Una poesia orale postmoderna

La canzone, oggi, non solo è sempre più spesso percepita come autentica poesia (non senza qualche equivoco), ma sta andando incontro a una complessiva crescita di qualità letteraria, fondata su norme diverse da quelle della tradizione. Si può forse parlare di una poesia orale postmoderna: il cui frutto più interessante e radicale è certo il rap, sintomo peraltro anche della necessaria manifestazione che attualmente accompagna la migliore parola di intrattenimento musicale.
 
Pare che all’esame di maturità 2001, durante lo svolgimento della prova scritta d’italiano, un commissario interno di letteratura abbia disperatamente confessato (via telefono cellulare) a un collega estraneo alla commissione che, no, maledizione, né lui né l’insegnante di storia dell’arte quei Baldazzi e Bardotti li avevano messi in programma: a Gropius in arte c’erano arrivati, e qualche idea intorno a chi fossero i letterati Cardarelli, Saba e Penna l’avevano trasmessa; ma Baldazzi e Bardotti, ahimè, non li avevano fatti, né lui sapeva quali indicazioni dare ai propri studenti circa la loro poetica, la loro visione del mondo, il loro stile. Lo aiutasse dunque il collega, previa consultazione di qualche storia letteraria o enciclopedia.
Abilissimi parolieri degli anni Sessanta e Settanta, Gianfranco Baldazzi e Sergio Bardotti sono come molti peraltro sanno gli autori del testo di Piazza grande, una canzone interpretata da Lucio Dalla a Sanremo nel 1972, poi resa nota da Ron (coautore con Dalla della parte musicale) e Gianni Morandi. E, appunto, il candidato della maturità 2001 ha dovuto fare i conti anche con l’autorevolezza estetica di quella canzone, nonché di quella coppia di scrittori, nel caso in cui abbia scelto di produrre un saggio breve o articolo di giornale afferenti all’«ambito artistico-letterario» della prima prova. Che la canzone più esattamente il testo della canzone stia andando incontro a un autentico processo di canonizzazione letteraria, è un fenomeno così attivo nella nostra società da provocare mutamenti sensibili pure nel dominio della scuola, conservatrice quasi per definizione. E una parte non trascurabile degli insegnanti specie se giovani oggi non riesce a capire per quale ragione nelle medie inferiori o nel biennio delle superiori, insegnando poesia, nei programmi non si debba far posto ai testi di Guccini, De André, De Gregori, Fossati, a fianco e magari in sostituzione dei poeti unicamente cartacei, degli autori che, soli, sinora erano reputati tali. Ancor più profondamente, il riscatto estetico della canzone attualmente riguarda persino gli ambiti bassi e andanti, commerciali, estranei alle pretese artistiche della canzone d’autore. Se lo sdoganamento di Nino D’Angelo e di tutta la tradizione partenopea schiettamente popolare ha un sapore talvolta artificioso, intellettualistico (forse più camp che cult, per intenderci: penso all’uso che dello stesso D’Angelo ha fatto Roberta Torre nel film Tano da morire, del 1997), esistono altri segnali, più sintomatici e profondi, che denunciano il compiuto recupero della forma-canzone in quanto tale. In tempi recenti colpisce soprattutto il bell’album del gruppo milanese La crus, Crocevia, dove la pratica della cover, realizzata con l’ausilio di algide sonorità elettroniche e grazie alla voce viceversa caldissima di Mauro Ermanno Giovanardi, coinvolge a pari titolo e merito Bruno Martino e Paolo Conte, Patty Pravo e Ivano Fossati, Nada e Giorgio Gaber. E qualcosa di molto simile a un «Canzone, è bello!» è il messaggio che promana dal contributo certo discutibile e discusso, ma nient’affatto dilettantesco, e anzi tecnicamente agguerrito, di Gianfranco Salvatore, vale a dire il ponderoso Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato. Arte e linguaggio della canzone moderna, una della pochissime analisi musicologiche del fenomeno, peraltro non priva di toni apologetici e di sconcertanti ingenuità letterarie («Ma quant’è grande una canzone di Mogol-Battisti? Spesso è molto grande, in certi casi specie se interpretata dallo stesso Battisti enorme, e qualcuna (credo) infinita», p. 12).
A ben vedere, poi, negli ultimi quindici anni si è anche verificato un ben curioso rovesciamento delle attribuzioni di valore politico conferite in particolare alla canzone d’autore: se fino agli anni Ottanta, uno degli attacchi più frequentemente mossi ai cantanti laureati era quello di esser troppo poco politicizzati, poco attenti ai temi del sociale e della militanza, oggi avviene esattamente l’opposto, e si ha l’impressione che nella sensibilità d’un certo pubblico il cantautore della vecchia generazione rappresenti il più vero portatore dei valori detti di sinistra. Lo si è percepito con particolare evidenza alla morte di De André: il quale, certo, negli ultimi anni (vedi almeno l’album Anime salve) aveva raggiunto alti livelli di qualità musicale e letteraria, e insieme aveva espresso una buona coscienza terzomondista in grado di schierarlo in prima linea nella lotta per una società multietnica; ma la cui santificazione anche e soprattutto morale appare — almeno allo scrivente — francamente sospetta. Il fatto è che sui cantautori e sulle loro opere (né la dittologia è del tutto oziosa: parlo tanto dei cantautori come persone quanto dei loro prodotti artistici) si tende spesso a proiettare in maniera parecchio ideologica valori latamente umanistici e tradizionalistici, riconoscendo loro quel particolare tipo di mandato, estetico e politico a un tempo, che grosso modo dopo Carducci il pubblico e la critica non hanno più confermato alla poesia e ai poeti italiani degni di questo nome. E gli autori di canzoni, in questo senso, sono stati pienamente al gioco. Se il De André di Anime salve può congedarsi dall’ascoltatore con un pezzo come Smisurata preghiera che sembra fare il verso a un epodo carducciano («Alta sui naufragi […] // Sullo scandalo metallico / di armi in uso e disuso / […] la maggioranza sta la maggioranza sta»), De Gregori attribuisce alla propria voce la capacità conoscitiva ma anche etica di restituire pienamente la realtà («So che tu lo sai perfettamente / Come ti devi comportare / Abbiamo avuto tempo sufficiente / Per imparare / E poi lo sai che non vuol dire niente / Dimenticare / E tu sai che io lo so / E quello che non so / Lo so cantare»; Battere e levare, in Prendere e lasciare), mentre Franco Battiato in anni relativamente lontani è giunto a rilasciare dichiarazioni di poetica a dir poco sconcertanti, dominate dalla nostalgia per valori assoluti, peraltro ribadite in tempi recenti dal testo d’una canzone programmatica sin dal titolo, Il potere del canto, contenuta in Ferro battuto («Aspiro a un’epoca ordinata. […] Cerco una forza di espressione pura, totale. […] Per me la musica è uno stato superiore di armonia pura», pp. 21 e 55 di Tecnica mista su tappeto, a cura di Franco Pulcini).
E dire che, con una maggior modestia teorica e una discreta pragmaticità d’intenti, parecchie delle canzoni più disimpegnate, più sanremesi, giovanilistiche o di massa che dir si voglia, non hanno affatto avuto bisogno né di cortine fumogene letterarie né di attestati di correttezza politica per affermare la propria dignità di onesti prodotti commerciali; è infatti palmare che per lo meno nel rispetto della produzione testuale la media delle canzoni odierne si caratterizza per una decorosa dignità di fattura, per una non spregevole spigliatezza e vivacità di stile. Magari è scontato che un Alex Britti, sensibile al ritmo anche in chiave jazzistica, possa affermare in un testo tipicamente «per l’estate» come Solo una volta (o tutta la vita), «c’era una volta o forse erano due / c’era una mucca, un asinello un bue / c’era una notte con una sola stella / però era grande, luminosa e bella / e se ci va magari andiamo al mare […]» (it.pop), allineando endecasillabi discontinui, tecnicamente non diversi poniamo da quelli di De André. Ma che il «cecchettiano» Max Pezzali, leader degli 883, gestisca con la massima disinvoltura un complesso gioco di tronche da canzonetta, di sdrucciole e di enjambements, è cosa che i superciliosi della canzone d’autore forse nemmeno sospettano, magari ritenendo che certe sprezzature prosodiche siano un’acquisizione «d’arte», appannaggio in particolare della premiata ditta Mogol-Battisti: «Tutti mi dicevano: “Vedrai, / è successo a tutti, però poi / ti alzi un giorno e non ci pensi più, / la scorderai / ti scorderai di lei”. // Solo che non va proprio così, / ore spese a guardare gli ultimi / attimi in cui tu eri qui con me, / dove ho sbagliato e perché? / Ma poi mi son risposto che // non ho nessun rimpianto, nessun rimorso […]» (Nessun rimpianto, ora in Gli anni).
Molti sono cioè i sintomi che fanno pensare al consolidamento di una cultura, di un sapere canzonettistico specifici; all’esistenza d’una pratica testuale di nicchia, separata, che coinvolge l’insieme degli autori di opere extracolte per musica, e che ha ormai poco in comune con l’antico laboratorio della canzone-romanza imperante sino alla fine degli anni Cinquanta. Una cultura fondata su una percezione della parola, e sulla sua relativa gestione, di indole soprattutto orale-, materiata di una sensibilità che recupera, per strade non facili da seguire e descrivere, le consuetudini del canto popolare, la sua peculiarissima capacità di conservare e insieme improvvisare un testo, di farne oggetto tanto di una trasmissione sociale, impersonale, quanto di una serie illimitata di esecuzioni individuali. Che io sappia, uno dei pochissimi ad aver dato una descrizione soddisfacente, anche se solo intuitiva di questa nuova-antica condizione testuale è stata Gianna Nannini peraltro laureata al Dams e quindi tutt’altro che sprovveduta la quale ha perentoriamente proclamato la propria sostanziale estraneità, appunto in quanto musicista, alla tradizione letteraria scritta («ho sempre letto poco»), eccezion fatta per una selezione di testi poetici oralizzati, cioè appresi a memoria («non ci torno più su Baudelaire, che so già a memoria o su tanti altri che ho già inglobato»); e ha dunque argomentato che, almeno per lei, attraverso tale manipolazione della letteratura, in un contesto per definizione nuovo come è quello rock è possibile ritrovare la vitalità primaria, in ultima analisi popolare, della parola («Per me che faccio musica, la parola deve sempre essere viva […]. Preferisco tornare […] su certi testi folk per capire come abbiamo fatto a perdere un certo contatto con la parola che prima era tutta interamente basata sull’improvvisazione»; intervista concessa a Jonathan Giustini, ora in Lorenzo Còveri [a cura di], Parole in musica, pp. 110-111).
E che 1 «oralità seconda» di cui qui si tratta non possa non avere fattezze autenticamente postmoderne, che non sia l’illusoria riproposizione d’un passato mitico, è con energia ribadito dal fenomeno rap e dalla relativa cultura hip hop, che hanno costituito la vera novità nel dominio della lingua cantata dal 1990 in poi (risale a quell’anno il primo disco rap italiano, Patti il tuo tempo, dell’Onda Rossa Posse). Tutti i rituali e le buone maniere del mondo canzonettistico e cantautorale sono sconvolti da una prassi testuale e musicale dominata da due principii: l’improvvisazione duna specie di recitativo costruito su pattern metrici elementari (dominano i versi brevi, i ritmi binari, le rime ribattute) e l’utilizzazione di basi musicali assemblate a patchwork, in seguito anche campionate, in ogni caso prese in prestito di peso da incisioni preesistenti. La voce cadenzata a mo’ di prosa ritmica dell’MC, «maestro di cerimonie», e i dischi miscelati dal DJ sono la radice prima del rap. Che tuttavia, quanto alla lingua, assume da subito in Italia una posizione particolarmente radicale perché spesso implica l’uso dei dialetti, segnatamente di quelli centro-meridionali, e comunque l’impiego d’un italiano gergalizzato, grezzo, duro, anzi durissimo anche nei contenuti. Sembra dunque che nessuna mediazione o restaurazione d’aura sia più possibile: almeno di fronte, poniamo, alle invettive dell’isola Posse All Stars («Bologna anche questa volta Bologna / rossa di vergogna e sangue non sogna più / anni e anni di cazzate tipo “isola felice” / non han fatto che danni… / Bologna è solo il buco del culo del mondo»; Stop al panico, in Fondamentale n. 1), alla populistica denuncia in vernacolo dei salentini Sud Sound System («Pallidu politicu nun c’hai statu mai in seconda classe / sullu trenu che va da Lecce a Schaffhausen / chinu de gente sì ma gente ca sta fugge / lontano dalla loro terra d’origine»; Soul Train, in Comu na petra), o anche magari di fronte alle goliardate dei milanesi Articolo 31 («io sono il professore / sono la rogna / il funktabbozzo alcolico / cannabistico / tossico / di succo di brogna»; Così mi tieni). E non è tanto, contrariamente al sentire comune di artisti e pubblico, una mera questione di maggiore o minore compromissione con l’industria culturale (anche per la banale ragione che il rap, come tutti sanno, ha saputo commercializzarsi benissimo: se è vero, ad esempio, che un Jovanotti ha presto vampirizzato il genere, peraltro con intelligenza; e che uno dei più talentuosi MC della scena romana, il famigerato er Piotta, ha avuto il successo che ha avuto), quanto la conseguenza d’una diversissima gestione del linguaggio, dell’adesione a convenzioni, espressive e contestuali, ben distinte da quelle della canzone, a esse quasi totalmente estranee. Non per caso, se il critico esterno al fenomeno parla di rap, chi quella musica vive dall’interno parla di hip hop, cioè di un sistema culturale giovanile (una subcultura, la chiamano i sociologi di lingua inglese), tipico in particolare delle aree urbane occidentali, e caratterizzato tra l’altro da comportamenti antagonistici, nonché da un uso alternativo dello spazio (centri sociali, graffiti, rave parties, ecc.). E infatti, anche qualora scalino le classifiche di vendita, i rappers venuti dal basso (99 Posse, Articolo 31) mantengono una certa posizione di alterità rispetto al pubblico di massa, ad esempio rifiutando quell’eccesso di personalizzazione individualistica tipica del cantautore, e magari ottenendo (e non è poco) che i propri CD siano venduti a un prezzo calmierato, in senso lato politico.
Questo principio, vale a dire il fatto che una forma di irriducibilità è immanente al mondo hip hop, è abbastanza facile da verificare: si osservi solo che, quando accedono in modo più organico all’industria culturale, alcuni gruppi smettono di rappare, trasformano in profondità la propria musica, la normalizzano. Tipico il caso degli Almamegretta: che oggi non solo producono sonorità elettroniche di fusione, comunque intese a suggerire atmosfere mediterranee, ma puntano su testi massimamente generici, quasi delle campionature invero deludenti dei cascami melodici napoletani dai più conosciuti e riconosciuti (arrivando persino a far la parodia, come nel seguente caso, della notissima Sei un mito degli 883, di cui però il testo non possiede la provocatoria leggerezza e spensieratezza: «quanno ‘o vveco nun ‘o ccredo / nun me pare ‘o vero / ca ‘a cchiù bbella de quartieri / fa ammore cu’mme / e si st’ammore è sincero / famme nu piacere / dicecencello ‘o munno sano ca vuo’ sulo a mme»; Fa ammore cumme, in Imaginaria).
Ma il problema è, con ogni evidenza, più generale: e anche fuori o ai confini del mondo hip hop, cioè nei domini del rock e del folk rock, agiscono problemi analoghi. In particolare quando si fa un uso straniato del dialetto, mettendolo a contatto con esperienze di tutt’altra tradizione e origine, il rischio della mistificazione, del folklore adulterato, dell’ideologia etnica, è fortissimo; potenzialmente anzi si fa pericoloso quando l’invenzione dell’etnologia si carica di ambizioni arcaizzanti, ora mediterranee (peraltro più innocue) ora celtiche (che invece, come è noto, fanno danni maggiori). Eppure, di esempi positivi a cui guardare ce ne sono non pochi: a partire dai «padri» Pitura freska e Mau mau, capaci gli uni di contrastare il reggae con il veneziano, mantenendo in vita gli aspetti giocosi e utopici di entrambi; gli altri di africanizzare il piemontese, rimescolando in modo davvero caotico generi e forme, senza però mai perdere di intensità espressiva e polemica (per capire il concetto, si ascolti il recente doppio CD dal vivo, Marasma generale), non dimenticherei quel curioso figuro che è il comasco Davide Van de Sfroos, dotato di un buon orecchio poetico in senso appunto popolare, extracolto e insieme di una robusta sensibilità folk rock: talenti che gli permettono di mettere in musica, e in scena nella forma anche del dialogo -, un mondo laghista, per la precisione laghee, non si sa se più ironico o più nostalgico, ma comunque sempre lucido, laico, anche quando vira verso atmosfere celtizzanti («E scùlta i spiriti e scùlta i fulètt / che rampèghen sòel miiiir e sòlten fòe del cassett / gh’hann sòe i vestii de quand sèri penènn / i ne vànn e i ne vègnen cun’t el buceer del vènn…»; Pulènta e galèna /règia, in Brèva e Tivàn).
Il che vuole insomma dire insegnamento forse irrinunciabile proveniente dal mondo hip hop che la contaminazione di codici è a un tempo inevitabile e rischiosa: che la purezza della parola e del suono è del tutto ideologica, che gli opposti possono e devono convivere mostrando i propri limiti e le proprie miserie espressive. Cose, queste, che peraltro sono ben presenti alle due voci forse più importanti della canzone d’autore odierna: a Paolo Conte, voglio dire, che trattando di Novecento nell’album eponimo si riconosce una condizione di smemoratezza linguistica, l’impossibilità cioè di parlare e cantare con voce naturale («Conversiamo… come faccio? Vuoi tu dirmelo? / C’era una volta un bel linguaggio che mai più / ho parlato, non ti dispiace ricordarmelo?…. //Ci manca il pubblico, va bene, ma io e te / siam due grandi artisti e insieme / diam spettacolo, del tutto illogico»; Gong-oh, in Novecento)’, e a Vinicio Capossela, che interpreta canzoni al quadrato, testi e musiche di uno spettacolo circense in cui è rappresentato un saltimbanco che canta, che recita il proprio cantare, secondo peraltro una tradizione perfettamente modernista (e solo in questo modo è forse pensabile che nel 2000 appaia delizioso un novissimo tango come Con una rosa, dove tra l’altro si dichiara: «portami allora portami il più bel fiore / quello che duri più dell’amor per sé / il fiore che solo non specchia il rovo / perfetto dal dolore / perfetto dal suo cuore / perfetto dal dono che fa di sé»; Canzoni a manovella). Sarà così suffragata, in definitiva, l’idea programmatica espressa da una delle più importanti voci della musica mondiale non pacificata, Manu Chao: vale a dire che tutto quanto, manipolando parole e note, provvisoriamente riusciamo a mettere insieme comunque si trasforma in patchanka, merce di scarto, muzak, opera da tre soldi; e che la nostra sperata, impossibile sintesi sarà tanto più preziosa utile efficace (tanto più bella?) quanto più la patchanka conoscerà e mostrerà se stessa, i suoi ingredienti e le sue dissonanze, e le sue cicatrici.