Il manuale come laboratorio storico

Il fallito tentativo del presidente della regione Lazio di formare una commissione preposta al «controllo» dei manuali di storia denunciava una concezione della didattica in cui lo studente e l’insegnante avevano solo un ruolo passivo e l’attenzione si concentrava sul libro di testo, inteso come una sorta di vangelo da assimilare acriticamente. Oggi, invece, lo studio della storia non consiste più in una semplice memorizzazione di dati e date, ma in una sorta di laboratorio di cui il manuale è l’indispensabile strumento di lavoro tanto per gli insegnanti quanto per gli studenti.
 
Tra i tanti demeriti dell’iniziativa sui libri di testo di storia assunta, nell’autunno 2000, dal presidente della regione Lazio Francesco Storace, vi è anche quello di non aver suscitato un serio e approfondito dibattito sul tema dell’insegnamento della storia nella scuola italiana e sulla funzione dei libri di testo. Infatti, come purtroppo capita spesso nel dibattito politico italiano, superata la fase di polemica con gli avversari, l’oggetto del contendere è passato nel dimenticatoio. Cercherò in questa sede di colmare in parte questa lacuna, facendo tesoro del fatto di essere in questo ambito decisamente in prima linea, in qualità di docente di storia e filosofia nelle scuole superiori e di autore di manuali di storia per gli istituti professionali di Stato.
Il punto di vista, sulla base del quale riesaminare la vicenda è quello didattico. Dei tre protagonisti del processo di insegnamento-apprendimento lo studente, l’insegnante e gli strumenti didattici nell’ottica storaciana i primi due passano decisamente in secondo piano, svolgendo una funzione meramente passiva, mentre gli unici protagonisti sembrano essere esclusivamente gli strumenti didattici, peraltro ridotti al solo libro di testo. In sostanza, emerge l’idea che per lo studente lo studio della storia consista semplicemente nella memorizzazione acritica delle pagine del libro, senza alcun intervento di mediazione da parte dell’insegnante. Ora, benché certamente non manchino docenti il cui metodo di insegnamento della storia consiste semplicemente nella attribuzione agli studenti delle pagine del manuale da studiare a casa, per lo più le cose nella scuola italiana di oggi non funzionano così. In particolare, negli ultimi due decenni si è sempre più diffusa tra gli insegnanti italiani una didattica della storia di tipo attivo e operativo. Secondo questa impostazione, lo studio della storia non deve consistere nella semplice memorizzazione dei contenuti del manuale, ma deve essere il risultato di una serie di operazioni di composizione e ricomposizione del testo, attuate con l’ausilio di strumenti come grafici, tabelle, mappe concettuali, ecc. E evidente che, secondo questo tipo di approccio, il manuale cessa di essere, se mai lo è stato in passato, una sorta di «vangelo» da assimilare passivamente, ma diventa uno strumento di lavoro da accogliere criticamente.
Questo tipo di approccio emerge sempre più spesso dalla struttura stessa dei manuali. Ormai il libro di testo di storia è in genere costituito non dalla semplice e lineare narrazione degli eventi, ma da una pluralità di materiali, di cui il testo narrativo classico, nei casi in cui continua a esistere, è solo una parte. Esso è infatti accompagnato non solo da un apparato geografico sempre più ricco, ma anche da documenti scritti e iconografici, scelte antologiche di testi storiografici e, soprattutto, da un ricco apparato didattico, fatto di esercizi e indicazioni metodologiche. Insomma, il manuale di storia si presenta ormai come una sorta di laboratorio, sul quale lo studente e l’insegnante sono chiamati ad attivarsi.
Questa mutazione del manuale di storia ha avuto importanti conseguenze sul lavoro stesso dell’autore. Innanzi tutto sono rari i casi di libri di testo scritti da un singolo individuo, mentre ormai prevalgono le équipe di autori; la pluralità di elementi che vanno a comporre un manuale rende infatti necessaria la presenza di competenze diversificate che è molto difficile trovare in una singola persona. Inoltre, sempre per questo motivo, il peso delle redazioni nella stesura di un libro di testo è notevolmente cresciuto, al punto che non mancano sul mercato manuali privi dell’indicazione degli autori, in quanto prodotti direttamente dalle redazioni delle case editrici.
Tutto ciò non significa certo che il testo-base del manuale non abbia più importanza. Soprattutto nel triennio delle superiori, le ragioni del successo di un manuale sono ancora prevalentemente, anche se non più unicamente, legate alla qualità del testo. Per questo il lavoro di scrittura di un manuale rimane un’operazione delicata, in quanto l’autore deve saper mantenere un equilibrio tra la giusta, e ineliminabile, esigenza di far emergere il proprio taglio interpretativo e la necessità di offrire al lettore una trattazione vasta e circostanziata degli argomenti. Peraltro, esaminando i principali testi sul mercato, credo che nella maggior parte dei casi questo equilibrio sia garantito. Che poi il tipo di interpretazione prevalente sia quello economico-sociale, è il risultato non già di una persistente egemonia culturale marxista, ma del fatto che la più seria ricerca storiografica degli ultimi anni, ormai molto più sotto l’influenza della scuola delle «Annales» che di Marx, privilegia lo studio della dimensione sociale.
Anche in questo caso non bisogna però dimenticare che gli insegnanti, quando valutano la qualità del testo di un manuale di storia, considerano non solo e non tanto l’impostazione storiografica o ideologica, ma soprattutto la sua chiarezza, poiché uno dei principali problemi nello studio della storia da parte degli studenti è costituito proprio dalla difficoltà di decodificazione del manuale. Dunque l’autore, per produrre un testo che riesca a essere tanto divulgativo quanto approfondito, deve non solo possedere capacità di sintesi visto che spesso è costretto a riassumere approfondite e ponderose ricerche storiografiche in poche righe ma anche fare scelte, spesso dolorose, su che cosa trattare e che cosa tralasciare.
Questo forse è il punto nodale di ogni riflessione sul manuale e, in generale, sulla didattica della storia: che cosa deve sapere di storia uno studente che esce dalle scuole italiane? La questione è stata negli ultimi anni particolarmente dibattuta dagli insegnanti, anche in seguito alla riforma della scansione dei programmi di storia introdotta nel 1996, che, comprimendo nei primi due anni l’arco di tempo trattato in precedenza in quasi tre anni, ha imposto la necessità di tagliare alcuni argomenti. In realtà la risposta non è detto che riguardi solo i contenuti della disciplina; certamente potrebbe essere utile, al contrario di quanto accade con gli attuali programmi che sono una semplice cronologia, stabilire dei «canoni» espliciti, cioè dei contenuti irrinunciabili. Tuttavia è lecito domandarsi se una adeguata preparazione storica debba consistere solamente nel possesso di un insieme più o meno ampio di nozioni, o se invece essa non debba comprendere anche una serie di specifiche abilità cognitive.
Sulla scia della nuova didattica della storia centrata sull’operatività, ci si è infatti resi conto che apprendere argomenti storici non consiste solo nella semplice memorizzazione di alcune nozioni, ma anche nell’attivazione di molteplici competenze cognitive, come contestualizzare un evento, periodizzare un insieme di fenomeni o problematizzare una spiegazione. Si tratta, come si vede, di quell’insieme di competenze indispensabili affinché le conoscenze storiche abbiano un minimo di spessore critico e non siano la semplice ripetizione mnemonica di un testo. Ma si tratta anche di competenze che vanno al di là dello studio della storia e che, probabilmente, dovrebbero far parte del bagaglio formativo di ogni cittadino. Il loro possesso, infatti, costituirebbe il miglior antidoto contro ogni tentativo di plagio, a opera dei «manuali faziosi» o come è più probabile che possa capitare di chi controlla i mezzi di comunicazione di massa e li usa a senso unico.