Il coraggio di Pontiggia

Nati due volte è un romanzo coraggioso perché ha saputo sfidare uno dei tabù più diffusi nella cultura letteraria moderna: il rifiuto di sublimare il Bene. Non che sia del tutto una novità (basti pensare a La Storia di Elsa Morante), ma oggi viviamo una ripresa imponente delle ideologie di tipo solidaristico, centrate sull’obbligo morale dell’impegno verso gli altri, soprattutto gli emarginati. E Pontiggia ha saputo drammatizzare e romanzare al massimo un tema molto coinvolgente, giocando sul doppio binario dell’intensità dei sentimenti e della lucidità critica, con un linguaggio colto, terso e modernamente alieno dall’effusività.
 
Il doppio successo, di critica e di pubblico, ottenuto da Nati due volte ha premiato un’operazione di scrittura molto coraggiosa. Giuseppe Pontiggia ha infatti voluto rilegittimare la rappresentazione letteraria dei sentimenti positivi, basata sull’invito a introiettare i modelli di comportamento offerti da personaggi che incarnino valori etico-sociali condivisibili in quanto, diciamo pure, virtuosi. Una sfida, questa, a uno dei tabù più diffusi nella cultura letteraria moderna, specie durante l’ultimo mezzo secolo: il rifiuto di sublimare il Bene, come un’impresa moralmente mistificatoria e narrativamente votata al fallimento. In effetto, nel raccontare la vicenda del rapporto fra un padre e il figlio handicappato, lo scrittore era consapevole del rischio di cedere agli effetti di commozione più facili, più retorici. E lo ha dichiarato: «Nel male, fingendo di non riconoscerlo, ci si rispecchia, nel bene un po’ meno. Per un narratore il male è la salvezza, il bene la perdizione. L’elogio del bene ha inquietato perfino il sonno dei classici ed è stato l’incubo della loro veglia […]. Parlare bene del bene è imperdonabile. Infatti non me lo perdono. Ma dovevo pagare di persona l’impagabile aiuto di parenti, amici e sconosciuti». È significativa la cautela con cui qui l’autore adduce a giustificare la sua opera una motivazione extraletteraria, addirittura privatistica. Ma ciò vela appena la ricchezza e l’originalità delle risorse formali messe in campo per affrontare un impegno di portata tanto larga.
Naturalmente, non è che nessuno ci avesse provato, nei decenni scorsi, e che non ci si fosse meditato sopra. I termini della questione erano già stati individuati alla radice, tempo fa, con lucidità memorabile, da Italo Calvino: sia pure in altra chiave. Correva l’anno 1974 quando egli ebbe a scrivere: «Guardarsi bene dall’essere “umani” nello scrivere? Siamo in molti ormai a pensarla così; ma non è che aggirare l’ostacolo. La vera riuscita sarebbe quella di chi sapesse affrontare l’insieme di procedimenti e di effetti di tecnica letteraria della commozione, e cercare di capire cosa sono, cosa significano, come funzionano, perché comunicano qualcosa che molti lettori credono di riconoscere. A una chiara coscienza tecnica di questi procedimenti letterari forse potrebbe corrispondere un nuovo uso del pathos come pedagogia morale non mistificante. Il nodo di una futura possibile letteratura popolare è lì: ma siamo molto lontani dal saperlo risolvere».
Questo spunto di riflessione restò tuttavia senza seguito, allora: d’altronde lo stesso Calvino lo dichiarava prematuro, e comunque estraneo alla sua idea di letteratura. E dire che l’occasione in cui l’aveva formulato era delle più importanti: la pubblicazione di La Storia, dedicato da Elsa Morante, vedi un po’, al rapporto di una madre col figlioletto, nato in circostanze terribili e colpito da un male pauroso, l’epilessia. Ma i tempi erano i meno propizi ad accogliere con favore la celebrazione dell’eroismo di un’antieroina, una povera donnetta bruttarella, un po’ stupida, per di più mezza ebrea (siamo fra guerra e dopoguerra), che esalta le sue energie nella missione impossibile di salvare il piccolo innocentissimo Useppe dalla sua condanna a morte per malattia. Il sessantottismo rilanciava i valori della trasgressione, dell’antagonismo ribellistico, in conformità alla vulgata marxista della violenza come levatrice della storia. D’altra parte il femminismo non poteva simpatizzare con facilità per una figura di donna che si risolveva in un epos dell’oblatività materna. Infine, a sancire letterariamente la freddezza davanti all’opera morantiana erano le tendenze sperimentalistiche, programmaticamente antistituzionali, riluttanti ad accettare un libro imputato di rifarsi alle strategie tipiche del romanzo larmoyant ottocentesco: con l’aggravante di valersene per sedurre il pubblico più ingenuo e ignorante, addirittura analfabeta, come affermava provocatoriamente la dedica di La Storia. U dibattito suscitato dall’opera fu vasto ma confuso; e i sostenitori della scrittrice non ebbero certo la prevalenza.
Al confronto, acquista maggior risalto il sostanziale unanimismo dei consensi raccolti da Nati due volte. Oggi però il clima storico-culturale è assai cambiato. Nell’opinione pubblica c’è stata una ripresa imponente delle ideologie di tipo solidaristico, centrate sull’obbligo morale dell’impegno a favore dei diversi, gli svantaggiati, gli emarginati: l’espansione massiva del volontariato, laico e cattolico, lo testimonia. E l’intellettualità letteraria si è mostrata partecipe di questo rivolgimento etico. Per restare nel campo della narrativa, basti pensare al recente e molto applaudito romanzo dell’ex cannibale Niccolò Ammaniti Io non ho paura, centrato sull’insorgere di un sentimento forte di fraternità, nell’animo di un ragazzino verso un coetaneo vittima di un sequestro particolarmente infame: e che per di più vede implicato il padre del piccolo protagonista.
A sua volta, Pontiggia drammatizza al massimo, sia pure in modo non romanzesco, la materia di Nati due volte’, impossibile non sentirsi implicati nel resoconto delle pene vissute immeritamente sin dalla nascita dal giovane spastico, e con lui, per lui dal padre, deciso ad adoperarsi per rendergli la vita degna di essere vissuta: «Ai disabili che lottano non per diventare normali ma se stessi», dice la bella dedica del libro. Di più, la presa patetica sui lettori è arroventata dal carattere autobiografico, esplicito anche se non completo, esibito dalla narrazione: siamo di fronte a una sorta di romanzo-verità, forte dell’effetto di realtà garantito dal riferimento all’esperienza esistenziale dell’autore.
Ma costui è un intellettuale di professione, un insegnante, un educatore, che si fa scrittore nell’atto stesso di dare forma narrativa al suo interminabile dramma familiare. Su questa qualificazione culturale hanno base le strategie letterarie adottate, non per raffreddare, no, ma per controllare e compensare le emozioni sollevate dal racconto. L’alter ego messo in scena da Pontiggia ha una personalità che lo rende molto, forse anche troppo incline a una pensosità disincantata, amara, espressa con autorevolezza in una serie fitta di aforismi corrucciati; vi si accompagna peraltro una capacità di giudizio attentamente equilibrata, nel valutare le prove di umanità fornite da tutti coloro coi quali la vicenda di Paolo lo ha messo in contatto. Compreso se stesso, bisogna aggiungere: la superiorità d’animo del protagonista-narratore ha il suo crisma nell’imparzialità con cui è pronto a dare conto delle proprie dubbiosità, inadeguatezze, insofferenze.
Ad assicurare la tenuta del libro è appunto la correlazione costante tra l’intensità dei moti di accaloramento affettivo e la lucidità della disposizione alla critica non meno che all’autocritica. Su questi binari di scorrimento il racconto si allarga dall’intimismo familistico a un orizzonte sociale che investe le istituzioni di civiltà dell’Italia d’oggi, dal sistema scolastico a quello sanitario e assistenziale. Così il libro assume sostanza di un apologo a forte valenza pedagogica, proprio nel senso calviniano: un caso particolare di handicap diventa pietra di paragone per saggiare la normalità dei diversi rispetto alla diversità dei normali. Ed è fugato il pericolo di impaludarsi nell’umanitarismo a buon mercato, più o meno filisteo.
Quanto a lui, il figliolo, appare proiettato in una mezza luce discreta, sobriamente efficace, con la sua debolezza infelice e la sua limpida autocoscienza, il suo bisogno di ricevere ma anche la capacità di dare una tenerezza rasserenante a chi lo assiste: può accadere persino che assuma un atteggiamento paterno nei confronti del genitore. Nessuna intromissione però nella sua psicologia: e come sarebbe possibile mettersi nei suoi panni, per cercar di descrivere analiticamente come un tetraspastico vive la vita, la sua vita? Meglio rispettare l’autonomia dei suoi comportamenti, dandone conto in spirito di verità appassionata. Che è poi il criterio seguito nel tratteggiare i profili dei molti altri personaggi che affollano il libro, a volte con incisività icastica straordinaria: la loro presenza è legata a un episodio, un aneddoto in cui hanno dato misura di sé: il dialogo ha una funzione decisiva per la messa a fuoco del loro modo di essere nel mondo.
Nati due volte non ha le pretese di completezza d’un andamento biografico regolare: la tensione emotiva sottostante il racconto non lo consentirebbe. La struttura del libro è franta e aperta, segnata da cesure brusche e guidata dalle connessioni per analogia che si impongono alla mente del narratore, sia pure senza stravolgere l’ordine della successione cronologica. A contare è il riemergere nella memoria di situazioni intercorse lungo l’arco di un trentennio, e che ora concorrono a delineare un percorso di formazione umana in cui l’educatore è anche educato. Ma il tempo verbale dei ricordi è sempre il presente: tutto è attuale nell’interiorità di chi li rivive.
La sveltezza nervosa d’un impianto narrativo teso a far collimare evidenza fattuale e assillo etico-conoscitivo trova adempimento in una scrittura giocata tra esplicitezza crudele e allusività pudica, come tra empiti di collera, indignazione, sarcasmo e momenti di struggimento dolce o di riserbo geloso: a mediarli, le pause di un ragionare assorto. Il linguaggio di Pontiggia è un italiano colto e terso, modernamente alieno dall’effusività e dalle ornamentazioni poeticistiche: fraseggiato breve, scarse le metafore, semmai un ricorso a similitudini di fattura classicamente nitida. A fare spicco è piuttosto la presenza degli ossimori o quasi ossimori, cioè le espressioni intimamente contraddittorie, in cui un termine nega l’altro: «intensamente inespressiva», «una normalità suprema, traguardo irraggiungibile quanto comune», «una sinistra euforia, una allegria amara», «una tetra, selvaggia allegria», «un sussulto umiliato di orgoglio». Questi nessi espressivi sintetici sono indizio d’una percezione acuta della complessità del reale, e della reversibilità dei moti pulsionali. Ma Pontiggia non li usa per attestare uno stato d’animo di smarrimento arrovellato di fronte al groviglio inestricabile delle cose umane. Al contrario, si tratta di avvalorare per contrasto l’energia operativa di chi non si arrende, e attraversa la dimensione della problematicità per portarsi in quella improntata dalla semplicità univoca dei sentimenti altruisticamente generosi. Tale appunto è l’insegna sotto cui si colloca il libro, nella sua facilità difficile: un’impresa letteraria che non si nutre soltanto di letteratura.