Il prestigio della poesia difficile

Di fronte al variegato panorama della poesia italiana contemporanea, lo sperimentalismo appare al tempo stesso come un fenomeno marginale e come una dimensione pressoché inevitabile.
La fine delle avanguardie, e più in generale delle poetiche forti, ha infatti relegato la poesia sperimentale in uno spazio sempre più ristretto. Ma, d’altro canto, se assumiamo l’aggettivo «sperimentale» in un’accezione larga, scopriamo che forse un po’ tutta la poesia moderna si costituisce a partire da un’attitudine sperimentale, senza la quale rischierebbe addirittura dismettere di esistere.
 
«Se ne scrivono ancora» suona il memorabile attacco di una poesia degli Strumenti umani, intitolata, tanto per essere chiari, I versi. E davvero c’è di che stupirsi; voglio dire: che se ne scrivano ancora. Credo proprio che qualsiasi discorso sulla poesia contemporanea, e tanto più su quella sperimentale, debba tenere conto di un dato meramente quantitativo: al di là delle basse tirature e della scarsa diffusione dei libri di poesia, in Italia il numero dei poeti resta incredibilmente alto. A mo’ di esperimento, ho provato a fare un regesto approssimato ma selettivo dei poeti pubblicati nell’ultimo ventennio circa, limitandomi ad autori che abbiano raggiunto un minimo di visibilità critica ed editoriale (perché recensiti, antologizzati, premiati in sedi di prestigio, citati in studi significativi), ed escludendo drasticamente, nonché le folle oceaniche di poeti adolescenzial-domenicali, tutte le case editrici meramente venali. L’elenco (certo assai carente) è approdato in quattro e quattr’otto alla cifra, a mio avviso vertiginosa, di circa mezzo migliaio di autori: una cifra che deve naturalmente essere moltiplicata parecchie volte se si vuole avere un’idea dei titoli pubblicati.
L’Italia resta in buona misura ancora un paese, se non di santi e di navigatori, certo di poeti. Però (Marx ed Engels docent) il dato meramente quantitativo non può non riconvertirsi in un fatto qualitativo. Lasciando per il momento da parte le questioni di valutazione e di canone, bisogna constatare che il prestigio del discorso in versi pare avere incredibilmente resistito, non si dice indenne ma certo con una sua indubbia solidità, all’assalto ormai più che secolare dei media «caldi». Insomma, nonostante la fotografia, il cinema, il grammofono, la radio, la televisione, l’audiocassetta, il compact disc, il videoregistratore, il personal computer, il cd rom, Internet, il DVD e quant’altro, di versi, per l’appunto, «Se ne scrivono ancora», tantissimi e un po’ dappertutto, e, a ben vedere, se ne pubblicano anche moltissimi: certo molti di più di quanto lascerebbero supporre le ragioni del business puro e semplice.
Ma perché premetto queste considerazioni a un discorso sulla poesia sperimentale degli ultimi vent’anni circa? Perché sono profondamente convinto che, nell’era della modernizzazione e poi dei media, già da centocinquanta se non da duecento anni, la poesia abbia trovato il modo, nonché di sopravvivere, di vivere, spesso gloriosamente, proprio approfondendo la sua diversità. E questo è avvenuto perseguendo strategie formali che non è troppo azzardato definire, in un senso necessariamente largo, sperimentali: strategie propriamente avanguardistiche, ma, più ancora e più in generale, di trasgressione, di innovazione, di allontanamento dal «già noto» e dal «già usato» linguistici, di «disautomatizzazione» pressoché di ogni livello testuale.
Ci sarebbe da aggiungere, a questo proposito, un discorso che ci porterebbe davvero troppo lontano: quello sul rapporto fra l’esperienza poetica e l’esperienza del sacro. In un mondo via via sempre più radicalmente de-sacralizzato, la poesia ha riconfigurato la propria specificità anche costituendosi come una specie di religione privata, come mistica laica e spazio per un accesso privilegiato alla Verità e all’Essere. Credo inoltre (mi rendo ben conto che si tratta di un’affermazione impegnativa e discutibile) che questo avvenga anche in tutte le forme di poesia «crepuscolare» in senso lato: di quella poesia, cioè, che muove dalla preliminare negazione della propria poeticità. Solo che chi afferma di non potersi dire poeta, chi finge che le proprie parole siano parole di poco conto, magari persino «spazzatura / delle altre poesie», se lo fa ancora scrivendo versi, riafferma comunque la forza di verità della poesia, l’autenticità della propria anti-poesia, che esiste proprio perché più «poesia» della Poesia troppo acriticamente compiaciuta di essere tale. In altre parole: certo, l’aura è morta, il Sublime pure, e anche la Letteratura si sente poco bene. Eppure il discorso poetico resta un discorso prestigioso e ambito, perché conserva, logorato in mille modi ma alla fine resistentissimo, proprio il suo valore auratico: cioè la sua nobiltà differenziale, la sua diversità irriducibile alla chiacchiera universale dei media, anzitutto, ma anche alla letteratura troppo facilmente consumabile.
Per questo nell’era moderna la poesia si è sentita obbligata a scavare un solco fra sé e gli altri linguaggi, a perseguire programmaticamente una modalità comunicativa difficile, spesso quasi impraticabile, comunque «disturbata», che impedisce al lettore una lettura agevole, lineare (nei limiti in cui può essere «lineare» il discorso in versi): questa accentuata «fatica di leggere» è per l’appunto il prezzo da pagare per ottenere un’esperienza autentica, ricca e gratificante proprio perché difficile ed elitaria. Da questo punto di vista, il simbolismo e le avanguardie non si oppongono affatto, ma sono due facce (in parte successive, ma in non piccola misura pressoché sovrapposte) di un’identica strategia. Scopriamo però anche che, nel corso di questa più che secolare scommessa sulla propria capacità di costruirsi un’identità differenziale, il Novecento italiano ha registrato strategie molteplici, a loro volta molto diversificate, in cui, alla rottura sistematica degli standard comunicativi «normali» si andavano affiancando varie forme di recupero dell’istituzionalità (per lo più ironiche, o quanto meno oblique: ma non necessariamente) e di ricostituzione di una relativa affabilità nei confronti del lettore. Oggi si ha la netta sensazione che, senza volere comunque negare alla ricerca poetica la sua irriducibile e necessaria varietà, questa seconda strada sia diventata dominante, da un ventina d’anni o poco meno. Eppure ancora non credo che il bisogno di ricominciare a comunicare, da tempo avvertito dai poeti, neghi del tutto la decisa vocazione sperimentale, quando non apertamente trasgressiva, del discorso poetico tardo-moderno.
Proviamo a tirare, da queste considerazioni, delle conclusioni provvisorie un po’ brutalmente sintetiche, volutamente forzate, ma forse utili a definire meglio le condizioni generali della poesia attuale, di cui poi proverò a disegnare qualche coordinata. Da un lato, se l’idea di poesia sperimentale viene ridotta (com’è ancora abitudine di troppi critici) alla poesia d’avanguardia, be’, non c’è che dire, il discorso potrebbe essere concluso molto velocemente. Con un po’ di malizia, ma senza poi esagerare più di tanto, si potrebbe addirittura affermare che la poesia sperimentale è morta, o quasi, che resiste ormai soltanto in aree ridottissime, e tutto sommato un po’ velleitarie: il «Gruppo ‘93» è stato in questo senso il fenomeno recente più limpidamente rivelatore. Se, insomma, «sperimentale» è solo la poesia d’avanguardia, lo sperimentalismo quasi non esiste più, perché ormai è impossibile fare l’avanguardia: di più, è impossibile, in un’era (direbbe il grande e compianto Ulrich Schulz-Buschhaus) post-avanguardistica più che post-moderna, dare corso a una qualsiasi poetica «forte». Dall’altro lato, però, e tutt’al contrario, si potrebbe adottare un’accezione estensiva dell’aggettivo «sperimentale», e negarne senz’altro l’identificabilità col campo dell’avanguardismo strido serisu, ormai ridotto ai minimi termini, per riavvicinarlo invece all’insieme estremamente variegato delle forme attraverso cui la poesia ha scavato il solco fra sé e gli altri linguaggi, ritagliando, con ciò, non soltanto la propria specificità formale, ma, prima ancora, la propria specifica forza di verità, e con questo il proprio sempre vivo prestigio. Da questo punto di vista, molta poesia (relativamente) leggibile, e persino molta poesia narrativa sono, anche a prima vista, francamente sperimentali. Valga, per intenderci subito, l’esempio, lampante e pressoché indiscutibile, di Elio Pagliarani, non a caso maestro, al tempo stesso, di avanguardia e di narrativa in versi.
Del resto, già in tempi non sospetti, cioè addirittura nel lontano 1962, Andrea Zanzotto, leader indiscusso dei nostri sperimentali e, non per caso, poeta irriducibile a qualsiasi etichetta d’avanguardia, recensendo i Novissimi avvertiva, con straordinaria acutezza: «Ogni spavalderia sarebbe scomparsa se si fossero resi conto dell’attuale ipotesi di reversibilità tra esperimento e convenzione». Che è un po’ come dire che, nel suo statuto tardo-moderno, la poesia è fatta in modo tale che la trasgressione e il recupero delle istituzioni (anzitutto di quelle metriche) possono mescolarsi, e persino confondersi. E certo Zanzotto ha fatto di tutto per testimoniare questa reversibilità, con le sue Ecloghe, con i suoi sonetti e Ipersonetti. Aggiungerei, per conto mio, che, nella sua ferma vocazione anti-mimetica, la poesia moderna ha adoperato, abbastanza evidentemente, uno dei suoi procedimenti più importanti, vale a dire l’analogia, ovverosia il metaforismo protratto, in una direzione caratteristicamente duplice, reversibile: cioè sia come strumento di reinvenzione del sublime, in una chiave talvolta apertamente istituzionale, quando non restaurativa (è quello che chiamerei, piuttosto che Ermetismo, l’«effetto Sentimento del tempo»), sia come strumento di scardinamento del reale, di distruzione persino francamente avanguardistica di ogni rapporto referenziale preordinato (in quello che potremmo definire il filone «surrealista», già presente nel cosiddetto Ermetismo meridionale).
La profonda tensione sperimentale della poesia moderna, così come la sua conclamata pretesa di verità, sempre revocata in dubbio e però sempre riaffermata, s’identificano in notevole misura con lo sforzo di «produrre» verità inedite sondando, mettendo alla prova le possibilità e i limiti del linguaggio. In questo senso, da almeno mezzo secolo proprio il lavoro di Andrea Zanzotto, ancora vivacissimo e in costante evoluzione, resta esemplare: per la qualità dei risultati, ma anche in quanto, per così dire, caso limite di oltranza, sul piano teoretico oltre che su quello testuale. Come sintetizza persuasivamente Stefano Giovanardi: «La frattura, ormai quasi secolare fra soggetto e realtà, e insieme quella più recente fra soggetto e linguaggio, vengono risolte da Zanzotto in un colpo solo con l’attribuzione alla poesia del compito di ricercare la zona franca in cui nessuna di quelle tre dimensioni abbia ancora avuto origine, con un vertiginoso procedimento astrattivo che non ha eguali, per ardimento e consequenzialità, nella coeva poesia mondiale». Credo che una parte non piccola della grandezza di Zanzotto risieda nello sforzo, pressoché titanico, di testimoniare al tempo stesso della pochezza, quando non dell’impotenza della poesia nel mondo, e al tempo stesso della sua insostituibile forza di verità. Il che avviene proprio perché la poesia, grazie alla sperimentalità del suo linguaggio, si propone come una critica radicale del logocentrismo della cultura occidentale, nel momento stesso in cui si esibisce come metamorfosi estrema, quasi quintessenziale, di quel logos a cui vorrebbe, ma non può rinunciare, pena l’afasia.
Nel momento in cui esplora le possibilità estreme del linguaggio e del soggetto che lo usa, o, più radicalmente, che in esso si costituisce, la poesia sembra darsi come compito privilegiato l’esplorazione dei confini o piuttosto delle crepe del logos’, dell’emergere, in altre parole, dell’inconscio nel discorso. E necessario sottolineare come proprio lo statuto formale del discorso poetico abbia consentito un’operazione che alla narrativa è pressoché inibita: cosicché, tanto per schematizzare, se ai narratori è stato possibile inventare lo «Stream of consciousness», visto e considerato che ciò che approda all’esplicitezza nella mente dei personaggi appartiene quasi per definizione alla coscienza (poco importa se frammentaria, confusa, irrazionale), era inevitabile che toccasse invece ai poeti tuffarsi, in quello che definirei, complementarmente, lo «Stream of unconsciousness». E in questo, come notava acutamente Paolo Giovannetti in ‘Tirature ‘99, più ancora dell’iper-consapevole Zanzotto, è stata Amelia Rosselli a spingersi davvero ai confini delle possibilità della parola. La cronologia della sua ultima raccolta italiana edita (Impromptu, 1981) la pone ai margini del periodo qui considerato: ma davvero la sua esperienza vale come caso limite, e dunque paradigmatico. Credo che nessuno come la Rosselli abbia osato trasformare il lapsus in un principio strutturante, la memoria involontaria (ritmica, fonetica, iconica, lessicale) in qualcosa di simile a uno stupefacente surrogato delle capacità di organizzazione volontaria del discorso.
A partire dal caso esemplare della Rosselli, sono a mio avviso evidentissime le convergenze fra la poesia che si abbandona programmaticamente all’emergere dell’inconscio, che lavora, in altri termini, con una tecnica vicina a quella psicanalitica delle associazioni libere, e l’analogismo, per così dire, «classico», quello cioè di matrice simbolista. Una vulgata storiografica e critica davvero troppo diffusa, e francamente logora, insiste a cercare di farci credere all’esistenza, invero astrattamente aprioristica, di una sorta di contrapposizione frontale fra le poetiche dell’analogia (simbolismo, ermetismo, orfismi vari, «parola innamorata», eccetera eccetera) e le poetiche supposte «referenziali». Il che avviene, è chiaro, in nome di un’antitesi (irrigidita e forzosamente politicizzata) fra poesia suggestiva, irrazionale (e dunque reazionaria) e poesia «realista», raziocinante, critica (e perciò progressista). Sarebbe però ora di smetterla di maneggiare opposizioni così sommarie, che ci inibiscono fra l’altro la comprensione serena delle attitudini fondamentalmente simboliche di tutta la poesia moderna. Tornando all’Italia di fine millennio, sono fermamente convinto, ad esempio, della forza e dell’importanza della poesia di Antonio Porta, non a caso un altro Novissimo eterodosso. E certo significativo che nelle sue opere, soprattutto ma non solo in quelle degli ultimi anni (come Passi passaggi, 1980, o Invasioni, 1984), l’analogismo vada di pari passo con la narratività e la voglia di comunicare. Nei suoi testi l’impiego massiccio della metafora va di pari passo con un’idea di poesia anti-lirica, paradossalmente oggettiva, capace di rendere conto di una sovrabbondanza di vita, cioè di percezioni sensazioni emozioni. Restano peraltro ancora tutte da ripensare certe riflessioni di Porta sull’importanza della sempre trascurata pars construens delle poetiche d’avanguardia, contro invece il consueto interesse unilaterale per la sua pars destruens.
Né si può dire che quella di Porta sia l’unica esperienza di rilievo dei decenni recenti in cui il metaforismo sistematico s’intreccia con la tensione sperimentale. Difficile negare per esempio la forza e l’originalità di un poeta come Milo De Angelis, che per molti poeti più giovani è stato un maestro, certo un po’ troppo incline all’esoterismo, ma anche dalle qualità espressive non dubbie. Oppure, in una direzione più decisamente psicanalitica, mi pare di grande qualità il lavoro di Cesare Viviani, che, dopo una prima fase volta proprio a esplorare il potenziale espressivo del lapsus, negli ultimi anni si è a sua volta orientato verso il recupero di lacerti di discorsività, ma in un tessuto stilistico sempre profondamente dominato da «La metafora, atlante dei gesti» (come suona un verso di L’opera lasciata sola, 1993). Fra i molti altri nomi possibili, vorrei ricordare il veneziano Pasquale Di Palmo, che in Quaderno del vento (1996) fa virare un acceso analogismo in una direzione originalmente letteraria, con esiti di notevole intensità.
Tornando invece alla poesia più francamente sperimentale, non si può non ricordare come il modernismo trasgressivo, o anche l’avanguardismo vero e proprio, s’intrecci con l’esibizione del valore sacrale del discorso in versi in una linea ultra-minoritaria ma di non piccolo rilievo storico e teorico: quella che si rifà o si accosta al modello dei Cantos di Ezra Pound. Penso ad esempio all’esperienza, per molti aspetti anomala ma certo di notevole interesse, di Emilio Villa, che attraversa gran parte del XX secolo.
In generale, per i poeti la possibilità di confrontarsi con le mille maschere dell’oralità, con il fluire di una discorsività più o meno disgregata, produce una radicale indecidibilità rispetto a una questione cui di solito il narratore è costretto a dare risposte abbastanza chiare. La domanda, vista dal lato del lettore, è più o meno la seguente: «le parole che sto leggendo sono parole effettivamente pronunciate o sono soltanto pensieri?». Proprio le caratteristiche del discorso poetico consentono di non chiarire affatto questo punto all’apparenza decisivo, e anzi quasi impongono di confondere programmaticamente le carte. Questa situazione ha una conseguenza fondamentale: proprio perché pronunciata sistematicamente sul confine fra il detto e il non-detto, nel calderone ribollente dove le parole in potenza si mescolano incessantemente a quelle in atto, l’espressione poetica si può permettere non soltanto di far emergere lo «Stream of unconsciousness», ma, per conservare l’immagine del flusso, di intrecciarlo inestricabilmente con qualcosa come uno «Stream of speaking», ovverosia con la teatralizzazione di un «atto linguistico», del discorso in quanto gesto prima ancora che rappresentazione. Un gesto che, sarà bene sottolinearlo, non è affatto a-semantico, ma produce significati anzitutto in rapporto alle modalità del suo farsi, prima che per i contenuti esplicitamente intenzionati. Ma a questo punto è abbastanza facile verificare come, nella vocazione anti-mimetica della poesia novecentesca, possa insinuarsi paradossalmente una mimesi di secondo grado, consistente per l’appunto nella messa in scena del discorso in quanto atto, insieme di comportamenti che producono sulla pagina la figura di un soggetto, il quale, mentre scrive versi (ancora!), dà essenzialmente conto della propria collocazione nel mondo: sperando, è chiaro, ch’essa possa servire da bussola anche alle esperienze altrui. Proprio perché erede (forse neanche tanto alla lontana) dell’io lirico, assente, esploso, ma non per questo dimenticabile né dimenticato, il discorso poetico finisce così per assomigliare a una specie di macro-deittico, o, che è quasi lo stesso, di teatrino dell’esserci del soggetto: cioè della sua esperienza in fieri, con tutti i fantasmi ch’essa si porta appresso.
A questo punto è però anche facile capire come e fino a che punto lo sperimentalismo si possa naturalmente imparentare con la narratività, con il realismo, e persino con la nuova ricerca di comunicatività. Nel momento infatti in cui il soggetto esibisce la propria frammentazione, la propria pluralità, il suo «Speech Act» mostra visibilmente una natura composita, pluri-linguistica, citazionale. Bachtin del resto ci ha già spiegato come, nel sistema letterario della modernità, anche la poesia si «romanzizzi», diventando a sua volta multi-discorsiva. Non so se a questo pensasse Sanguineti quando, nella sua memorabile antologia di poesia del Novecento, proponeva provocatoriamente la categoria di «Speri mentalismo realistico». Ma certo una parte molto consistente della poesia d’avanguardia è flagrantemente romanzesca nel senso bachtiniano: e penso, di nuovo, a Elio Pagliarani, ma allo stesso Giancarlo Majorino, a Roberto Roversi (anche e proprio nei recenti ambiziosi progetti poematici di L’Italia sotto la neve), o, per guardare ad autori più giovani, a gran parte del lavoro di Gianni D’Elia. Da questo punto di vista, a mio avviso, si coglie bene la continuità esistente fra tutte le forme di recupero, all’interno del discorso poetico, dei molti linguaggi della quotidianità: da quelle più avanguardistiche a quelle più pianamente discorsive. Sarebbe altrimenti difficile capire perché, ad esempio, un poeta normalmente supposto «facile» e discorsivo come Raboni produca non di rado esiti espressivi molto vicini a quelli di autori normalmente supposti sperimentali. Continuando su questa strada, le componenti sperimentali non mancano persino nella poesia, narrativa e per di più dialettale, oltre che programmaticamente anti-intellettualistica, di Franco Loi. O, all’inverso, anche pescando nel territorio dell’avanguardia propriamente detta, se è vero che Sanguineti è andato via via scendendo verso la colloquialità, è altrettanto vero che questa dimensione era da sempre riccamente rappresentata nei suoi testi, fin dai momenti più funambolici di Triperuno, come componente inevitabile del cozzo di registri, di codici e di sotto-codici.
La poesia programmaticamente d’avanguardia può essere del resto a suo modo molto leggibile al livello lessicale e sintattico: in questi casi essa produce le proprie trasgressioni soprattutto per via di montaggio, di giustapposizione straniante di linguaggi e generi di solito non accostabili. Basti pensare alla versificazione di generi tradizionalmente impoetici esibita, fin dal titolo, in Lezione di fisica e Fecaloro di Pagliarani; ma anche ad alcuni degli esiti più felici di Nanni Balestrini, che ha spesso praticato il collage vero e proprio. Non dimentichiamo inoltre che, fin dai tempi di Lautréamont e di Corbière, uno dei tratti più caratteristici dell’avanguardia poetica è stato la mescidanza non solo fra registri e generi, ma, più specificamente, fra generi nobili e generi commerciali. Le vie del pluri-linguismo sono insomma, se non infinite, certo numerose, e non si riducono affatto alla mera mixtura verborum, di cui pure la poesia contemporanea continua a dare esempi, da Alfredo Giuliani a Sandro Sinigaglia.
Accade così anche che, come preconizzato da Zanzotto, lo sperimentalismo possa per certi aspetti identificarsi con ciò che sembrava essere il suo perfetto contrario, e cioè con il recupero della letterarietà: voglio dire, di una letterarietà esibita come tale. E difficile negare la presenza di un tasso elevato di sperimentalità nella iperletteratura di due delle voci poetiche più significative della generazione dei born in the ‘50s: e cioè nel barocchismo sensuale delle Rime di Patrizia Valduga, o, ancora di più, nelle Lime (1995) del napoletano Gabriele Frasca, a sua volta incline a un barocchismo vistosamente pluri-linguistico, dove analogismo ed espressionismo risultano in buona sostanza indistinguibili. Fra i più giovani mi piace ricordare, fra gli altri (e con piena consapevolezza della parzialità e rapsodicità di tali indicazioni di gusto), il torinese Luca Ragagnin e la barese Fiorinda Fusco. E vale la pena, ancora, di ricordare che lo stesso Balestrini ha sperimentato (è il caso di dirlo) una specie di sonetto ridotto ai minimi termini, in Ipocalisse (1986).
Il fatto è che proprio la conclamata istituzionalità del discorso in versi, e soprattutto l’esibizione di ciò che potremmo definire il marchio della sua artificialità trascendentale, cioè della metrica, funziona da garante dello statuto differenziale del linguaggio poetico, e finisce quindi per lavorare, in profondità, in una direzione molto vicina a quella tradizionalmente perseguita dall’avanguardia (la contraddittorietà dell’avverbio è del tutto intenzionale). In altre parole, il recupero della versificazione, o almeno delle sue vestigia, più o meno fedelmente riprodotte, ma comunque, ed è quello che conta, molto ben riconoscibili, è certo un tratto decisivo, attraverso cui il linguaggio poetico dell’era dei media continua a rimarcare la propria specificità, nel momento in cui la pratica della trasgressione, logorata dal troppo uso, non paga più. Perché, alla fine, questo continua a essere il punto: la poesia vive perché esplora territori che gli altri media non sanno e non possono raggiungere, perché, con un paradosso apparente, anche quando si mescola ad altri linguaggi riesce ancora, anzi ancora di più, a essere essenzialmente qualcos’altro. E chissà che lo stesso discorso non possa essere fatto, mutatismutande, un po’ per tutta la letteratura. Come sempre, per il futuro non è lecito essere troppo ottimisti, né troppo pessimisti; ma ogni atteggiamento apocalittico, per quanto ammantato di purezza etica, è, semplicemente, una falsificazione, o, che è quasi peggio, solo un effetto della pigrizia. Comunque, «Se ne scrivono ancora», e non di rado di ottima qualità. Per il momento mi pare che basti.