Metropoli, centro e periferia: vedi Napoli e poi basta

Recentemente gli scrittori italiani hanno scoperto lo spazio tipico della modernità. Nella produzione di genere, giallo nero e fantascienza, dominano gli scenari urbani. Vari narratori prediligono prospettive scorciate ed eccentriche, mostrando il degrado delle periferie, i luoghi di basso consumo, l’accumulo strabordante dei rifiuti puzzolenti. Oppure schizzano il ritratto di Milano e Genova sullo sfondo di una stagione lontana. Ma delle odierne metropoli non si dà un ritratto corposo e riconoscibile. Con una sola eccezione…
 
Sulla soglia del nostro viaggio dentro le metropoli di carta c’è un libro che si impone per l’esemplarità del titolo: City di Alessandro Baricco. Nella bandella, l’autore dichiara di averlo «costruito come una città, come l’idea di una città». Sarà anche vero che nel racconto di Gould e di Shatzy «le storie sono quartieri e i personaggi sono strade», ma al lettore tutto ciò appare solo un progetto ambiziosamente balzano, privo di spessore rappresentativo: la bravura di Baricco è sempre indubbia, ma il manierismo compositivo, dopo Castelli di rabbia, rischia davvero di girare a vuoto, e quell’«idea di città» resta un buon suggerimento e nulla più. Per intanto, l’indicazione vale a mostrare la direzione del percorso: la narrativa italiana sembra finalmente aver abbandonato la riluttanza a confrontarsi con lo spazio elettivo della modernità. Anzi, il panorama romanzesco di fine millennio è affollato, se non di ampi affreschi metropolitani, di opere che strutturalmente privilegiano gli orizzonti di vita urbana. E se in alcuni bravi scrittori è ancora vivo l’interesse per le sorti esistenziali di figure che attendono la morte nella dimensione un po’ opaca delle «città del silenzio» (esemplare l’ultimo libro di Piersanti, Luisa e il silenzio), per lo più a dominare è lo schizzo franto e disordinato di una geografia lontana dagli spazi angusti e dai tempi lenti del municipalismo provinciale.
Accantonata definitivamente la tradizionale prospettiva rusticale e strapaesana, le schiere dei cosiddetti «giovani narratori», a qualunque raggruppamento o scuola appartengano, hanno acquisito la consapevolezza amara e strafottente che i destini dell’io si compiono, magari abortendo, nella dimensione della collettività più ampia. Il punto di svolta è segnato da alcune opere dell’ultimo decennio, in cui il luogo dell’azione non solo condiziona la fisionomia del protagonista, ma segna il timbro complessivo del romanzo: la Torino di Tutti giù per terra (Culicchia), la Bologna di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (Brizzi), la Venezia di Occhi sulla graticola (Scarpa). E accanto, naturalmente, i racconti dei «cannibali», in cui la scrittura sincopata, la composizione a intarsio, le tecniche di straniamento denunciano lo stravolgimento delle percezioni di realtà indotte dai meccanismi di uno spazio-tempo metropolitano, sovraccarico di merci e vorticoso negli scambi: c’è chi festeggia «capodanni» e «seratine» in una Roma dove l’ordinaria rassicurante banalità si capovolge in violenza insensata (Ammaniti) e chi frequenta con frenesia consumistica i supermercati centrali e periferici di una Milano ormai plasmata dagli spot pubblicitari di Mediaset (Nove) . Ora, a fare loro compagnia sono arrivati, dalle diverse regioni d’Italia, magazzinieri abbandonati (Nori, Bassotuba non c’è) , manager di multinazionali (Nata, Il dipendente, La resistenza del nuotatore), sportivi frustrati e vendicativi (Governi, Il calciatore), ragazzi perbene chiusi nel falso movimento di gorghi mentali. (Nesi, Fughe da fermo) , traduttori gay, a cui una «tribù» di amici telefonicamente dipendenti chiede consigli e dà conforto (Golinelli, Come ombre): tutti costoro vivono ormai immersi entro i confini tracciati dalle dinamiche dello sviluppo cittadino. Quand’anche la scrittura rievochi le esperienze di una stagione adolescenziale passata nei borghi suburbani, la contiguità con l’area industriale non solo corrode le tranquille consuetudini familiari ma accelera il disfacimento dei rapporti di intrinsichezza amicale: la coesione organica della antica comunità si disgrega sotto l’urto della demenza cupa (Spinato, Il cuore rovesciato) .
Radicalmente urbana è l’ambientazione prescelta anche dall’altra schiera che anima il sistema letterario di fine secolo: le scrittrici, affermate o esordienti. Voci e Buio di Dacia Maraini si svolgono in affollati condomini della capitale; la «bruttina stagionata» della Covito ricerca «un terra-terra di sesso e niente più» nelle zone cittadine dove si trovano pornoshop e discoteche gay; il viaggio di formazione di Helena, nata da genitori ebrei polacchi, prende avvio nella Milano del dopo Sessantotto (Helena Janeczek, Lezioni di tenebra). Se Elena Stancanelli ama i vapori ammorbanti dei distributori di benzina aperti sui raccordi anulari (Benzina), il chiacchiericcio brioso cui si abbandonano le ragazze di Rossana Campo (In principio erano le mutande) suona affatto estraneo ai pettegolezzi malevoli che circolano nei cortili paesani. Non c’è da stupirsene: la narrativa femminile esplora e incide le tracce della propria differenza nello spazio elettivo dell’emancipazione liberatoria. Per quanto difficili siano i percorsi di crescita dell’io nell’anonimato e nel disagio metropolitani, nessun rimpianto può avvolgere la condizione di subalternità muliebre su cui si reggeva il mondo arcaico e patriarcale delle campagne. Seppur la rievocazione di un passato lontano ne ricostruisce le quinte di sfondo, gli accenti di nostalgia regressiva dileguano subito, cancellati dalle note acri di una consapevolezza angosciosa: una solitudine straziata alberga nei libri conturbanti di Laura Pariani, ambientati nella Lombardia contadina «con la fame, la miseria e la gnurantìgia della povera gente».
Proprio perché l’orizzonte della modernità sembra aver finalmente conquistato anche la nostra letteratura più recente, il tentativo di tracciarne una mappa precisa chiede la scelta di una griglia ordinatrice, che oltrepassi la più ovvia compilazione descrittiva: ma, per un repertorio di testi così eterogeneo e articolato, una tassonomia classificatoria per registri stilistici o procedimenti narrativi si rivela poco efficace. Le tecniche di montaggio e le cadenze espressive sono, infatti, molto diverse, talvolta opposte: la progressione dell’intreccio può privilegiare ora lo sviluppo sfasato di vicende parallele ora le scansioni lineari della banalità quotidiana; le arcature ampie della trama romanzesca si affiancano alle misure scorciate del racconto; sui procedimenti analitici dell’introspezione psicologica prendono il sopravvento le forme agili del dialogato; a un dettato medio, spesso limpidamente monocorde, si contrappongono sia le accensioni di pathos vibrante sia i timbri dell’oralità scaltramente trasandata. Più proficua, allora, si mostra l’adozione di un duplice criterio di lettura che chiarisca la tipologia delle funzioni compositive: da una parte le coordinate di genere che sorreggono la compagine strutturale, dall’altra l’orientamento del punto di vista focalizzato sulla dialettica centro-periferia. Sul versante «generico», lo sfondo urbano si impone, per statuto, nella serie fortunata dei polizieschi nostrani: nelle sfumature più cianotiche, giallo e nero coprono l’intero stivale. Mentre Kriminalbar di Piero Colaprico recupera, nella mescolanza di ultrapatetismo e cinismo trucibaldo, la ferocia livida degli scenari ambrosiani di Scerbanenco, l’hard boiled di scuola americana servito in salsa partenùpea si trasforma in Nero metropolitano (Michele Serio). Se la Vigàta siciliana del commissario Montalbano ricalca soprattutto le sagome cittadine care all’immaginario letterario, isolano e non, in Almost Blue di Lucarelli la dotta Bologna acquista lineamenti di incisiva crudele credibilità. In una città che non è mai «quello che sembra», in cui le contraddizioni si sprecano («Comune rosso e cooperative miliardarie», «Tortellini e satanisti»), si scatena la furia omicida di un paranoico seria! killer che, assordato da musiche rock e campane infernali, si accanisce sui corpi nudi di studenti e studentesse; l’ordine potrà essere ricostituito solo grazie all’«istinto cocciuto» e alla «concretezza selvatica» di una donna poliziotto di origine meridionale e alla «Cecità» di un ragazzo che «Bologna non l’ha mai vista. Ma la conosce bene», perché sa decifrare il colore delle sue voci. E la prosa nervosa e concitata di Lucarelli, nel montaggio alterno di prospettive diverse, esalta i procedimenti seriali della narrativa gialla, confermando la vitalità della scuola emiliana.
Anche in un’altra produzione di genere, per quanto poco frequentata dai nostri letterati, l’ambientazione metropolitana è d’obbligo: la science fiction e i suoi immediati dintorni.
Quando l’invenzione immaginosa non si proietta nell’universo acronico e atopico delle galassie lontane e si cala nello spaziotempo di una stagione prossima ventura dominata dalla tecnologia, è la capitale per eccellenza dello sviluppo post-industriale a innescare il meccanismo narrativo. In Nell’anno della Signora di Formenti, una plumbea Milano in rovina ospita il conflitto canonico tra passato e futuro, modulandolo sull’opposizione di equilibrio naturale e ibernazioni artificiose. Nella stessa città, disegnata da Roberto Perego con le tinte fosche di Blade Runner, imperversa, in un climax di splatterismo sconclusionato, una lotta per bande alla conquista di informatici «Rv-killer» di micidiale potenza distruttiva: però, non basta indicare le strade e le piazze del capoluogo lombardo, né richiamare i gruppi multietnici che si contendono i quartieri periferici perché «la giungla urbana assassina in cui tutti vivevano» acquisti l’evidenza dichiarata dal titolo Milano 2019. Linea di confine. Declinata al femminile, anche la «fantascienza» di Nicoletta Vallorani prende ispirazione dagli «avanzi diroccati» di Milano-Terra: e nel binomio è il primo termine a inglobare il secondo, perché «come sempre, tutto inizia da lì». La ricerca investigativa di Penelope DR, detective sintetica, si snoda fra mutanti, bambine psichedeliche, telepati e morelos, abitanti ibridi di Rogoredo, Bicocca e piazza Santo Stefano. La Torre Velasca è ormai un rudere, la pioggia di fango nasconde le guglie del Duomo, e tuttavia l’intonazione espressiva, pervasa di umori ironicamente corrosivi, mentre sbeffeggia la banalità orrorosa del cyber sanguinolento, sollecita il pubblico a sfatare le mitologie menzognere della nostra più riconoscibile quotidianità.
In sintonia con i motivi diffusi della cultura giovanile e nell’intarsio di paradigmi compositivi meno rigidamente strutturati, si muove Alessandro Bertante in Malavida, pubblicato dalle edizioni Leoncavallo. Intellettuale precario, autore di una guida della Lombardia, il cui incipit suona «La Pianura Padana è terra di deboli emozioni», il protagonista ci conduce, per una settimana, attraverso i luoghi canonici della Milano alternativa di fine secolo: il quadro cittadino che ospita gli scazzi punkettari di Alessio restituisce il clima di una metropoli disorientata, ma non priva di identità; così le figurine, schizzate a punta sottile, occupano con menefreghismo disinvolto e sbracato una scena collettiva dinamicamente aperta; solo stupisce che il finale sparga sull’acido e le luci psichedeliche dei concerti rave la melassa dolciastra del sentimentalismo rosa. In fondo i ribelli sessantottini di Porci con le ali, palesi fratelli maggiori di questi frustrati contestatori, attivavano con i lettori coetanei un dialogo più generazionalmente spavaldo.
Un ultimo campione di «genere» ci è offerto, infine, da due libri che si propongono, sin dal paratesto, come guide cittadine. A stupire non è certo la tipologia, fortunata e ormai plurisecolare, ma i nomi degli autori che vi si sono cimentati: Una gita a Firenze è firmata da Enzo Fileno Carabba e Venezia è un pesce. Una guida da Tiziano Scarpa. Il primo, abbandonate le foreste fluviali e gli spazi celesti, dove si consumavano divertenti mutazioni genetiche, si mette a girovagare per i più familiari quartieri medicei: calatosi nei panni di un Giamburrasca postmoderno, descrive con occhio straniato l’antica capitale del Granducato di Toscana, il cui ordine armonico è ormai diventato un «gran casino» affollato di orde turistiche. Nel secondo, la raffigurazione antropomorfa della città lagunare (Piedi, Gambe, Naso ecc., così si intitolano i capitoletti, a eccezione dell’incongruo Libri) tradisce una dose di snobismo intellettuale un po’ stucchevole, che mal cela la furberia dell’operazione editoriale. A risarcirne in parte la gratuità, è il veleno che, per acconsentire alla metafora, sta nella Coda, una «microantologia di testi veneziani»: nel raccontino Le pietre assassine, dello stesso Scarpa, il claustrofobico fascino artistico della Serenissima chiede un sacrificio di morte. Come per l’altrettanto sfizioso romanzo di Baricco, anche per questa Guida, vale più l’idea progettuale, condensata in un bel titolo, che la forza rappresentativa della scrittura.
Nondimeno, proprio lo scacco compositivo di questi due autori di sicuro profilo stilistico chiarisce un tratto distintivo del nostro atlante cartaceo. La city, poco importa se ricca di cultura o di traffici, percorsa da abitanti indaffarati o nullafacenti ma tutti contagiati dal nevrotico «disagio della civiltà», è lo sfondo prediletto su cui proiettare destini individuali e storie collettive: e tuttavia di quella scena non si dà corposa suggestiva raffigurazione. La maggior parte dei nostri scrittori assume narrativamente l’orizzonte della modernità urbana ma stenta a metterne a fuoco con evidenza riconoscibile i lineamenti specifici. Ecco perché l’ultimo libro di Baricco indicava la soglia del percorso: esemplare nella sua aspirazione architettonica, è altrettanto significativo per le figure d’assenza e di vuoto entro cui quell’«idea di città» si cala.
A confermarci questa sfasatura è l’altro criterio di lettura che, attento al punto di vista, documenta l’opposizione nevralgica fra centro e periferia. Non è, sia chiaro, una questione di tecniche descrittive né, tanto meno, un problema di tipizzazione realistica: si tratta piuttosto di una scelta di campo prospettico che della totalità metropolitana ritaglia le sezioni ultime e estreme. Da questo osservatorio borderline, gli scrittori di fine secolo scrutano e mostrano l’«inferno» dell’hinterland, l’«altrove» del suburbio, il deserto caotico delle bidonville. L’agglomerato soffocante di una città «enorme, senza confini, piatta» (Bruno, Cirlé e altri racconti) non prevede la dinamica tra spinte al radicamento e moti d’estraneità, processi d’integrazione e ansie d’evasione, perché l’individuo, forestiero a sé e agli altri, smarrisce il senso della propria identità e confonde le misure del tempo e dello spazio.
Nell’abrasione delle caratteristiche storico-urbane, ogni distinzione sociale si annebbia: qui abita e si muove una «massa» indifferenziata che, ben diversa dalla «folla» delle metropoli, si aggrega per bande, agisce «in branco», si affida a coloro a cui solo la devianza pare offrire occasioni di temerario riscatto. Nelle «nuove periferie multietniche», per adottare un’efficace etichetta di Fulvio Panzeri (Altre storie) , il degrado anonimo campeggia: se il «grande raccordo» di Lodoli abbraccia una città babilonica e allucinante, l’«erba cattiva» di Andrea Carrara nasce nei dintorni della stessa capitale, pervasa dalle furie di una brutalità che colpisce a caso. Novelli «palombari sociali», questi autori non si calano più nei sottosuoli cittadini, ma si abbandonano alla deriva di un moto centrifugo che aliena l’io e chi lo racconta, disperdendone le risorse di umanità negli interstizi lugubri e infidi dell’urbanizzazione selvaggia. Ciò che colpisce in questi libri non è l’empito della denuncia, e nemmeno la gamma eterogenea dei procedimenti strutturai-compositivi cui è affidata – ancora una volta le opzioni linguistico-espressive e le tecniche di narrazione sono le più diverse -, quanto piuttosto l’uniformità topologica che assume sempre in tutti l’esperienza della modernità. Nell’ottica negativa della marginalità eccentrica, che richiama la pasoliniana vita violenta senza però l’ardore ossimorico della «disperata vitalità», il quadro metropolitano è livellato e monocromo, privo di segnali d’orientamento, povero di determinazioni geografiche. Il paese delle «cento città», dell’immedicabile frattura Nord-Sud, dei più recenti «distretti» produttivi, delle rivalità accese fra le capitali, in campo letterario si appiattisce su una figura orrida di megalopoli scontornata. Visione simbolica del villaggio globale? Allegoria dell’omologazione planetaria? Emblema dello «spazio liscio» dell’ipermodernità? Forse nelle intenzioni degli autori; nella pratica di scrittura, balugina piuttosto lo struggimento aggressivo di un rimpianto represso per le antiche comunità organiche, dove stupidità e violenza certo non mancavano ma fermentavano occulte nell’intimità insana delle mura domestiche e si arroventavano nel silenzio omertoso del familismo amorale.
Quando lo sguardo del narratore abbandona le zone di confine e tenta d’abbracciare l’interezza contraddittoria delle dinamiche urbane, il volto metropolitano si compone per scorci e schizzi giustapposti, spesso efficaci per ruvidezza ma sempre privi di profondità prospettica. Ad accamparsi, in questi testi, sono i cosiddetti «non-luoghi», spazi aperti di uno sviluppo economico postfordista che non solo cancella la dimensione naturale, ma tutto ingloba nella circolazione frenetica delle merci: e nell’elenco iperrealistico di etichette targhe marche di prodotti e oggetti, nulla distingue il supermercato di Santo Domingo dalla Esselunga di Bollate. Lungi dal rimandare a un paradigma interpretativo post-moderno, l’immagine che circoscrive la società contemporanea entro la sfera del consumo affonda le sue radici nella tradizione intellettuale d’inizio secolo, quando esplode il ciclo espansivo dell’urbanizzazione capitalistica. Il tratto di novità sta semmai nello slittamento del fuoco narrativo sino al termine ultimo della catena distributiva, laddove si accumula la massa strabocchevole dei rifiuti: sì, proprio quelli raccolti dalla Nettezza Urbana. Esemplari di questa tendenza sono due romanzi recenti, accomunati dalla stessa attenzione per i lavacassonetti, le tecniche di spurgo, i problemi dello smaltimento. In Stramonio di Ugo Riccarelli, è la voce ingenuamente straniata del protagonista a rievocare le tappe di un’iniziazione alla maturità via pattume: grazie alla solidarietà brusca dei compagni dell’ARIA (Azienda Rifiuti Inquinamento e Ambiente) e all’amicizia affettuosamente scorbutica del loro caposquadra, Stramonio impara non solo a conoscere gli uomini selezionando ciò che essi gettano via ma a recuperare il senso del proprio destino attraverso la fatica di un lavoro che dà ordine e pulizia all’intera collettività. Nell’altro, La discarica di Paolo Teobaldi, un narratore esterno, ma molto partecipe e più intellettualmente pretenzioso, ripercorre le vicende private e professionali di Tiziano Rossi detto Tizio, seguendone le idiosincrasie olfattive, dal fallimento matrimoniale all’allestimento di una mostra: «L’odore delle cose. Cinquant’anni di accumulazione secondaria», ovvero gli scarti puzzolenti del nostro spreco quotidiano. Peccato che, in entrambi i libri, il piglio iniziale si affievolisca nel corso del racconto, sfilacciandosi in trovate insulse o eccessivamente insistite (il liceo dove studia Stramonio è intitolato a «Rodolfo Ippolito Fiuti», la massima fetenzia rifluisce sotto il Palazzo dei Duchi, sede del potere politico; alla emblematicità del soprannome Tizio corrisponde il catalogo rituale delle pulizie domestiche) fino a esasperarsi nel climax finale: il tono apocalittico a cui si abbandona Riccarelli è solo l’altra faccia dell’happy end che, in fragranza di calicanto, chiude il romanzo di Teobaldi.
La città acquista lineamenti riconoscibili solo quando il narratore abbandona lo scenario contemporaneo per proiettare le vicende dei personaggi sullo sfondo limpido del ricordo individuale o della memoria storica. Ecco allora, animata in un suggestivo gioco di luci ed ombre, la Milano del Talento (Cesare De Marchi) e la Genova dei caruggi nella Regina disadorna (Maurizio Maggiani).
Nel primo l’io narrante, in una prosa elegantemente orchestrata, spesso mossa da fremiti di sostenutezza espressiva, traccia la parabola di un percorso esistenziale che si sviluppa lungo precisi itinerari urbani. Acconsentendo al suo moto altalenante fra intraprendenza e frustrazione, il lettore accompagna il protagonista Carlo nel reticolo dei quartieri popolari che fanno da corona ai giardini della Palazzina Liberty, lungo i viali alberati della circonvallazione, nelle strade vivaci del centro, ricco di lavoro e mondanità, fino alle tangenziali gremite d’auto. Ne emerge il profilo affettuosamente perfido del capoluogo lombardo negli anni del dopoguerra e del primo boom economico, dove si incrociano la spavalderia senza scrupoli degli affaristi, la spocchia degli intellettuali falliti, le aspirazioni al benessere delle famiglie «decorosamente malestanti». L’esplorazione della metropoli, entro cui si consuma questa vita poco talentosa, disegna il tracciato di una società ancora sospesa fra le abitudini tradizionali e le tensioni inquietanti di una modernità che si affaccia improvvisa: quanto più Carlo, animato da una «caparbia sete di felicità», le sfiora senza mai esserne coinvolto esibendo un candore non si sa se stupido o beffardo, tanto più diventa cittadino esemplare di una collettività investita da uno sviluppo che non riesce a governare.
Molto diverso, ma altrettanto seducente, il ritratto della città portuale di inizio secolo da cui muove la vicenda di Paride e Sascia, nella Regina disadorna: i colori, gli odori, le voci dei traffici e mercanteggiamenti invadono la pagina e ci restituiscono l’atmosfera di Genova, «grande tra le città del mondo». La scrittura di Maggiani ha un tono epicamente ricercato, arricchito da intarsi dialettali e cultismi aulici, che allestiscono una scena leggendaria, segnata nondimeno da corpose tracce di storia locale: quando la trama abbandona l’animazione vivace degli angiporti e l’oscurità profumata dei retrobottega, per inoltrarsi nei paradisi primitivi delle isole del Pacifico, il romanzo perde mordente. La struttura bipartita del testo è segno di una cesura non solo spaziale: la miscidanza di concretezza operosa e magiche malie che aveva caratterizzato le figure protagoniste nella Genova antica svapora nelle note false dell’esotismo di maniera. Così la sequenza finale con il vecchio ronzino Ursus, controfigura dell’elefante imbizzarrito che all’inizio aveva atterrato la madre di Sascia, accusa l’insensatezza del caso, non la forza ineluttabile del destino: e sancisce, semmai, il tramonto di una città che non è più «grande davvero, tanto grande e fascinosa e indispensabile, che era impossibile non arrivarci un giorno, anche per il più inaccessibile e lontano tra i potenti».
Una sola vera metropoli si staglia nel recente panorama letterario: un’eccezione che suona quasi paradossale. Per i nostri scrittori, la città italiana che merita di essere raccontata nell’esemplarità contraddittoria del suo sviluppo tumultuoso è Napoli.
Annunciata, con toni vividi e crudeli, dalle voci femminili di Fabrizia Ramondino (Star di casa) e di Elena Ferrante (L’amore molesto), la capitale meridionale diventa la protagonista ingombrante e prepotente della narrativa di fine secolo. Non sappiamo se gli autori abbiano accolto l’invito lanciato dal sindaco Bassolino, all’indomani del G7 in risposta alla provocazione di chi, come La Capria o De Luca, la dichiarava ormai «inenarrabile» («Tuttolibri» n.918, agosto 1994); certo è che, in questi anni, i libri ambientati nei Quartieri Spagnoli, a Mezzocannone, Salita Concezione e Montecalvario, Chiaia e Mergellina si accalcano sui banchi delle librerie, proponendo ai lettori il ritratto di un’insultante macerata modernità. L’ultimo arrivato esibisce in copertina il nome di una famosa strada del Vomero, Via Gemito, e porta la firma di Domenico Starnone. Accantonati gli ambienti chiusi delle aule scolastiche, la vicenda del protagonista narratore, alla ricerca delle proprie origini, si aggira nell’intrico solare e buio dei quartieri, colmi di melanconia euforica e di gloriose infelicità, che si affacciano sul più bel golfo d’Italia.
Anche le opere di Beppe Lanzetta ostentano nel titolo il carattere equivoco di una dimensione che pare coniugare i poli opposti del sottosviluppo levantino e del postmodernismo d’oltreoceano: Un Messico napoletano, Tropico di Napoli, Figli di un Bronx minore. Nelle catene anaforiche che ossessivamente punteggiano la sua prosa, prende luce la fisionomia inedita di una collettività tanto desiderosa di uscire dalle sacche di miseria e umiliazione del passato, quanto attratta dai gorghi di uno sviluppo convulso che brucia le energie vitali: in questo luogo di modernità cieca, dove il progresso procede a sghimbescio e spesso a ritroso, la ricchezza non nasce mai dal lavoro e i traffici malavitosi contaminano ogni sforzo di rinnovamento. Il macrocosmo napoletano è sempre il regno elettivo dell’umoralità irriflessa, della visceralità ardente che alimenta ora gli istinti d’aggressività spietata ora la brama disperatamente possessiva di corpi e denaro.
Sia Giuseppe Ferrandina in Pericle il Nero sia Michele Serio in Pizzeria Inferno si premurano di dichiarare che «ogni riferimento a luoghi esistenti è casuale», ma il vezzo ultraletterario non fa che esaltare per contrasto la napoletanità dello sfondo ambientale. La sequela ridondante dei toponimi che sorregge il racconto di entrambi rinforza l’evidenza corposa di un tracciato di luoghi, vie, quartieri a cui il colorismo pittoresco imprime un segno inconfondibile. Serio punta a esiti di splatter repellente – morti viventi che ritornano dalle cavità infernali – più vicini al tremendismo del granguignol che all’ironia beffarda della pulp fiction alla Tarantino. Ferrandina innesta i procedimenti delle sceneggiature cinematografiche sulle inflessioni di un’oralità popolare, scandita su un dialogato secco e incisivo, che allude al dialetto soprattutto nell’ordito morfo-sintattico («si è stato zitto», «lei ci teneva una fissazione»).
In tutti questi libri, unica autentica protagonista è Napoli: a darle centralità è la tecnica di fisionomizzazione adottata dai vari autori per tratteggiare i loro personaggi. Figure fumettistiche o sagome stilizzate, i protagonisti di Ferrandina, Serio e Lanzetta non hanno lo spessore di un carattere: basta il nome, o meglio il soprannome a definirne il profilo; sono tipi esemplari di un’umanità poco intelligente, spesso furba, sempre eterodiretta che si arrabatta nella centralissima via Medina come nei sobborghi degradati di Forcella. Il montaggio franto e veloce, che contamina il ritmo melodico delle canzonette con le note percussive del jazz o del blues e frammischia gli schizzi del bozzetto con le schegge dell’immaginario americano di massa, esalta la brutalità con cui il nuovo si innesta, irrobustendole, sulle abitudini inveterate: la repressione atavica del desiderio si rovescia in licenziosità morbosa e corrotta; la fame nera in ingordigia bulimica. Il cortocircuito è troppo facile e immediato per produrre squarci di visione illuminanti; la miscidanza di cadenze dialettali e sound made in Usa crea effetti di ridondanza fastidiosa, di fibrillazione stilistica eccessiva: nella Napoli-San Francisco del cattivo tenente continua a riecheggiare in sottofondo il ritornello antico di Carosone. Peggio: il parallelo esplicito o mascherato fra Afragola e Chicago, Mergellina e Las Vegas suggerisce il rimpianto assurdo per gli «anni innocenti e spensierati» di una stagione appena passata, quando «la città era povera ma non feroce, povera ma dignitosa, povera ma sapeva ancora ridere» ( Tropico di Napoli) . Eppure nell’assemblaggio di sequenze narrative che crescono metastaticamente e nell’arrangiamento di timbri dissonanti, emerge il grumo di contraddizioni che è al centro dell’odierna questione meridionale: un processo di modernizzazione urbana che ha saltato le tappe produttive dello sviluppo per raggiungere traguardi di ricchezza distorta, in cui gli affari sono trattative losche, la rete commerciale è costituita dagli spacciatori di droga e cassette pornografiche, il sogno del benessere è sempre consegnato, come in Matilde Serao, alla vincita al lotto. E al pari di un secolo fa, per scoprire il carattere autentico di questa collettività minacciosa e dolente il lettore deve visitare il ventre di Napoli, o meglio calarsi «Nel corpo di Napoli».
n romanzo di Montesano è un libro importante, costruito con grande perizia compositiva e su un registro stilistico abilmente orchestrato. Poche le concessioni al colore locale: anche l’opposizione convenzionale fra la città solare e il mondo infero delle fogne, dove si celebrano strani riti alle divinità ctonie, si riscatta grazie alle note amaramente grottesche dell’humour nero. Il salto espressivo è dato dall’intonazione equivoca della voce narrante, che pur appartenendo a uno dei due protagonisti, non sollecita mai il lettore a credere alle loro fasulle paranoie intellettuali. Il narratore trascrive con tanto maggior implacabilità i rovelli crucciosi dei due eterni studenti sfaticati, quanto più sornionamente ne prende le distanze e ne svillaneggia l’indolenza logorroica, il ribellismo inconcludente, il gusto narcisistico della provocazione velleitaria. La progressione narrativa non potrebbe essere più lontana dall’intreccio fumettistico che negli altri libri accumulava fatti e misfatti, sgarri e vendette; il ritratto della collettività partenopea si compone su un diagramma di linee affatto contrario a quello delineato dai «neri metropolitani»; e nondimeno il romanzo di Montesano avvalora il paradosso di una modernità priva di ogni tensione di sviluppo; anzi, con furia ancor più denigratoria mette sotto processo l’intellettualità borghese che dovrebbe orientarla. Anche nel Corpo di Napoli non c’è spazio per la dimensione lavorativa, ma se in Ferrandina o Lanzetta l’incubo dei soldi combattuto con lo spaccio di sesso e droga è come giustificato, riassorbito nei giri infimi del sottoproletariato, i personaggi di Montesano incardinano la loro esistenza sul rifiuto ideologico della fatica operosa: per scelta poetica, per rivalsa edipica, per contestazione generazionale, forse per attaccamento sincero alla cultura profonda della città. Così nelle volute ampie e lente di una scrittura raffinata, ricca di citazioni letterarie e di suggestioni filosofiche, si brucia senza residui né speranza di riscatto la tradizione umanistica dell’idealismo meridionale. In copertina, una splendida foto in bianco e nero della costa di Bagnoli conferma che ancora, in verità, il mare non bagna Napoli.