Le rivincite della leggibilità

Nell’ultimo venticinquennio una poesia fondata sulla volontà di comunicazione e sul rapporto equilibrato fra tradizione e novità ha trovato nuova visibilità e slancio grazie a un gruppo di poeti “anziani” ma modernissimi (Caproni, Sereni, Luzi, Giudici). Due le tendenze che si intrecciano negli anni Ottanta e Novanta: a un’idea di poesia fortissima, mitico-epica (Conte, Mussapi), si contrappone un complesso di esperienze caratterizzate da un desiderio di racconto in versi. Qui a una narratività animata da una evidente tensione etico-critica (Raboni, Cucchi, T. Rossi, D’Elia) si accosta una narratività meno ambiziosa e più sciolta (Cavalli, Ramarque, Ruffilli, Zeichen).
 
Per larga parte del Novecento italiano una pratica poetica fondata su un rapporto equilibrato fra tradizione e novità, su una decisa volontà di comunicazione con un pubblico non sprovvisto culturalmente ma nemmeno composto da tecnici o iniziati ha goduto di scarsa fortuna e soprattutto di modesta visibilità. A farla da padrona dall’età dell’Ermetismo a quella della Neoavanguardia e ancora oltre è stata un’idea di poesia eletta, elaboratissima ed enigmatica, tutta tesa ad alludere allo sfuggente mistero del mondo o a mimare e denunciare la sua caoticità mistificata.
In questi ultimi venticinque anni le cose hanno cominciato ad andare un po’ diversamente. Dalle opere e dal lavoro critico è venuto perentorio l’invito a guardare la storia della letteratura «che va a capo» con un’idea meno ristretta del poetico e, proprio perciò, più attenta alle ragioni dell’affabilità. Sul primo versante, quello della produzione, a suggerire la necessità di questo cambio di prospettiva (o meglio dell’addizione di una nuova ottica) sono stati in primo luogo gli altissimi risultati espressivi conseguiti da un gruppo di poeti «anziani», nati fra gli anni dieci e la prima metà del decennio successivo: Caproni, Sereni, Giudici, Luzi. Le loro opere ultime e penultime hanno riproposto un’idea forte di poesia, ma non esoterica e senza titanismi, mostrando una capacità straordinaria di innovare, senza smarrire però il colloquio con un lettore medio. E lo hanno fatto contaminando la scrittura poetica con i moduli della narrativa e del teatro, dando un nuovo e decisivo rilievo al ruolo dei personaggi. Si definisce così una poesia «per interposta persona» (come ha mostrato Enrico Testa in un libro recente), una poesia della «deflazione dell’io» che aggiunge profondità e spessore alla scena lirica, istituendo un autentico confronto con gli altri, con la socialità, senza perciò smettere di meditare sugli scompensi del soggetto, la sua fragilità ontologica, la sua natura sfuggente.
Sul versante critico l’esigenza di una rilettura della lirica italiana contemporanea si deve essenzialmente, mi pare, a Pier Vincenzo Mengaldo e Alfonso Berardinelli. Nei Poeti italiani del Novecento la critica serrata di Mengaldo agli schemi della storiografia letteraria, nella sua radicalità, favorisce il superamento di alcuni luoghi comuni semplificatori. Svincola innanzi tutto il racconto della poesia italiana dal filo conduttore della sequenza evolutiva delle poetiche. E prepara il terreno a una ricostruzione non unilineare, ma duttile e aperta, nella quale trovano posto a pieno titolo i dialettali e la linea «antinovecentesca» di una poesia colloquiale che si avvicina al racconto, che stilizza in vario modo la chiarezza (Gozzano, Saba, Betocchi, Pavese, Pasolini, Fortini, Penna, ecc.). L’idea di una modernità lirica poliforme da contrapporre a un’equivalenza fra oscuro e contemporaneo è uno dei punti chiave del lavoro di Berardinelli: si vedano le limpide e notevoli pagine sulla genesi plurale della poesia italiana novecentesca (Quando nascono i poeti moderni in Italia, 1991, poi in La poesia verso la prosa, 1994).
Con gli anni Settanta muta la società della poesia, la comunità costituita da scrittori, critici, lettori. Un pubblico nuovo, più largo, si intravede solo per un attimo, appare e subito scompare come per la mossa d’un prestigiatore. Si ripropone quella separatezza che ha caratterizzato il sistema della poesia per lungo tratto del secolo, mentre ne muta la composizione, l’articolazione interna. Lo scriveva già Antonielli nel 1980: «quello che a primo colpo impressiona, della produzione giovanile di poesia, è la quantità». All’aumento numerico dei poeti, e degli aspiranti tali, alla disseminazione delle sedi di pubblicazione, si accompagna un indebolimento del lavoro di selezione, della mediazione critica. La comunità della poesia resta specialistica, il suo pubblico più chiuso di quello della narrativa, ma la sua fisionomia diventa assai meno omogenea. Della sua frantumazione per gusti e aree geografiche testimonia bene il panorama mobile e polverizzato delle riviste (utile l’inventario curato da Roberto Deidier in Le regioni della poesia). Il panorama dei testi appare così disperso, fatto innanzi tutto d’individui, di percorsi che riluttano all’inquadramento. Il corpus tende a sfuggire: al punto che gli antologisti scelgono di operare selezioni drastiche (Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi pochi anni fa hanno escluso gli autori che non avessero «pubblicato almeno una raccolta presso un editore nazionale») o addirittura di rinunciare a ogni ordinamento e a ogni motivazione che non sia quella del gusto personale (così fanno adesso Franco Loi e Davide Rondoni in Il pensiero dominante. Poesia italiana 1970-2000). Quest’orizzonte disorganico è però anche un orizzonte allargato, in cui coesistono maniere e generi differenti, nel quale è stato più facile trovar spazio per una produzione poetica che non punta le sue carte sull’esasperazione formale, sulla sfida intellettuale.
Nella poesia degli anni Ottanta e Novanta infatti si affiancano e si intersecano una ripresa della comunicazione e una ripresa di tradizionalità. Il bisogno di stabilire un colloquio più solido e diretto con i lettori si manifesta sia con una semplificazione del dettato (recupero di narratività, abbassamento della tensione lessicale e figurale), sia con un rafforzamento dei segnali del poetico (riproposta di un’idea «alta» di poesia, ritorno delle forme chiuse). La reviviscenza di metri tradizionali, molto decisa negli anni Ottanta e notevole anche nell’ultimo decennio, è stata trasversale rispetto ai livelli (la si riscontra sia nell’ambito «istituzionale» che si sta considerando, sia in ambito sperimentale) e si è mossa in due principali direzioni. Da un lato all’insegna della ripresa straniata, della citazione ironica, con un atteggiamento in cui prevale il senso della distanza («il sonetto oggi è sempre un sonetto travestito», Sanguineti), dall’altro invece all’insegna della fiducia in un’efficacia attuale. Ossia con un’intenzione prevalentemente metaletteraria oppure comunicativo-espressiva. Nel primo caso con una ripresa più fedele del modello tradizionale e una lavorazione retorica intensiva (da Gabriele Frasca a Patrizia Valduga). Nel secondo con una pratica meno ortodossa e non di rado un intento morale sociale nei quali agisce la lezione di Caproni e Fortini: è il caso dei notevoli sonetti delle ultime raccolte di Giovanni Raboni (su questi temi si vedano le persuasive osservazioni di Natascia Tonelli nel recente Aspetti del sonetto contemporaneo).
In questo tempo affollato e confuso la prima tendenza a venire in piena luce sembra voler dare risposta al più tradizionale bisogno di poeticità che la stagione dello sperimentalismo prima, quella dell’impegno politico e della fiducia nella spontaneità esistenziale poi avevano messo in cantina. Con l’antologia La parola innamorata e dopo con le teorizzazioni dei «mitomodernisti» ed esperienze affini (da Conte e Mussapi, a Copioli, Carifi, Baudino) si riaffaccia l’idea di una poesia fortissima: un canto, una danza, capaci di ritrovare «le prime parole del mondo» (Conte, L’oceano e il ragazzo) e di penetrare del mondo la molteplicità caleidoscopica. Il poeta è nel tutto, sa essere via via ogni cosa: sguardo, pietra, medusa, mattino, dio. Accade così all’io lirico dell’Ultimo aprile bianco di Conte. Al grigiore urbano di una contemporaneità della burocrazia e della tecnica si oppone una poesia in technicolor: una lirica/epica dell’esotico e del favoloso popolata da «giardini di ginestre e di acanti», «mille chiglie dorate» (Ultimo aprile bianco), «quadriglie di grifoni» (Animali etruschi). È una poesia che punta sulla seduzione del «corpo» poetico, sulla metafora innanzi tutto, sul lessico ricco ed evocativo, sulle figure di ripetizione e accumulazione. Una poesia che dunque si vuole poesia dell’origine, della verginità, e perciò rivitalizza alcuni degli aspetti fondamentali dell’istituzione poetica.
A fare da contraltare a questo ritorno a una poeticità tradizionale, della parola piena e della voce spiegata, che vede nella poesia qualcosa di anteriore, cronologicamente e gerarchicamente, alle altre forme di scrittura e di sapere, c’è dell’altro: un complesso di esperienze poetiche non compatto nel quale una volontà di significato, di racconto in versi, di relazione con una storia (la Storia grande, le storie del privato, del quotidiano) viene variamente declinata. Una poesia di cose e di persone, per quanto contratta, problematica, «in minore» (le «cose», obiettivo essenziale e sfuggente di D’Elia, le «case», da quelle di Raboni a quelle di Fiori). Storico-esistenziale verrebbe da dire, se si potesse sottrarre all’etichetta una parte della sua pesantezza, ma non tutta.
In questa famiglia discorde credo si possano riconoscere in prima battuta due aree. Una in cui confluiscono poeti sui quali agisce in varia forma l’esempio della linea lombarda, dell’esperienza di «Officina», e di quelli che Pasolini aveva definito «maestri in ombra» del Novecento poetico (Rebora e Sbarbaro, in primis)-, da Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi, Tiziano Rossi e Mario Santagostini, a Umberto Fiori e Gianni D’Elia. E l’ambito di una narratività asciutta, franta, ruvida. Le vicende e le situazioni descritte possono avere una rappresentazione netta e piuttosto solida, condotta in modo piano e rapido (Fiori), o più inquieto e ampio (il D’Elia dei poemetti). Oppure il racconto può essere accennato, dato per esistente ma rappresentato solo per schegge, a spicchi (Cucchi, Santagostini). E qui il soggetto si affaccia problematico, tende a farsi evanescente, disperso, come nel titolo dell’esordio di Cucchi; se invece ha una sagoma più consistente e rilevata, è comunque caratterizzato da un atteggiamento di apertura, interrogazione, attenzione (Fiori, D’Elia).
Ci si muove in una prospettiva di stilizzazione che, rubando una definizione che Raboni ha dato del primo tempo della sua poesia, si potrebbe dire di «formalizzazione dell’informale», di ricerca di una musica spoglia, antigraziosa, non da sala di concerto, ma da strada o stazione. Una sonorità d’ambiente quotidiano, urbano soprattutto. Si tratta spesso di una poesia di città, come si addice a una lirica che tiene sempre dinanzi a sé l’impoetico, come costante termine di paragone, contrappeso. Il principale canale di contatto con i lettori è nella tensione etica e critica, nel senso della distanza, dell’attrito, fra i sentimenti e gli ideali e le cose, la «realtà». Una propensione per l’attrito che può manifestarsi anche nell’accostamento di registri diversi e distanti.
Le principali opzioni strutturali sono la lirica breve, frammento o tassello, da un lato, il poemetto, la «sequenza», dall’altro. A volte, in modo significativo, gli scrittori procedono sui due versanti, come D’Elia, che alterna la misura breve delle poesie di tre quartine di Notte privata, ai poemetti diaristici, pasolinianamente in terzine, di Sulla riva dell’epoca. E non di rado, i versi coesistono con la prosa poetica, come nel Santagostini di L’Olimpiade del ‘40. Breve e lungo possono essere complementari. Per questi poeti la totalità si sottrae alla rappresentazione, dunque il frammento non può essere occasione di un’intuizione sintetica, di un’epifania del tutto, non trascende la sua parzialità. Permane tuttavia lo sforzo di una visione, per quanto incompleta, dell’insieme; il frammento allora è un sondaggio, un tassello, da affiancare ad altri per comporre una figura lacunosamente complessiva. Gente di corsa di Tiziano Rossi è un recente esempio di questa correlazione breve-lungo, frammento-insieme: le due quartine appaiate che fanno sfilare in ogni pagina del libro due microritratti di persone, raggruppati per sezioni anagrafiche (bambini, giovani, adulti, vecchi, ancora bambini), sono lo strumento di un affresco corale.
La seconda area è invece quella di una narratività insieme meno ambiziosa e più sciolta, una narratività della conversazione, dell’epigramma, a tratti diaristica, non di rado incline alla cantabilità, ludica, tagliente o venata di malinconia, con qualcosa, a seconda dei casi, di Penna, Gozzano, Palazzeschi. I poeti che provo ad accostare sono Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque, Paolo Ruffilli, Franco Marcoaldi, Valentino Zeichen. La lingua è spesso diretta e piana, predilige le varie corde della medietà lessicale (non disdegnando qualche divertito o un po’ provocatorio scarto all’in giù), a volte gioca con la semplicità della fiaba o della filastrocca (Lamarque), a volte si torce in direzione del saggio, si carica di sottocodici in chiave di parodia (Zeichen). E una poesia del quotidiano, la quotidianità dell’esistenza privata oppure della vita culturale, con le loro inquietudini, abitudini, tic. Sul ruolo di poeta nessuna illusione eroica o romantica: le poesie «non cambieranno il mondo» (come diceva già in copertina il primo libro di Patrizia Cavalli). Semmai può essere lo strumento di una piccola terapia individuale, di una verifica critica e di un adattamento. Sul piano delle forme ricorre spesso la propensione per il corto, nella misura dei componimenti o degli stessi versi (anche quando la spinta narrativa si distende, come nei poemetti di Ruffilli, lo fa con versi minimi, con senso del limite, secondo un processo che «mette a fuoco le cose rimpicciolendole, non ingrandendole»).
Si dovrebbe poi parlare credo di un’area, in parte tangente questa, di poesia esistenziale, di matrice autobiografica, di nuovo assai varia al proprio interno, attraversata da una polarità esibizione-reticenza. All’io personale violentemente esibito di Dario Bellezza fanno riscontro forme di presenza più discreta e smussata, come quelle che si incontrano in Antonio Riccardi, Roberto Deidier, Alessandro Fo. Fino al caso del discretissimo autobiografismo «trascendentale», aperto, di Enrico Testa. Filtrato, come ha scritto Massimo Raffaeli, dalla scelta di «una pronuncia terza, a mezz’aria, tipica del pronome, la parte variabile del discorso che ha funzione di indicare qualcosa o qualcuno senza specificamente nominarlo». Una poesia dell’io in cui il soggetto poetico si confronta e si confonde con altre figure e voci.
Nel campo della poesia «istituzionale» e comunicativa si inseriscono, con risultati notevoli, alcune figure, con vicende molto individualizzate, per le quali mi è difficile continuare gli arruolamenti forzati fatti fin qui, e che richiederebbero discorsi personalizzati mentre posso farne solo i nomi: Valerio Magrelli, Eugenio De Signoribus, Pier Luigi Bacchini, Fernando Bandini. Indugio brevemente su Magrelli perché mi pare che la sua opera abbia una connotazione comunicativa piuttosto pronunciata e indichi un’altra possibile rilevante linea di affabilità, a dominante razionale. La sua è una poesia della limpidezza intellettuale («il cervello è il cuore delle immagini»), come dimostra ad esempio l’impiego riflessivo, concettuale (in certi casi un poco concettista), delle similitudini e metafore, protratte e analizzate. Una poesia che corregge una nativa inclinazione alla metaletteratura con la propensione a esplorare il diverso da sé, a farsi volentieri strumento di ricognizione di ciò che dalla razionalità e dalla liricità è più lontano: i corpi, le terrazze condominiali, i quotidiani. Come nell’ultimo libro, Didascalie per la lettura di un giornale, esempio di una poesia civico-ironica, pensata come dialogo con un’ampia società di leggenti della quale lo scrittore si sente parte.