Le nicchie dialettali

Proprio mentre escono dall’uso ogni giorno un passo, le parlate locali entrano sempre più spesso nelle grazie di editoria e critica: un paradosso su cui vale la pena di ragionare. Nel frattempo, se la morte dei dialetti non pare affatto imminente, in dialetto si è ormai imposta una poesia della morte. Dietro il gioco di parole si nasconde un immenso coro funebre, intento a rievocare vernacoli, persone, costumi e oggetti irrimediabilmente perduti o in via di sparizione. Non è davvero il caso, tuttavia, di fare di ogni spettro un’ombra. Il nero ha mille sfumature, e sposa tutti i colori.
 
Se Carducci oggi trovasse una mezz’ora per lasciare le fiamme dell’inferno e fare una capatina nel reparto poesia delle nostre librerie, di sicuro resterebbe sbalordito nel vedere ispidi idiomi lucani, romagnoli, abruzzesi, liguri occhieggiare cheek-to-cheek coi suoi volumi. Da Scheiwiller a Einaudi, da Mondadori a Garzanti e Marsilio, i più prestigiosi editori da tempo hanno sdoganato la poesia dialettale, che penetra con facilità crescente nei santuari ultimi della canonizzazione letteraria: le antologie scolastiche. Sarebbe davvero troppo ingenuo giustificare queste inclusioni sventolando gli indubbi pregevoli risultati raggiunti da diversi autori, magari negando nel contempo ogni specificità alla categoria «poesia in dialetto» (come faceva, crocianamente, Gianfranco Contini). L’impressione, invece, è che la caduta degli steccati si debba in prima battuta connettere all’evoluzione del concetto di identità nazionale. Nello specifico, ognuno vede come il monumento della «letteratura italiana» che il focoso vate maremmano contribuì a erigere e custodire, passata indenne la prima metà del Novecento, dopo il 1956 sia andato sgretolandosi sempre più rovinosamente.
Naturalmente, non si tratta di riesumare la buon’anima di Giuseppe Ferrari per sostenere una vocazione comunque antagonistica dell’animus dialettale. Proficuo appare piuttosto istituire un paragone con quanto è accaduto negli Stati Uniti con i cultural studies, se è vero come è vero che il ricorso letterario al dialetto implica spesso la volontà di preservare le tracce di un’antropologia minoritaria o in via di sparizione. Quale patria viene, prima della lingua? Come ha scritto Meneghello, l’oseleto è una bestiola da non confondere con l’uccellino. Ma questo vale per chi sia cresciuto in regime di dialettofonia; le cose stanno ben diversamente per chi l’oseleto l’ha conosciuto impagliato, o ne ha intravisto appena un guizzo. Dietro all’«istituzionabilità» dei dialetti, si cela la sanzione di una sconfitta storica. E senz’altro sbrigativo, d’altra parte, far coincidere tout court la loro entrata nell’Olimpo letterario con l’uscita dalla prassi viva. Intanto, nonostante i continui funerali celebrati da cent’anni a questa parte, il regresso dei patois della penisola sembra parecchio distante dallo sbocco nella dissoluzione. Inoltre, appunto il caso lampante del Veneto dimostra come l’italiano non abbia dappertutto umiliato l’avversario; mentre le rapide trasformazioni in atto nelle architetture politico-sociali nazionali ed europee scoraggiano dal tentare previsioni di lunga gittata. Vale forse la pena di rammentare un altro volatile, nient’affatto ignoto alla storia delle lingue letterarie. L’araba fenice sigilla infatti l’istruttiva parabola della letteratura in catalano, ridotta al lumicino per secoli sino alla Renaixensa di metà Ottocento, poi in costante ascesa verso il pieno vigore attuale, sostenuto da un bacino di otto milioni di parlanti e da numerose provvidenze dovute all’autonomia amministrativa.
Resta il fatto che in Italia, oggi come oggi, scegliere il dialetto per i propri versi significa fuggire una volta ancora dalla lingua d’uso più vasto, riproponendo così un’antica peculiarità nostrana. Agli occhi del lettore comune, una poesia di Albino Pierro è incomprensibile quanto un’ode di Monti per un contadino lucano di due secoli fa. Non resta allora che arrangiarsi con le traduzioni in calce. Da decenni è evaporato il pubblico borghese municipale che nel primo Novecento aveva decretato i fasti locali di Testoni, Costa o Firpo, e nazionali di Fucini, Barbarani, Di Giacomo o Trilussa. A sostituirlo, è un lettore specialista, cui è riservata una doppia gratificazione: da un lato è investito a custode volontario di un universo a rischio d’estinzione; dall’altro, deliba gli ammalianti esotismi del linguaggio propostogli, del quale in genere non possiede cognizione alcuna. E come potrebbe essere altrimenti? Il poeta dialettale del secondo Novecento scavalca di netto le koinài letterarie della propria regione, avvalendosi di una peculiarissima microlingua. Marin e Grado, Pasolini e Casarsa, Pierro e Tursi sono solo i primi e più celebri dei moltissimi binomi possibili, ispirati a una strenua liricità. Come recita una formula fortunata, nel corso del Novecento il dialetto da «lingua della realtà» si è tramutato in «lingua della poesia», lustrando parlate remote, mai scritte prima. Proprio da una presunta verginità astorica di queste, discende la possibilità per i dialettali anche di buon livello di abbandonarsi a effusioni e intimismi che per i poeti in italiano risiedono nel «canone dell’interdetto». La patente di ingenuità (nel senso schilleriano) concessa al mezzo linguistico comporta volentieri un eccesso di fiducia che troppo spesso si traduce in una mancata elaborazione metrica e formale.
L’esame di alcune antologie potrà aiutare a cogliere le tendenze emerse da questi fondali negli ultimi vent’anni. Nell’ormai lontano 1978, colpì il largo spazio accordato da Mengaldo nei suoi Poeti italiani del Novecento ai versi in dialetto, messi alla porta da Sanguineti nel florilegio del 1969. Al di là del gusto dei curatori, il punto è che nel decennio intercorso tra i due volumi era salita alla ribalta una nuova generazione, quella dei «neodialettali». La definizione è dello studioso a essi più attento, Franco Brevini, che nel terzo tomo del suo «Meridiano» su La poesia in dialetto (1999) verifica la secca incrinatura subita dal paradigma critico incentrato sulla lirica pura, messo in auge da Pasolini negli anni Cinquanta. Insieme ai facili entusiasmi degli anni del boom, si diluiva o dissolveva allora la specificità locale in cui tanti autori affondavano le radici. Ed è proprio rovistando in questo humus sconvolto che è sorta buona parte dei versi dialettali recenti. Modalità ed esiti del fenomeno si colgono a prima vista in Il pensiero dominante (2001), una scelta di poeti italiani degli ultimi trent’anni curata da Loi e Rondoni, che nel suo pletorico impianto (oltre 150 presenze) si presta bene a osservazioni tipologiche.
Ciò che subito affiora, all’analisi della quarantina di dialettali accolti, è precisamente un’accorata rievocazione della scomparsa civiltà rurale e paesana. Com’era in fondo prevedibile, all’indomani di un terremoto socioculturale è salita prepotentemente in dominante la volontà di dare testimonianza delle proprie perdute origini. Per molti di quanti si sono smarriti nei gorghi dell’urbanità, la famiglia e la comunità natia hanno rappresentato un appiglio identitario sovente assai più solido dell’appartenenza di classe. Questo «bisogno di appaesamento» (Brevini), ai livelli più bassi, si traduce in un patetismo nostalgico, con forti venature antimoderne, sulla cui mediocrità non è neppure il caso di insistere. E invece essenziale dar conto dell’impressionante varietà con cui si è manifestato un onnipervasivo afflato luttuoso. La poesia in dialetto odierna è prima di tutto poesia della morte. «Óe da dirte zhimitero?», chiedeva già Zanzotto al solighese del suo Filò. A spegnersi sono prima di tutto i suoni stessi, le stesse lingue, così che nel loro avvento sulla carta si configura come ha sostenuto Mengaldo un caso patente di «ritorno del represso sociale». Per decenni l’ambivalenza del dialetto si è consumata nella dialettica tra la fuga dalla miseria a esso connaturata e l’amor de lonh per chi lo visse: «e te, dialeto caro, / che da l’infanzia sorti / t’ha cinguetato i morti / su l’alto colombaro» (Scataglini).
Per rivolgersi alle ombre, si deve riguadagnare il loro idioma: è un meccanismo che investe persino i poeti in lingua più arditi (esemplare il monferrino materno nel De Angelis di Distante un padre). Centinaia sono gli spettri spesso di figure parentali che vagano in versi composti nei più appartati vernacoli dello Stivale, attori di un inquietante teatro notturno, volto a sottrarre all’oblio esistenze dignitose silenziosamente svanite. A ben guardare, l’intento è il medesimo che guida l’Antologia di Spoon River, un libro ancora decisivo per parecchi dialettali, al pari del nitore oggettuale di un Garcia Lorca. E questa la prima fonte dello struggente sentimento del tempo che illumina i resti di un patrimonio immenso di cose e tradizioni, all’improvviso sbaragliate dal soffio della modernità. In autori come Tonino Guerra, un violino perduto può spuntare dall’erba trascinando con sé il ricordo di uno zingaro, una fiera di gioventù, una notte d’amore. D’altra parte, non tutti come il poeta romagnolo riescono a evitare un preziosismo rovesciato, lo stesso che ha traslocato tegami e padelle di rame sulle pareti delle cucine di città.
Lambiscono soltanto questo pericolo i vertiginosi saliscendi di Franco Scataglini tra slanci astratti e miseri grumi di vissuto. Scosse da parentesi e spezzature, le sue quartine di settenari strappano il presente più feriale alla crudeltà del transitorio, donando gli a volte un’affascinante fissità araldica. «In mezo campo arato / el nudo matatoio / (come p’un desolato / mare punta de scoio)»: nello sfregio pascoliano si condensa l’essenza di una poesia tutta segnata dal trauma della marginalità, costretta a cercare il proprio fiore il cardo di polvere e spine tra le «aiole del macello». L’urgenza di restituire un background personale tramite movenze narrative, conseguenza necessaria della temperie più sopra descritta, si è fatta sentire sino in un temperamento francamente lirico quale quello del poeta anconetano, che nel postumo El Sol ( 1995) offre riparo alle schegge di un’autobiografia in versi. L’inconfondibile, caproniano accordo di fine e popolare tipico di Scataglini nel Sol è teso a sorreggere una parabola che per lampi si snoda tra ciminiere di periferia, interni spogli, sirene portuali o di guerra, sino al sogno infranto di una «stella vermiglia».
La medesima stella di uguaglianza e giustizia sociale aveva guidato il cammino dello Stròlegh (1975) di Franco Loi, che di recente si è anch’egli provato in una passeggiata tra i ricordi, cavandone uno smisurato romanzo in versi: L’angel (1994). Se Stròlegh si chiudeva dinanzi alle soglie di casa, dopo una lunga volata per le strade della Milano liberata, punteggiate di stracci rossi, balere, fucili e partite di calcio, L’angel si apre alle voci del passato familiare. Ora buongiorno vuol dire buongiorno nel colornese materno e nel genovese paterno, mentre il milanese un tempo fraterna lingua franca di barriera stinge a semplice velatura, zeppa di italianismi astratti. L’angelo è tale perché custode di una memoria insieme personale e collettiva, pittrice di suggestivi momenti corali (specie nell’infanzia ligure). E tuttavia i paradisi del ricordo non di rado fanno rimpiangere i geli infernali di Stròlegh. Più coinvolgenti appaiono i luoghi in cui gli scanditi endecasillabi giambici tornano sui nodi storici e sociali del secondo Novecento, investendoli con epica veemenza. Ma in fin dei conti è vano leggere questo Loi, come avrebbe voluto Fortini, «contro il suo dialetto, contro l’elegia e la nostalgia, la melodia e la tenerezza». Meglio, allora, rivolgersi all’aereo e provenzaleggiante gnomismo dei testi brevi (cfr. in ultimo Amur del temp, 1999).
Evita per parte sua di mettersi in scena Tonino Guerra, che in alcuni poemetti ha disegnato indimenticabili figure di anziani, sopravvissuti tra le macerie di un passato rurale. Ne L’órt ad Liséo (1989), in un villaggio abbandonato d’Appennino un contadino ottantenne coltiva invano, con intatta lenteur, la propria sapienza, salvando l’orto dal polverone di Chernobyl. Sarà però una talpa, saranno mille talpe, a minare simbolicamente dal profondo l’universo di Liséo. Nell’ultima scena, dinanzi al vecchio mai domo e pure sconfitto, una notte di luna dà alle erbe e ai frutti dell’orto «la faza biènca di mórt». Un’impronta funebre segna in effetti numerosi paesaggi della migliore lirica dialettale novecentesca. Tra essi, il più impressionante è senz’altro il «paìse»-incubo alto sui burroni e assalito da un vento furioso nel quale Albino Pierro ha situato un petrarchismo raggelato, che a tratti si apre a narrazioni di aspra materialità, trascolorante nell’allucinazione. L’ancestrale solitudine di questa waste land lucana precede varie esperienze più recenti, dalle desolazioni alpestri del monregalese Remigio Bertolino ai mortuari incanti palustri del veneto Sandro Zanotto. Altrettanto spettrale riesce a essere persino la periferia napoletana, nelle misere e piovose albe di Achille Serrao (di cui si veda il complessivo La draga le cose, 1997): ore di serrande abbassate, febbri e addii, visitate dalla muta ombra paterna.
Dinanzi a queste asciuttezze cimiteriali, la cascata di parole degli ossessivi monologhi di Raffaello Baldini parrebbe disporsi ai bordi opposti della scacchiera. In realtà, il poeta di Santarcangelo non fa che documentare il progressivo esaurimento delle medesime realtà, ma cogliendolo dall’interno e in praesentia. Agisce plasmando dei nevrotici solitari, assillati da occasioni perdute e posseduti da un’impetuosa volontà di comunicare. I kafkiani effetti di straniamento che derivano da questa «mimica mentale» (Giudici) appaiono tanto più singolari se si pensa che a essere sfigurato è appunto il buon vecchio paese, coi suoi caffè, le botteghe, il tinello marron. Nell’ultima raccolta, Ciacri (2000), l’entropia borghigiana è esaltata dalla scelta di affidare ogni poemetto a una voce diversa (fornai, baristi, mogli alla spesa…). La logorrea inscenata somiglia a un fiume lutulento, sul quale galleggiano i resti di una civiltà stordita dinanzi alla modernità affaristica. La tensione cresce a dismisura insieme al moltiplicarsi delle domande, con infinite variazioni sul nulla quotidiano, a restituire una concretezza dell’incomunicabilità da cui i versi di Baldini acquistano una forza grottesca e lacerante.
Ancora una volta, dunque, la poesia in dialetto si rivela una fucina straordinaria di maschere popolari, dietro le quali l’autore si mimetizza. Certo, in Baldini il grado di ambiguità è assai maggiore di quello che può correre, poniamo, tra Porta e il Marchionn. C’è poi un altro aspetto per il quale nel poeta romagnolo traluce una caratteristica della lirica vernacolare, tradizionale feudo del buonumore: leggendo le sue poesie capita di sorridere, sia pure a denti stretti. Lascia da pensare che un tratto così banale si opponga alla realtà di quasi tutta la poesia dialettale contemporanea, rappresentando oltre che una vistosa controprova del dilagare dell’approccio «funebre» un sintomo dell’asfissia di sottogeneri vitali ancora poco tempo fa. Se il filone erotico sopravvive in forma estemporanea (ad esempio nel calabrese Maffia), una tempesta ha spazzato via i versi giocosi, la satira e soprattutto la poesia impegnata, che negli anni Sessanta e Settanta aveva conosciuto una vigorosa reviviscenza. L’impeto nerudiano a dare voce a chi non l’aveva, attecchì allora soprattutto nelle aree più arretrate del paese, con risultati in gran parte da vagliare ma che in più di un caso (Buttitta, Cali, Masala, Bodrero, Zanier) appaiono non trascurabili. Un grano di populismo è d’altronde già racchiuso nello sguardo stesso del neodialettale al proprio umile milieu di provenienza, non senza rivendicazioni localistiche, che tuttavia (e significativamente) solo in sporadiche occasioni si sono saldate ai fermenti autonomistici sorti al Nord negli anni Novanta.
A ogni modo, il tramonto dell’engagement vernacolare sembra dovuto a ragioni di natura schiettamente sociologica: si sta definitivamente chiudendo il secolo scarso in cui il dialetto in Italia è stato davvero e soprattutto la lingua dei vinti. Resta da vedere cosa accadrà per riprendere un’uscita di Baldini se e quando smetteranno di succedere cose in dialetto. Quando, come scrive il ligure Bertolani in Libi (2001) traducendo Sereni, «avóa davéo / g’èn andà via tuti», e non torneranno più. Scrivere in un codice del quale non si possiede una competenza neppure passiva, equivale a scrivere in latino. Naturalmente nulla impedisce di essere grandi aedi in lingue morte, ma certo sin d’ora si fatica a immaginare la comparsa di un giovane poeta in meneghino. Lo stesso Loi è innanzitutto cantore del suo quartiere natio, il Casoretto, e della sarabanda di accenti che vi s’incontravano. E di fatto i lirici milanesi più noti, Consonni e Marelli, impiegano varietà brianzole. In questo senso, si capisce perché Brevini abbia intitolato l’ultima sezione della sua antologia La dialettalità postuma.
D’altro canto, lo si è detto, in tanti angoli della penisola il dialetto tiene egregiamente. Non è davvero un caso se oggi i centri più dinamici di poesia e cultura dialettale si dispongono ai margini estremi del Nord, sorretti dalla vivacità delle istituzioni locali: siano la Mondovì di Regis, Barbafiore e Bertolino, la romagnola Santarcangelo o i molti fogolars del Friuli, dove spiccano i nomi di Giacomini e Vallerugo. Proprio in queste e altre zone di competenza forte e diffusa, con ragguardevole coincidenza, allignano le scritture più spericolate. In Veneto, ad esempio, l’approccio sperimentale già tentato da Calzavara si ripresenta in Ruffato e Zanzotto, e sempre marchiato a fuoco dallo stigma della visceralità, che appena al di là del confine lombardo, a Sirmione, dà il nerbo anche ai versi di Franca Grisoni. In un poeta del calibro di Zanzotto, il dialetto «filigrana interna» dei testi in lingua è esploso dagli anni Settanta, ora come veneziano illustre, ora come infantile «petèl», ora come scandaglio per una villoniana rievocazione di persone e mestieri scomparsi. Negli ultimi testi, l’abbraccio dei «vidison Jekyll-Hide», le splendide parassitane vitalbe, sigilla il tempo del superfluo, svettando sul giallo festoso dei casuali topinambùr e il sanguinoso oblio dei «papaveri stragiferi».
Altrettanto libere e temerarie sono state le scelte di alcuni autori radicati nella couche ancor viva e dinamica delle città del Sud. Se Maffia o Serrao (e prima ancora Pierro) compiono la mossa tipica del dialettale odierno, scrivendo da una metropoli, Roma, con le parole di una giovinezza d’altrove, Mauro Marè si è affidato a un romanesco fangoso, gonfio di trovate e neologismi: degno pennello della «Bbabbilogna» di gloria e fiacca dipinta col fuoco in Controcore (1993). Tiene il passo con la violenza espressiva di Marè, sorpassandolo anzi in una Piedigrotta d’invenzioni linguistiche Mariano Bàino, che in Ònne ‘e terra (1994) getta il napoletano in una vorticosa centrifuga, a bagno con mille parlate, su fondali tetri del tutto dimentichi della solare cartolina partenopea. Nelle prove di Bàino, già membro del «Gruppo ‘93», sia pur estremizzato si avverte un ricorso al dialetto che non si nega al confronto con la baraonda dei linguaggi attuali. In quest’ottica, la via maestra l’ha forse tracciata la musica, che negli anni Novanta non ha esitato a tuffarsi nell’onda «etnica» mondiale recuperando le più disparate varietà locali. Non si tratta soltanto di registrare la rinnovata vitalità di tradizioni musicali antichissime: come la pizzica, immortalata da Edoardo Winspeare in Sangue vivo (1999), un film di singolare intensità, girato in salentino stretto (coi sottotitoli). È da rimarcare, piuttosto, come attraverso le contaminazioni più impure e spregiudicate il folk vada ritrovando un insperato contatto col pubblico più giovane. Nelle danze alpine dei Lou Dalfin, cantate rigorosamente in occitano, alla ghironda non risponde l’orso ammaestrato, ma il tuono dei bassi.