Gli occhi tondi dei manga

Ancora oggi in Italia si guarda al cartone animato nipponico con una certa diffidenza, benché apprezzatissimo da giovani e giovanissimi: o forse proprio per questo. Eppure se si conoscesse meglio uno dei suoi disegnatori di punta degli anni Settanta e Ottanta, Osamu Tezuka, tale diffidenza verrebbe meno: poco computer, tanto lavoro casalingo (Tezuka era un vero e proprio stakanovista del fumetto e del cinema d’animazione), molta originalità nell’uso di un disegno sia pittorico sia vignettistico, capacità di inserire situazioni comiche anche nei momenti più drammatici della vicenda e grande passione per i comics americani, soprattutto Arcibaldo e Petronilla.
 
Alcuni bambini italiani appassionati dell’animazione giapponese si stanno avvicinando ai quaranta. Ben ventiquattr’anni sono infatti passati da quel fatidico 1978 in cui gli anime hanno esordito sugli schermi Rai. Chi aveva tredici anni allora, oggi ne ha trentasette, chi ne aveva sette ha superato i trenta. Questo dato è essenziale per capire a fondo l’attuale successo dei fumetti e dei cartoni giapponesi, nonché la rivalutazione, ampiamente annunciata e ora in atto, dei personaggi del passato. Esattamente come è avvenuto per Collodi, per Salgari, per Flash Gordon e Mandrake, per Tex e Diabolik, oggi la cosa si sta ripetendo per Goldrake e Mazinga, per Heidi e Remi, per Lupin III e Lady Oscar. La storia insegna poco o nulla, se puntualmente avviene che le generazioni adulte guardino con sospetto se non con astio alle letture, le passioni, le canzoni, le novità che appassionano quelle giovani e giovanissime. Che poi si prendono la rivincita non appena raggiunta la maturità e dunque la possibilità di essere soggetto critico, dopo essere stato oggetto educativo e commerciale. Sotto questo aspetto il mondo culturale italiano, dopo due guerre, il Sessantotto, vari papi, la caduta del muro e altri svariati avvenimenti, non sembra molto diverso da quello di fine Ottocento. Il saggio è sempre un vecchio barboso che consiglia la lettura di ciò che era buono ai suoi tempi. Quello che cambia è piuttosto la disponibilità economica delle nuove generazioni. Che non hanno mai ragione dal punto di vista del gusto e da quello culturale, ma hanno molto più potere di cassa. Gli ultra quarantenni non possono amare i Pokèmon e in genere lo stile grafico giapponese (allo stesso modo in cui si sono sentiti turbati dagli americanissimi Simpson) ma non possono niente contro l’accumulo di gadget, figurine e multiformi prodotti di merchandising da parte dei figli o nipoti. Un tempo le collezioni dell’«Avventuroso», quando scoperte, venivano buttate nella spazzatura e gli albi di «Diabolik» e «Kriminal» nascosti nella segreta fessura tra l’armadio e il muro. Oggi le passioni mal sopportate dagli adulti sono dagli adulti supportate economicamente, ed esposte dalla pubblicità e dal marketing alla luce del sole. C’è da chiedersi se anche il ritardo con cui giornali e media in genere arrivano alla comprensione di questi fenomeni non sia anch’esso un’operazione di marketing, visto che sarebbe fortemente antipopolare andare contro il comune sentire della generazione degli «anta» che acquista quotidiani e settimanali. Però sarebbe segno di maturità culturale anticipare i tempi, evitando poi alle generazione di nuovi maturi una passione estrema e acritica nei confronti di quegli entusiasmanti ricordi. In questo senso sono da sottolineare due volumi usciti da Castelvecchi per mano di Marco Pellitteri e Loredana Lipperini. Il primo, Mazinga Nostalgia, ripercorre motivi e passioni della generazione (delle generazioni) influenzata dai cartoni giapponesi, inserendola proprio nel rapporto con quella (quelle) precedente. Il secondo, Generazione Pokèmon, anticipa i tempi, analizzando l’ultimo successo giapponese (oramai in declino) con lo sguardo di una studiosa e madre che riesce a guardare con passione le passioni dei suoi figli. Da segnalare che Pellitteri fa parte della Goldrake generation, mentre Loredana Lipperini è diventata spettatrice di cartoni animati giapponesi da adulta e grazie ai figli (caso non unico ma raro). Anche il sottoscritto ha sfiorato la passione adolescenziale giapponese. Nel 1978 scendevo in piazza e guardavo con un certo fastidio i ragazzini «lobotomizzati» che si appassionavano tanto a Goldrake. La professione mi ha poi fatto rinsavire. Ma non solo quella. Ora mi spiego. L’animazione giapponese non ha esordito in Italia con gli schermi televisivi. Nei primi anni Settanta, in alcune grandi città, si poteva assistere a delle matinée con proiezioni di cartoni animati dallo stile profondamente diverso da quello disneyano, warneriano, hannabarberiano, o perfino ungherese o yugoslavo cui si era abituati a quei tempi. I titoli erano piuttosto normali, ad esempio Le meravigliose favole di Andersen, oppure L’orsetto Panda e gli amici della foresta, o ancora Il gatto con gli stivali, ma ancora più particolari erano i nomi degli autori. Leo, il re della giungla, film premiato con il Leone di San Marco alla XIX Mostra del Cinema per Ragazzi di Venezia, aveva uno staff molto sospetto. Soggetto e sceneggiatura di Ald Monthen, adattamento di Henry Bajard e dialoghi di Boris River: i nomi sembrano, e probabilmente sono, l’adattamento inglese dei nomi dei distributori italiani o di loro amici. Chiaramente inventato ad hoc il nome del regista: Al (o All) Bisney (si può controllare la veridicità di quanto scritto nelle varie enciclopedie del cinema). Letto da lontano, Bisney poteva facilmente generare confusione. Ma un attento spettatore del film non poteva non accorgersi che Disney niente poteva avere a che fare con quel film. Che era diverso lo stile grafico, la tecnica narrativa, il ritmo di regia, perfino la filosofia che aveva ispirato la storia. Solo molti anni più tardi si sarebbe saputo qualcosa del suo autore, il cui nome è Osamu Tezuka, in Giappone «il dio del manga», tanto per essere chiari. Altro che Bisney. (Avrei capito molto tempo dopo che il film, altro non era che il montaggio di quattro episodi della serie televisiva Kimba, il leone bianco.) Ci sono delle occasioni della vita che non possono essere colte appieno. Al sottoscritto è capitato nel 1985. Luogo: Hiroshima. Avvenimento: primo festival internazionale del cinema d’animazione. Quello d’autore, s’intende, in cui sono protagonisti i cortometraggi, film da due fino a trenta minuti che raramente trovano spazio nelle distribuzioni cinematografiche o televisive. Ero l’unico italiano presente a Hiroshima tra decine di addetti ai lavori americani, canadesi, bulgari, sovietici, ungheresi. A parte gli spettatori, quasi nessun asiatico, e nessun operatore e autore giapponese che non fosse di cortometraggi, quindi nessuno che facesse parte della grande industria del cartone nipponico. Anzi, solo uno: Osamu Tezuka. Di lui al di fuori del Giappone si sapeva pochissimo, così come si sapeva pochissimo dell’animazione giapponese che tanto successo e tante polemiche stava suscitando in tutto il mondo, e particolarmente in Italia. Anzi, molto di quello di cui si era a conoscenza era profondamente sbagliato: che sono cartoni fatti con il computer, ad esempio. Che i personaggi hanno gli occhi tondi per poter invadere il mondo. Colmo della mia ignoranza (consapevole) chiesi un’intervista al dio del manga, intervenuto a Hiroshima a pieno titolo: aveva infatti esordito da trionfatore anche nell’animazione d’autore, conquistando l’anno prima il Gran Premio a Zagreb (allora uno dei festival più prestigiosi del mondo) con uno strano cortometraggio, Jumping cioè Saltando. Il film era una lunga soggettiva di un essere che cominciava a saltare da una strada tipicamente giapponese, ma i suoi salti erano sempre più lunghi e più alti. In pochi minuti, attraverso gli occhi di questo strano saltatore, si faceva un giro del mondo alla scoperta delle contraddizioni del nostro pianeta: la ricchezza e la povertà, il bello e il brutto, il vecchio e il nuovo, la pace e la guerra si alternavano salto dopo salto, finché il protagonista si avventurava giù giù per una lunga discesa nella crosta terrestre fino a trovarsi nell’inferno, al cospetto di diavoli con il forcone. Grazie ai quali (grazie al forcone) aveva la forza per saltare di nuovo verso l’alto per ritrovarsi al punto di partenza e alla fine del film. Una grande idea per un film dalla grafica indiscutibilmente giapponese e molto ben animato. A Hiroshima Tezuka fece il bis. Con Onboro film ovvero Film Tutto Rotto. Anche qui c’era una grande idea: i protagonisti sono un cowboy, un cattivo e la fanciulla. Ma il film finge di essere un film vecchio, degli anni Venti, e quindi tutto rotto.
Tanto rotto che una scena è tutta fuori quadro, e questo permette al cowboy di prendere alle spalle il cattivo che stava per rapire la ragazza. Tanto rotto che quello che agli spettatori sembra un pelo può venire usato dal cowboy come un coltello per slegare la ragazza. Tanto rotto che a un certo punto la proiezione sembra venire interrotta dallo spezzarsi della pellicola. E quando gli spettatori si guardano attorno in cerca di chiarimenti, dopo qualche fischio in sala, la proiezione riprende tranquillamente. L’aveva spiegato bene all’inizio l’autore: il film è tutto rotto. Applausi scroscianti ai titoli di coda. A risentire quella mia intervista al dio del manga mi prende lo sconforto, anche perché Tezuka morì dopo soli quattro anni, nel 1989, a sessantun anni: quell’occasione si rivelò davvero unica. E quante domande avrei potuto fare a Tezuka se solo avessi saputo qualcosa in più sulla sua vita, la sua carriera, i suoi personaggi, i suoi innumerevoli lavori. Gli ho chiesto perché avesse voluto entrare nel mondo del cartone d’autore, lui che era già un dio del manga. Mi rispose che era quella una delle poche possibilità per poter sperimentare. Anche se si pagava a duro prezzo. Perché un film come Saltando o Film Tutto Rotto costava un sacco di yen, essendo l’animazione assai più fluida di quella di un cartone televisivo. Gli chiesi quale fosse il suo lavoro in un film d’animazione. Mi rispose che poteva avere l’idea, scrivere la sceneggiatura, realizzare lo storyboard, curare la regia, disegnare le animazioni, pitturare i fondali e anche fare qualche intercalazione (i passaggi intermedi tra il disegno di un animatore e l’altro).
Insomma, poteva fare proprio tutto. (Chi lo ha chiamato il Disney giapponese, può capire qui quale fosse la grande differenza fra i due: Disney era un meraviglioso supervisore, un ispiratore. Tezuka lavorava in prima persona, e i fumetti che firmava li faceva davvero lui. Insomma, se Disney era un direttore d’orchestra, Tezuka era anche il compositore e il primo violino.) In quella occasione mi disegnò la mappa per poter arrivare, una volta a Tokyo, agli studi della Toei, quella del Gatto con gli Stivali e di Goldrake e di Sailor Moon, in cui anche Tezuka esordì nel campo dell’animazione. E fu quella visita a farmi capire che c’era qualcosa che non andava, in Italia, sulla continua falsa informazione a proposito dei cartoni animati giapponesi. Non c’era un computer che funzionasse alla Toei. Non si facevano i film spingendo un bottone. E invece c’erano tante lettere di giovani, giovanissimi spettatori italiani che volevano venire a lavorare a Tokyo, e che protestavano per gli articoli sui giornali che gettavano fango sulle loro passioni. Me le fecero leggere perché le potessi tradurre in inglese e rendergliele comprensibili. Erano lettere appassionate, nient’affatto lobotomizzate. Dopo svariati anni di fumetti giapponesi editi in Italia, Tezuka, il dio del manga, è arrivato buon ultimo in questi ultimi due, tre anni. Forse perché per gran parte della sua carriera lui ha disegnato soprattutto per i bambini, forse perché, in quanto pioniere del fumetto e dell’animazione in Giappone, è stato superato da artisti più innovativi e trasgressivi. Forse perché Tezuka era un vero buonista doc. I suoi lavori sono fortemente influenzati dalla sua fede pacifista, dal suo assoluto amore per la natura, dalla sua strenua lotta a ogni forma di razzismo e di intolleranza. Di Tezuka la Comic art ha proposto il fumetto di Astroboy, che fu il primo personaggio dell’animazione giapponese, e quello di Kimba il leone bianco (da cui venne Leo, il re della giungla. Si parlò di questo personaggio di Tezuka quando la Disney propose il suo Re Leone, chiaramente ispirato al personaggio del dio del manga. Ma non ci fu nessuna causa internazionale, forse perché Tezuka, in vita, aveva già confessato che per il suo Kimba si era a sua volta ispirato alle avventure di Bambi, che al cinema aveva visto quasi duecento volte). La Hazard sta invece pubblicando Budda (quattordici volumi per un totale di quasi tremila pagine!) e La principessa Zaffiro, mentre ha concluso la pubblicazione dei quattro volumi della Storia dei tre Adolf. Altri quattro volumi sono stati necessari alla Coconino Press per la pubblicazione della biografia manga di Osamu Tezuka. Una fantastica biografia a fumetti realizzata nello stile di Tezuka sulla base dei suoi scritti, che fa cogliere il senso generale attraverso la sapiente scelta dei particolari, di momenti a volte per nulla cruciali ma che colgono nel segno (al contrario di quanto visto nelle storie a fumetti didattiche cui siamo abituati). Si viene così a conoscere un Tezuka interessantissimo, un autore instancabile, uno stakanovista del fumetto e del cinema d’animazione, capace di lavorare per quattro giorni senza mai prendere sonno, di sfuggire come una spia agli editor (che in Giappone si installano in casa dei fumettisti per obbligarli, se ci riescono, a rispettare le date di consegna). Finiva che in casa ne aveva ben otto, o magari di più, ed erano tutti in fila a pregare il Maestro di finire, che si deve andare in stampa. Si scopre il Tezuka amante della natura, il giovanissimo studioso di insetti e in seguito il dottore laureato con una tesi sullo sperma delle lumache d’acqua. Si scopre il Tezuka insicuro di sé, colpito da crisi creative quando altri autori conquistano il cuore dei lettori. Si scopre il Tezuka appassionato di cinema, che va a vedere un film al giorno, ma qualche volta anche di più, saltando di cinema in cinema per cogliere le scene più belle di ogni film. Si scopre il Tezuka imprenditore, che crea la Mushi Pro per il primo cartone animato televisivo del Giappone, e si dimette prima che questa fallisca. (E opportuno segnalare che su questo episodio Saburo Murakami, autore di Anime in TV, pubblicato da Yamato Video, offre un’altra versione, mentre Monica Piovan in Osamu Tezuka, l’arte del fumetto giapponese è in perfetta sintonia con quella della biografia.) A proposito della Mushi e del lavoro massacrante di Tezuka (costretto in quei tempi a lavorare sia sui fumetti sia sui cartoni animati) e dei suoi collaboratori, la biografia offre un quadro a volte straziante: «Poco prima della fine delle trasmissioni, il 20 dicembre, il direttore della Mushi Pro, per il grande sforzo della produzione di Atom (nome originale di Astroboy), era crollato a terra ed era morto improvvisamente durante il lavoro». Poi, quando nel 1974 Tezuka accantonò la sua passione per i cartoni animati per gettarsi di nuovo a capofitto sui fumetti «disegnò in media ogni mese 312 tavole. Ma spesso capitò che ne producesse 363… un’energia incredibile!». Dalla biografia si viene a sapere che Tezuka lavorava a decine di storie contemporaneamente. E non si tratta di storie brevi, semplici, con pochi personaggi. La storie dei tre Adolf, un fumetto straordinario, uno dei pochi chiaramente diretti a un pubblico adulto, è una lunga vicenda dal sapore dostoevskijano, con decine di personaggi i cui destini si intrecciano in un gorgo di vicende appassionanti. E dalla biografia si scopre anche un Tezuka appassionato di letteratura, che a fumetti ha tradotto nientepopodimeno che il Faust di Goethe, L’isola del tesoro di Stevenson e, non a caso, Delitto e castigo. Tezuka il precursore, colui che per primo ha usato il fumetto non perle strisce umoristiche, ma anche per raccontare lunghe avventure (story-manga, così vengono chiamati), nelle sue storie mette a fuoco anche un elemento fondamentale del manga e del suo successo: il difficile rapporto tra bambini e adulti. Questi ultimi deviati e corrotti da un mondo adulto incapace di ascoltare, insensibile e spesso corrotto dall’ansia del denaro e del potere. Nella Storia dei tre Adolf questi i ricordi del figlio di un ufficiale dell’esercito giapponese, passato alla parte avversa e dunque spia in casa del genitore: «I manciuriani erano continuamente maltrattati dai soldati giapponesi. A scuola mi insegnavano come questo avvenisse in nome della cosiddetta “guerra santa”. Continuavo a chiedermi perché i giapponesi trattavano in quel modo i manciuriani quando vivevamo tutti nello stesso posto, mangiavamo lo stesso cibo […]. Capii che la giustizia che impariamo a scuola non aveva niente a che fare con i concetti di giusto e sbagliato, ma che serviva per giustificare l’oppressione e il potere». E ancora: «No! Non avrò niente a che fare con un patriottismo che nutre l’odio e la discriminazione!». I meccanismi narrativi di Tezuka sono forti, e tenuti insieme dalla perfetta conoscenza del linguaggio fumettistico (Tezuka amava molte strip americane, in particolare quelle di Geo McManus, l’autore di Arcibaldo e Petronilla), cinematografico e letterario. Ma nei suoi manga ci sono alcune tendenze stilistiche originalissime, come ad esempio l’inserimento di situazioni comiche anche nei momenti più drammatici della vicenda, e anche l’uso di uno stile di disegno pittorico in alcune panoramiche mentre il segno si sveltisce nelle vignette piccole in cui l’occhio non deve soffermarsi più di tanto. In tutti questi manga, anche nella biografia, i giapponesi hanno gli occhi tondi, occidentali. La risposta a questo problema l’ho trovata a Takarazuka, cittadina giapponese vicino a Osaka, famosa per il teatro locale in cui lavorano solo attrici. Lì è stato costruito un Museo Tezuka, in cui si trovano esposti i suoi originali di fumetti con le centinaia di personaggi di sua invenzione, i suoi disegni d’insetti, mentre vengono continuamente proiettati i suoi cartoni animati (lungometraggi, cortometraggi e serie TV) e venduti gli oggetti di merchandising: orolog
i, foulard, magliette e quant’altro abbia il marchio Tezuka o l’effigie di uno dei suoi personaggi. A cura del Museo è stato ripubblicato un fumetto realizzato da Tezuka appena dodicenne, in cui tutti i personaggi hanno gli occhi tondi e c’è un’apparizione speciale di Arcibaldo e Petronilla. Gli occhi dei personaggi sono tondi perché Tezuka, riprendendo il disegno degli ammirati comics americani, li ha voluti così.