso dai privilegi di classe; e anzi, et pour cause, costretto a battere precipitosamente in ritirata quando (come accade al Dm-Fellini di Yucatan) una breve passeggiata nelle strade di Mexicali all’improvviso materializza la ruvidità irriducibile di quel terzo mondo, reale, che minacciosamente è collocato alle porte di Los Angeles (cfr. le pp. 64-66 dell’edizione del 1996).
Rozze sì, discretamente vampiristiche, ma tutt’altro che radicali sono le narrazioni di viaggi all’estero realizzate, poniamo, da Rossana Campo in I:attore americano e da Andrea Canobbio in Indivisibili. E se il percorso desiderante da Parigi a New York fatto dalla prima, per inverare e bruciare quasi istantaneamente il sogno d’una storia con un divo del cinema, non può non incorrere, come da copione di telefilm, in una «fauna di neri scoppiatissimi» che la minacciano di violenza, il viaggio – meglio, la vacanza «culturale» – di due sorelle in India, raccontato nel secondo, non può non ruotare intorno:
l. al problema del cibo e delle malattie tropicali;
2. alla difficoltà di capire il misticismo indiano (specie quando ha l’improntitudine di interagire con la scienza occidentale) ;
3. al fidanzato lasciato in Italia da una delle due.
Forse più saggiamente, ma non meno “turisticamente”, Valeria Viganò nel Piroscafo olandese ci fa conoscere una quarantenne lessicologa, in crisi per una delusione d’amore, che “spiritualmente” si rigenera vivendo sei mesi ad Amsterdam a contatto con il fascino di un mondo ventenne e con l’assennatezza di un’anziana amica. Rigenerazione che è un po’ anche una regressione, ovvero un falso movimento: se è vero che, tra gli altri effetti omologanti che dal romanzo vengono attivati (primo fra tutti, naturalmente, quello generazionale), vi è la scoperta della sostanziale identità, della perfetta sovrapponibilità delle discoteche di Amsterdam e Rimini.
E, insomma, quanto ci lascia francamente perplessi è scoprire che il poco divertente Manuale dell’imperfetto viaggiatore di Beppe Severgnini, che riprende Italiani con valigia del 1993 , rischia di svolgere quasi il ruolo d’un vademecum incongruamente narratologico: epitome di motivi e funzioni attanziali primarie, realizzati senza poi troppa fantasia in parecchi romanzi che raccontano di italiani all’estero. Gianni Celati, nelle sue Avventure in Africa ha peraltro avuto il coraggio di trame le conclusioni antropologiche più paradossali ma con ogni evidenza più coerenti, proponendo agli etnologi «un oggetto di studio meno deperibile, come appunto sono i turisti»: «popolo in crescita vertiginosa», per lo più sano e anglofono, che «ha già elaborato un proprio sistema di credenze, una mitologia molto complessa, dei propri modi di vestirsi, mangiare, viaggiare». E anche una propria letteratura, come stiamo vedendo, mondializzata al ribasso, tautologica, in grado soprattutto di riprodurre e rispecchiare la propria ideologia. Solo in parte contrapposta alla precedente – come peraltro ci suggerisce lo stesso Celati con l’esempio del journal citato – è la perdurante tradizione del percorso «alla scoperta di un già noto» (tale la definizione di Giorgio Raimondo Cardona): il libro di viaggio, cioè, improntato a colta curiosità, a umanistica ed erudita disponibilità verso un mondo-cosmopoli, destinato tuttavia a essere prontamente integrato nell’alveo dei più alti sistemi intellettuali, della più autorevole riflessione letteraria, filosofica, scientifica. Certo, guardando alla produzione degli ultimi anni, vanno individuati almeno due poli, ideologici e compositivi assieme, o per lo meno due tendenze non del tutto complementari. La prima è quella che sontuosamente si compendia in Danubio e Microcosmi di Claudio Magris: libri che trasformano il viaggio in un pretesto letterario, e che paradossalmente – ma non troppo – potrebbero esser stati scritti utilizzando unicamente altri libri, atlanti, dotte descrizioni, guide e Baedeker; nonché – e certo soprattutto – attingendo all’enciclopedia del sapere mitteleuropeo, a sua volta figura del Sapere in quanto tale. Non molto diversamente (se badiamo al particolare nomadismo autocentrato che vi si realizza), Le Muse a Los Angeles di Alberto Arbasino localizza nei dintorni del Getty Center californiano avventure letterarie e artistiche che spavaldamente attraversano l’intera tradizione occidentale, indugiando solo, e in modo quasi elegiaco, sugli anni Cinquanta-Sessanta del movimento beat e delle neoavanguardie. Leggermente diverso (a seconda delle tendenze cui accennavo) è invece il viaggio, ovvero la rapsodia cosmopolita, tratteggiato da Fosco Maraini nell’autobiografia Case, amori, universi: una sintesi apparentemente perfetta, cioè perfettamente risolta, quasi rinascimentale, di coraggio fisico e tensione spirituale, di ansia avventurosa e desiderio di conoscenza, di scapataggine giovanile e senile pensosità, di fiorentinismo ribobolaio e culto orientalismo. Dove però, a ben vedere, il primo membro d’ogni coppia sovradetermina il secondo; e insomma nelle escursioni sciistiche sull’Appennino sono contenute le esplorazioni tibetane, le ville di Fiesole si riflettono nel porto di Hong Kong, specchiandosene in modo fedele e rasserenante, se non proprio consolatorio. li personaggio multanime e pacificato, raccontato da Maraini, finisce cioè per collocarsi troppo ai margini delle contraddizioni, per apparire troppo conciliato – anche magari quando le vicende belliche hanno drammaticamente sconvolto la sua personale ricerca. Quasi che, appunto umanisticamente, la riuscita dell’intellettuale uti singulus possa davvero riscattare le molte sconfitte del Novecento, i troppi fallimenti della nostra storia.
Anche in queste opere, in altri termini, agisce una tautologia, ma di segno diametralmente opposto, giacché attinge ai valori, alle tradizioni, ai modelli di razionalità latamente “moderna” che il giovanilismo mondialista (latamente “postmoderno”) viceversa liquida. E ciò almeno in parte spiega la fortuna, davvero notevole, delle narrazioni familiari a sfondo variamente autobiografico, che in questi anni hanno raggiunto i livelli qualitativi più interessanti quando hanno parlato dell’identità ebraica. Dal Gioco dei regni di Clara Sereni a Il mio nome a memoria di Giorgio Van Straten, dai libri di Giorgio Pressburger (penso in particolare ai Due gemelli e a La neve e la colpa) fino magari alle affabulazioni d’un Moni Ovadia, l’atteggiamento internazionalista immanente all’ebraismo suggerisce spazi instabili e discontinui, in cui spinte centrifughe e centripete si alternano assiduamente, e ne residua un senso dell’essere ovunque – utopico, quasi per definizione e per etimologia. Vero è che, come appunto in Sereni e Van Straten, su tutto infine trionfa la pietas familiare, la narrazione di un’identità; e i risvolti liberatori del cosmopolitismo (sottolineati da Pressburger) si rovesciano nel radicamento in un cronotopo· ben delineato, realizzando uno storicismo privato e nondimeno esemplare, emblema di virtù collettive, civili, se non appunto politiche.
Laddove ribellistico e rivoluzionario, e alieno da ogni pathos della memoria, è lo spazio di lotta, per contratto straniero, in cui Pino Cacucci ambienta le proprie storie. Il terzomondismo dei suoi libri (e magari anche di certe opere di Massimo Carlotta, dal Fuggiasco a Gli irregolari) appare paradossalmente tanto più genuino quanto più è mediato da componenti “di genere”. Poche. storie, voglio dire, hanno una costruzione più artificiosa e bislacca di un romanzo come Puerto Escondido che stipa effetti e artifici della più varia provenienza, dal noir all’avventura, dallo hard boiled al western; e tuttavia quella struttura inverosimile non riesce ad annichilire la fascinosa pericolosità dell’amatissimo Messico, la vitalità delle sue genti e dei suoi spazi, attraversati dal desiderio di qualche europeo allo sbando. Il fatto è però che la deriva di quei soggetti allude con chiarezza al proprio radicamento politico, alla stagione della lotta armata, della rivoluzione italiana. E persino il violentissimo Punti di fuga riesce a dare un senso, pur labile, agli eccessi sadici del suo protagonista – un killer colto e disilluso che si muove con scioltezza nella Parigi multietnica degli anni Settanta -, suggerendo il peso d’una sconfitta lasciata alle spalle, laggiù, in un’Italia ormai lontanissima. Insomma, non è proprio un caso se sia Cacucci sia Carletto si trovano a proprio agio quando le regole del genere guidano più autorevolmente la loro mano: il vincolo scatena e insieme razionalizza le passioni, illumina di sbieco i luoghi e ne rivela sensi inattesi (penso e contrario alla scarsa resa, proprio narrativa, dei “medaglioni” giornalistici che Cacucci ha allineato in Camminando). Qualcosa però inevitabilmente si perde. li Messico di uno spacciatore romantico, la Parigi di un terrorista taciturno sono espropriati d’un pezzo della loro diversità; e il dominio dell’Occidente, denunciato con lucidità da Cacucci, rientra dalla finestra delle norme e regole letterarie, delle convenzioni appunto di genere, dei loro effetti anche banalizzanti.
Quali dunque le alternative? A ben vedere, una prima alternativa, validissima, coinvolge l’opera di Antonio Tabucchi, la cui disponibilità democratica a difendere e valorizzare le identità emarginate (a partire proprio dalle comunità gitane del Portogallo, esplicitamente sostenute nella Testa perduta di Damasceno Monteiro) è intanto notissima, ed è rafforzata da scritti giornalistici e interviste. Eppure, provo una certa resistenza a additare il suo Portogallo come uno spazio straniero esemplare, autentico e risolto: e non perché non lo sia, autentico e risolto, ma semplicemente perché quelli narrati da Tabucchi non sono luoghi stranieri. La Lisbona di Pereira è tanto più ammaliante perché è da essa che si guarda all’estero, ai fascismi di Spagna e soprattutto d’Italia (ricordate l’irrispettoso necrologio di Marinetti fatto dall’ingenuo Monteiro Rossi?); e in Requiem la portoghesità di Tabucchi lo induce, come è noto, a usare la lingua dei luoghi narrati e ad affidare ad altri la resa italiana del testo. Se dovessi proprio indicare un libro in cui il Portogallo tabucchiano mi sembra assumere il profilo di un mondo estraneo, da esplorare poeticamente e anche un po’ magicamente, indicherei Donna di Porto Pim, non a caso dedicato alle lontane – anche da Lisbona – Azzorre, isole di balenieri, terre di passaggio, teatro di antiche leggende e di enigmatiche rivelazioni. Ma perché è tanto difficile individuare viaggi, nella letteratura italiana degli ultimi anni, che sappiano incarnare un ideale e una pratica pienamente conoscitivi, conformi a una tradizione che fa del trasferirsi altrove qualcosa di più d’una tautologia o d’un pretesto, e che sa dire la materialità scioccante, quasi la condanna di incontrare l’ignoto? Forse le ragioni sono anche formali, riguardano l’architettura del racconto. Recensendo La regina disadorna di Maurizio Maggiani, Mario Barenghi aveva parlato di un grave squilibrio strutturale interno all’opera, tutta genovese per 230 pagine e poi costretta a un balzo, letteralmente, agli antipodi dell’isola australe Moku Iti per 150 e più pagine, fino all’epilogo di nuovo nel porto di Genova (cfr. Oltre il Novecento, Marcos y Marcos, 1999). Eppure, se badiamo al Coraggio del pettirosso, per certi versi ancor più asimmetrico nello sviluppo (basti dire che il racconto “secondo” incastonato è riferito con almeno tre strategie diverse, anche in forma scorciata, e che dei due viaggi di cui si parla, uno, quello nel deserto, sembra rivestire una scarsa “necessità” compositiva), ci rendiamo conto che Maggiani può aver fatto una scelta consapevole, rispondente a un’esigenza costruttiva e, forse, anche ideologica. In altri termini: è probabile che l’apertura non narcisistica all’altro, la rappresentazione non reificata del viaggio, metta in crisi, beneficamente, le strutture troppo oliate del romanzo, dissolva le simmetrie a buon mercato, introduca una necessaria contraddizione. (E si pensi, per opposizione, all’itinerario Francia-Giappone e ritorno, formulaico e tanto più lubrificato, che Baricco ha saputo propiziare in Seta: così perfetto nel suo “magico” aplomb da rivelare una consistenza assai misera).
Anche perché, come è probabile che avvenga in ogni buon libro di viaggio, nei romanzi di Maggiani sono esotici non tanto i luoghi nominalmente stranieri ma i territori a tutti gli effetti italiani. Lucy, la «regina disadorna» kanaka, vedrà sì Genova, ma solo per cogliere l’orrore surreale in cui le vicende del colonialismo l’hanno cacciata, e per fuggirne subito, istintivamente estranea alla pazzia che la avvolge. Ed estranea, anche temporalmente lontana, è la parabola dell’eretico “per caso” Pascal, che nel Coraggio del pettirosso si situa in un’Italia marginale e immaginaria, geograficamente nata dall’ibridazione delle Apuane con le Val valdesi; a raccontarcela è una «sensibilità italiana nata in Egitto», e ivi peraltro rimasta, che passa a contrappelo, insieme mitizzandole, le tradizioni eretiche e anarchiche radicate quaggiù.
E che da questo tipo di percorso scaturisca nuova consapevolezza, per autore e lettore, ce lo fa capire anche un libro di racconti, le cui interne disuguaglianze ora non ci parranno casuali: cioè In viaggio di Fabrizia Ramondino. In queste bellissime divagazioni scritte da un’antica autostoppista (memorabili le pagine sulla tecnica e l’etica di questo modo di viaggiare durante gli anni Cinquanta), in movimento tra le Baleari e la Cina, la Savoia e l’Australia, colpisce la scelta di concludere con una pagina di ricordi politici legati alla realtà napoletana, alla Heimat insomma di chi scrive. Ma forse il paradosso è solo apparente. E anzi avrà ragione il Marlow di Cuore di tenebra quando dichiara che «il punto culminante della sua esperienza», gli è servito a «gettare in qualche modo una sorta di luce su tutto ciò che si trovava intorno a lui – e nei suoi pensieri».