Così scrisse Luttazzi

Se Carducci custodiva la biancheria intima di Annie Vivanti per inalarne all’occorrenza i tonici effluvi, Daniele Luttazzi è capace di annusare le mutande di Anna Falchi e di sfoggiarle poi nel taschino della giacca; ma sa anche inscenare atti di coprofagia e sgranare «lepidezze postribolari» come fossero le orazioni di un rosario. Dietro le provocazioni più smaccate, però, si scoprono nei libri del mattatore televisivo contenuti letterari tutt’altro che spregevoli, resistenti alla facile usura delle speculazioni editoriali.
 
Se si comincia a mangiare la cacca, c’è gente che si sente minacciata.
Altan, 10 febbraio 2001
Nella comune percezione critica i libri di Daniele Luttazzi mancano non solo di una dignità ma anche di un’identità letteraria vera e propria. In quanto sottoprodotti dell’industria culturale di matrice televisiva, vengono esclusi a priori dall’universo della letterarietà. Il loro «vizio» d’origine consiste nel situarsi allo snodo di confluenza tra diversi mezzi espressivi. Portatori come sono di un’incorreggibile doppiezza estetica e, peggio, beneficiari della popolarità massiccia garantita dalla televisione, rischiano così di essere esclusi persino dall’ambito della paraletteratura. A ciò contribuisce peraltro la loro stessa costituzione testuale, in apparenza franta e destrutturata, che li priva di uno statuto di genere perspicuo e univoco, e consente di rifondere i medesimi materiali nelle diverse occasioni di stampa.
I testi di Luttazzi derivano in gran parte, come quelli di molti altri attori comici, dall’assemblaggio dei motti, lazzi, sketch, monologhi, sceneggiature, copioni su cui si basano i suoi spettacoli teatrali e televisivi. E vero che a tratti si avverte in essi la brusca immediatezza del passaggio da un mezzo all’altro, tale da presupporre nel lettore una precedente fruizione sotto specie performativa. E quando non risulta possibile la conversione degli eventi «spettacolari» in scrittura, le didascalie soccorrono alla meglio. Simili casi, tuttavia, costituiscono un aspetto secondario nei volumi dell’umorista romagnolo, che tollerano in effetti una lettura indipendente dalle loro interpretazioni sceniche.
Sulla pagina vengono meno la fisionomia spiccata e scattante dell’autore-attore, la sua incalzante freddezza recitativa, ma il testo si avvantaggia del codice librario in cui viene calato, per conseguire effetti specifici altrimenti impensabili. Nel momento di adattarsi al veicolo editoriale, sono messe a frutto le diverse opportunità di significazione della forma-libro: a cominciare dai risvolti di copertina, i frontespizi, le istruzioni per l’uso, che ospitano alcune delle trovate più spassose e orientano in sede preliminare il destinatario: «Questo libro è stampato su carta ricavata esclusivamente da alberi criminali che meritavano di essere abbattuti» (Luttazzi Satyricon), «AVVERTENZA IMPORTANTE: Un giorno, l’intero universo (compreso questo libro) potrebbe collassare in un punto infinitamente piccolo. Se un altro universo dovesse in seguito riemergerne, l’esistenza di questo libro in quell’universo non può essere garantita» (Cosmico!).
Le accuse di consumismo subletterario sono accolte e rivendicate beffardamente non solo rispetto al contenuto concettuale ma alla stessa materialità costitutiva del testo: «Una valida alternativa all’intrattenimento intelligente» (Cosmico!); «(Appiattire dopo l’uso)» (Barracuda). Accanto alla primaria valenza autoironica, slogan di questo tenore sottendono l’effettiva svalutazione dei prodotti letterari, giornalistici e soprattutto televisivi ai quali Luttazzi rifà il verso. Telegiornali, notiziari, annunci, interviste, documentari, sit-com, programmi d’informazione o intrattenimento sono passati al tritacarne di una parodia surreale: ne emergono tutto il pressapochismo facilone, l’arrivismo trasformista, il narcisismo divistico, la sguaiatezza dozzinale di cui spesso sono sostanziati.
Molti di questi libri denunciano sin dal titolo la parentela con gli omonimi spettacoli, rubriche o show condotti da Luttazzi: Tabloid, Sesso con Luttazzi, Barracuda, Luttazzi Satyricon, Teatro. Rettili & roditori, Scene da un adulterio. Ma altri sussistono invece, con autonomia linguistica compiuta, in una dimensione pressoché interamente letteraria, pur restando passibili di un adattamento per la scena o la telecamera: Adenoidi, 101 cose da evitare a un funerale, Locuste, come le formiche sono più cattive, C.r.am.p.o., Va’ dove ti porta il dito. Bisognerà notare allora che l’impostazione degli uni non si discosta in maniera rilevante da quella degli altri: insomma l’origine o la mediazione televisiva non incide più di tanto sulla struttura dei testi editi. I quali tutti inoltre sviluppano un robusto nesso tra la parola scritta e le immagini-disegni soltanto all’interno dell’orizzonte librario. Assieme a una grafica dinamica e imbonitoria, l’apparato iconico così strettamente integrato al testo ne riafferma l’appartenenza all’universo tipografico-letterario nel mentre agevola e sveltisce l’impegno di lettura.
Gli spettacoli di Luttazzi d’altra parte sono «retorici» in sommo grado: consistono in azioni discorsive, si fondano sul linguaggio e vengono concepiti come testi. Il punto è che adottano la sintassi compositiva di una comicità rapida, animosa, fulminante: i ritmi d’impostazione del discorso e il suo scioglimento sono alquanto scorciati. Ed è questa la ragione fondamentale per cui lavori siffatti funzionano egregiamente in televisione: perché si adeguano alla tempistica accelerata e ristretta imposta dall’estetica catodica prevalente. Il fatto che l’umorismo di Luttazzi operi sulla stessa minimale lunghezza d’onda del linguaggio televisivo, non preclude comunque la sua godibilità per il tramite della lettura.
L’unità testuale di base è il motto di spirito, che appare dominante anche qualora il discorso assuma uno svolgimento estesamente narrativo. Una porzione assai ampia delle opere luttazziane è occupata infatti da lunghe sequenze di battute spicciolate che vertono sulle questioni più diverse, di maggiore o minore urgenza entro l’immaginario collettivo: sesso, religione, politica, lavoro, criminalità, salute, famiglia, scienze, invenzioni, scuola, cultura, divertimenti, passatempi. La loro alterna scansione conferisce all’insieme varietà e movimento: sono toccate tutte le circostanze e le ossessioni dell’esistenza associata, al pari di tutte le evenienze e i disagi della psicologia individuale. Ne risultano, per così dire, dei breviari umoristici di andamento aforismatico, che sovvertono però la presunzione d’autorevolezza oracolare propria nell’inattendibilità scompisciante del buffone.
Ogni nucleo discorsivo si condensa nell’arco di poche righe, non di rado in una soltanto; quanto più forzosa è la sintesi logica, e implicito lo svolgimento dell’argomentazione, tanto più efficace si rivela l’esito comico: «MEDIO ORIENTE. Prosegue il processo di pace. 67 morti» (Tabloid). A ogni modo, nel singolo motto è sovente riconoscibile una struttura ternaria: un assunto generale o di base introduce il tema ovvero definisce il contesto d’avvio, segue un assunto particolare di complemento o precisazione che si pone in ovvia sintonia con il precedente e consolida le aspettative da esso indotte, interviene infine una conclusione eccentrica — iperbolica o banalizzante che contraddice in termini grotteschi le premesse o le conferma per forza di paradosso. Dal deragliamento della coerenza elocutoria, dallo scarto di registro emotivo, non può che scaturire la risata.
Non diversamente si articola la finzione epistolare su cui Luttazzi basa parecchi dei suoi soliloqui. Nell’ambito di questo genere la proposta del tema si suppone provenire dal pubblico: da lettori o spettatori che rivolgono domande sulla vita privata, il lavoro, le opinioni dei protagonisti-narratori, o più spesso espongono i problemi da cui sono afflitti e chiedono suggerimenti in proposito. Le curiosità e gli assilli che alimentano gli interrogativi del pubblico fittizio si segnalano per ovvietà ingenua, pretta idiozia, strampalatezza o ridicola eccezionalità. Le risposte del resto, nella loro frequente inconseguenza rispetto ai quesiti, sono condotte sui medesimi toni, senonché il protagonista maschera la propria folleggiarne sprovvedutezza con l’ostentare sufficienza benevola, sussiego sapienziale o intimità sfrontata nei riguardi degli interlocutori. L’asimmetria tra i corrispondenti trova conferma nella disparità degli spazi testuali riservati alle domande e alle risposte: per lo più succinte le prime, sbrigliate e sovrabbondanti le altre. Sesso con Luttazzi è interamente costruito per mezzo di questo modulo interrogativo-responsivo, così come in altri libri i capitoli dedicati alla «posta» o alle «interviste».
Le serie di motti e gli essenziali brani dialogici sono raccordati talora intorno alla ricorrenza di alcuni personaggi o tematiche, in maniera da abbozzare, se non contraffare, una sorta di trama. I raccontini, le prose brevi, gli apologhi amorali nei quali talora il dettato acquista lineamenti narrativi sono intessuti, anzi costituiti di battute infilzate una via l’altra. L’intreccio delle vicende, d’altronde, obbedisce al medesimo principio di dismisura fantastica che presiede alla funzionalità della facezia scompagnata. Non abbisogna quindi di sorveglianza particolare, anzi il profitto maggiore proverrà in questo senso da una sconclusionatezza allucinata. Alcuni degli schizzi narrativi più riusciti si ritrovano in Adenoidi: Martini contro Galactus, ad esempio, narra lo scontro apocalittico tra l’onnipotente avversario di Silver Surfer e l’arcivescovo di Milano, alleato a difesa della Terra con i Fantastici 4 e gli X-Men.
Si coniugano insomma tratti paraletterari e tratti antiletterari: giallistica hard boiled e sapere sofisticato, fumetti popolari e seriosità clericale, reminiscenze televisive e pletora merceologica, protagonismo sportivo e slogan pubblicitari, leggende metropolitane, spocchia intellettualoide, miracolismo scientifico-tecnologico sono centrifugati assieme ad altri eterogenei elementi desunti da ogni livello del sistema culturale per produrre storielle buffe e aberranti.
Se poi il pretesto fabulatorio è fornito da un bersaglio parodico di cui ribaltare passo passo gli sviluppi, un simile procedimento di racconto può essere stiracchiato alla dimensione di «atto unico», come avviene in Scene da un adulterio ai danni di Bergman, o alla misura romanzesca di Va’ dove ti porta il clito: che rovescia nella comicità pornografica più sbracata l’efferatezza sentimentale profusa da Susanna Tamaro in Va’ dove ti porta il cuore. Da un lato il burrascoso rapporto tra nonna Olga e sua nipote, rievocato in chiave patetico-appendicistica, dall’altro l’intesa carnale tra una nonna ninfomane e il nipote adolescente, mediata dalla visceralità animalesca del transessuale Fernanda e ravvivata da un innocuo corredo di scatologia e sadomasochismo.
Nonostante l’apparente scompigliatezza degli assetti semantici, tuttavia, il linguaggio di Luttazzi resta sempre chiaramente comunicativo. Modellato su un italiano formale ma accessibile, si apre agli apporti dei gerghi giovanili e ai modi della colloquialità anche triviale, senza disdegnare gli americanismi di pertinenza soprattutto massmediatica. A garanzia di fruibilità, le opzioni sintattiche ripetono dal discorso orale il loro procedere coordinativo, frammentato da segni di punteggiatura forte. La componente lessicale più caratterizzante e rappresentata dalla terminologia clinica, che l’autore padroneggia in virtù dei suoi studi in medicina. La si ritrova, oltre che in Sesso con Luttazzi, specialmente in Cappuccetto splatter, un racconto compreso nell’antologia Gioventù cannibale che traspone la celebre favola nel circuito milanese della moda e la rielabora in direzione orrorifico-grottesca. Il ruolo di Cappuccetto rosso lo interpreta infatti una modella ungherese asmatica, mentre il lupo seviziatore è il «P.R.» Marco: e ogni atto di violenza, descritto con un’algida puntigliosità anatomica, è inflitto per mezzo di utensili e oggetti domestici identificati dal marchio di fabbrica. Perciò a ciascun organo violentato si abbina il nome di un prodotto, quasi a conferire una tangibilità lancinante, eppure fasulla, all’assedio consumistico delle merci e della pubblicità.
La critica satirica di Luttazzi sembra esercitarsi a 360 gradi, senza risparmiare nessuno, concedendosi assidue incursioni nell’area dell’umorismo nero. Ma i personaggi da cui essa promana non si raccomandano certo per costanza e affidabilità, e spesso neppure per acume d’intelligenza. I giudizi quasi sempre condivisibili che si celano nei cortocircuiti logico-emotivi dei loro motti di spirito sono infirmati dal dichiarato compromesso con i disvalori e gli atteggiamenti che loro stessi mettono alla berlina. Non tanto sono detentori di prospettive davvero stranianti, quanto partecipi dell’imbecillità che vanno illustrando nel loro discorso. Qualche volta offrono sì punti di vista alternativi, giungendo a conclusioni esplicite di razionale buon senso, ma più abitualmente si dimostrano solidali all’universo dissennato che pure s’incaricano di denunciare. In fondo appartengono a quell’immaginaria classe dirigente composta di professori, politici, pedagoghi, capitani d’industria, luminari incravattati (quali appaiono nell’apparato fotografico) che essi bersagliano con i loro sfottimenti o che onorano dei loro encomi antifrastici e delle loro citazioni bibliografiche stralunate.
La leziosità schizofrenica di Panfilo Maria Lippi e del suo amico immaginario Dingo, il metaforismo psicotropo del professor Fontecedro, la professionalità maniacale del «dott. Luttazzi» sono altrettanti aspetti del principio di piacere montato in cattedra. Non solo destituiscono di legittimità le ordinarie inibizioni ma dettano le norme di un universo capovolto, in cui il primato è riconosciuto al vitalismo fisiopsichico individuale, di contro alla cretineria e alla malizia generalizzata che rilevano tutt’intorno.
Il C.r.a.m.p.o., «corso rapido di apprendimento minimo per ottenebrati», riconferma nella platea studentesca la principale componente del pubblico di Luttazzi: si tratta di un bigino enciclopedico basato sul presupposto utilitaristico, svolto fino all’assurdo, che il successo socioeconomico del singolo non sia per niente commisurabile ai suoi meriti, né tanto meno alle sue competenze. Il «dott. Luttazzi» si prodiga a delucidare compitamente perversioni pittoresche e satiriasi arzigogolate, confortando la trattazione con dovizia di esperienze vissute sulla propria pelle. La sessualità adulta regredisce nelle sue parole alla fase orale, e la pulsione libidica si confonde con quella fagica, fino alla sovrapposizione di copula e crapula. Stupirà allora riconoscere qua e là, fra tanti immaginosi spropositi, un’autentica propensione didattica a impartire laiche nozioni di educazione sessuale.
In definitiva, se al riduzionismo «edonistico» delle creature luttazziane non reggono le leggi della fisica, né quelle della logica, né quelle della fisiologia, figurarsi quale sarà la tenuta dei codici giuridici e morali. Tutto ciò non sbocca nel trionfo nichilistico dell’indifferenziato: benché tendano sovente al nonsense e al demenziale, in questi libri permane sempre una consapevolezza ideologica marcata. E pur vero tuttavia che i personaggi-narratori sono i soli a ergersi sopra un brodo primordiale di turpitudini e stramberie, in grazia della loro sarcastica esuberanza. Sono loro i depositari di un principio ordinatore, per quanto anomalo e provocatorio, del caos evenemenziale. In tal senso, se Luttazzi scampa per solito al rigorismo del moralista, non sempre si sottrae ai rischi dell’autolatria anticonformistica. Il candido entusiasmo espresso da un personaggio di Aldo Nove sarà dunque da temperare con qualche cautela. «Daniele Luttazzi vale da solo dieci Alda Merini e cinquanta Mario Luzi, il fatto che esiste Daniele Luttazzi mi rende felice» (Superwoobinda).