Buoni risultati per la narrativa italiana, anche se non si può certo parlare di sorpasso rispetto a quella straniera (solo 32 gli autori nazionali in classifica di contro ai 64 esteri). Crescono gli scrittori capaci di dialogare con il pubblico di massa e, soprattutto, cresce il successo legato al passaparola, al moto spontaneo dei lettori: emblematico il caso di Io uccido dell’esordiente Faletti. E sempre più peso riveste la saggistica, in modo particolare quella dedicata al dibattito delle idee e ai problemi di casa nostra. Segno forse di una ritrovata passione politica degli italiani.
Meglio di così per gli italiani non sarebbe potuta andare. È quanto, a una visione d’insieme, lascia intendere l’analisi della rassegna dei libri di maggior successo dell’annata appena trascorsa. I risultati vanno oltre la conferma del buon andamento che la produzione nostrana, narrativa e saggistica, ha registrato a partire dalla stagione 20002001. Sette titoli tra i primi dieci classificati, tredici fra i primi venti: la tentazione di parlare di exploit ha un fondamento oggettivo. Eppure, interpretati in maniera corretta, i dati inducono a una maggiore cautela portando alla luce una realtà più sfumata e incerta.
Ma vediamo la graduatoria generale. Al primo posto si colloca Il giro di boa dell’onnipresente Andrea Camilleri con 1 159 punti complessivi e 15 presenze. Seguono Io uccido del debuttante Giorgio Faletti, 1 132 punti e 26 presenze; La città delle bestie di Isabel Allende, 949 punti e 14 presenze; il premio Strega 2002 Non ti muovere di Margaret Mazzantini, 832 punti e 26 presenze; Senza sangue di Alessandro Baricco, 727 punti e 16 presenze; La principessa sul pisello di Luciana Littizzetto, 679 punti e 15 presenze; Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, 670 punti e 30 presenze; Vivere per raccontarla di Gabriel Garcia Màrquez, 600 punti e 10 presenze; Sono stata spiegata di Anna Maria Barbera, 586 punti e 20 presenze; Il volo del calabrone di Ken Follett, 568 punti eli presenze.
Questa la top ten. Ma la performance della compagine italiana è ancora più che apprezzabile anche nelle posizioni immediatamente successive: al dodicesimo posto, troviamo un altro debutto editorialmente fortunato, La Mennulara di Simonetta Agnello Hornby, 541 punti e 23 presenze; al tredicesimo Buskashi di Gino Strada, con 496 punti e 17 presenze. Quindi Bis. Nuovi momenti catartici A Flavio Oreglio, quattordicesimo con 496 punti e 12 presenze; Lorda di Gian Antonio Stella, sedicesimo, 416 punti e 13 presenze; E una vita che ti aspetto di Fabio Volo, diciottesimo, 367 punti e 13 presenze; Il contrario di uno di Erri De Luca, ventesimo, 343 punti e 9 presenze.
I risultati sono derivati dall’esame dei punteggi settimanali pubblicati dal quotidiano «la Repubblica» tra il 6 settembre 2002 e il 25 luglio 2003 (i rilevamenti statistici sono stati compiuti dall’istituto Cirm, sulla base dei dati di sessanta librerie scelte a rotazione, fino al 20 dicembre 2002, e in seguito da Eurisko, che si è affidata invece a 230 librerie aderenti al servizio Arianna di Informazioni editoriali). Il criterio adottato assegna 100 punti al titolo più venduto nella settimana in corso e agli altri un proporzionale punteggio inferiore, da 99 a 1. I titoli che hanno ottenuto un piazzamento utile sono quindi raggruppati in sei aree distinte: narrativa italiana, narrativa straniera, saggistica, varia, tascabili, supertascabili.
Non vale la pena intrattenersi sull’incongruenza di tale suddivisione, che s’appoggia indifferentemente sulla ripartizione letteraria in macrogeneri e su macrocategorie merceologiche fin troppo eterogenee. Ai fini della nostra analisi, le aree individuate posseggono un’utilità funzionale che consente un’adeguata riflessione critica. Piuttosto è utile precisare che ognuna di esse raduna un numero invariabile di titoli, sei per la precisione. Con la conseguenza che la valutazione dei punteggi risulta strutturalmente falsata in quanto si rende possibile l’eventualità che il primo escluso di un raggruppamento abbia ottenuto una prestazione reale superiore a quella dei titoli piazzatisi in un altro raggruppamento. D’altra parte, ai 100 punti di una settimana può corrispondere un numero di copie vendute anche molto difforme rispetto a quelle dei primi classificati della settimana successiva. Solo a patto di non dimenticare i limiti del sistema relativistico su cui, in assenza di cifre inconfutabili, le classifiche sono fondate, l’analisi si rivela vantaggiosa per ragionare sugli indirizzi prevalenti del mercato editoriale.
D’altronde, proprio il confronto tra le due aree principali, narrativa italiana e narrativa straniera, permette di vagliare in modo equilibrato il favore che i lettori hanno accordato ai propri connazionali. Certo, sorprende constatare che molti degli autori di più consolidata fama internazionale si devono accontentare di posizioni di media classifica: diciassettesimo Paulo Coelho, con Undici minuti, 415 punti e 5 presenze; diciannovesimo Wilbur Smith, Orizzonte, 358 punti e 9 presenze; ventiduesimo John Grisham, Il re dei torti, 307 punti e 7 presenze; ventisettesimo Michael Crichton, Preda, 276 punti e 6 presenze. E poi, ancora, trentesima Patricia Cornwell, Ritratto di un assassino’, trentaquattresimo Clive Cussler, Walhalla; trentacinquesima Banana Yoshimoto, Presagio Triste; trentanovesima Tracy Chevalier, La ragazza con l’orecchino di perla; quarantunesimo Stephen L.
Carter, li imperatore di Ocean Park:, quarantasettesimo Stephen King, Tutto è fatidico; cinquantesimo Daniel Pennac, Eccola storia.
Ma se si considerano i punteggi di tutti i titoli che nell’annata hanno fatto il loro ingresso in classifica, la somma risulta nettamente sfavorevole ai nostri autori: 6 941 punti contro 8 406. I libri di narrativa italiana sono trentasette, di cui dodici si attestano al di sopra dei 100 punti complessivi, che consideriamo qui come soglia al di sopra della quale si può incominciare a parlare di un successo ragguardevole. Appena trentadue sono d’altra parte gli autori: Camilleri, Carlo Lucarelli e Susanna Tamaro sono infatti presenti con due titoli e Maria Venturi con tre. Ben sessantaquattro, e cioè quasi il doppio, sono invece i bestseller stranieri, ventisei dei quali oltre i 100 punti, mentre cinquantuno sono gli autori, dieci con presenze multiple: quattro titoli la Rowling, due titoli Allende, Grisham, Yoshimoto, Chevalier, King, Terry Brooks, Michael Connelly, Sandor Màrai, Danielle Steel. Anche la saggistica si dimostra, per numero di titoli, superiore alla narrativa italiana: addirittura sessantasette sono i libri che incontriamo, di cui tredici (uno in più rispetto alla narrativa italiana) sopra i 100 punti.
I calcoli compiuti non sono oziosi: permettono di introdurre un correttivo ai difetti del sistema di rilevamento, avvalorando una diagnosi più realistica dello stato di salute della nostra narrativa. Le classifiche danno evidenza al fatto, largamente positivo, che si è ormai formato anche nel nostro paese un volenteroso manipolo di scrittori disponibili a tenere aperto il dialogo con il pubblico di massa adottando moduli discorsivi di agevole fruibilità; nel medesimo tempo, mostrano anche che tale manipolo continua a essere troppo esiguo perché sia possibile quel rapido ricambio dei titoli che invece si registra nelle aree merceologiche concorrenti e che costituisce, dal punto di vista commerciale, il principale indice di una modernità industriale definitivamente raggiunta.
Sullo sfondo di queste riflessioni si può valutare nella giusta dimensione anche la clamorosa e imprevedibile fortuna editoriale del thriller di Faletti. Certo, non è la prima volta che il romanzo di un esordiente compie una scalata di tale entità ai vertici del successo. Senza voler ignorare la diversità di consistenza letteraria, bisogna pur ricordare che una circostanza analoga si è avuta con II nome della rosa di Umberto Eco. Ma il semiologo piemontese era un raffinatissimo uomo di lettere, abituato a maneggiare le strutture narrative, sia pure in qualità di studioso. Lo straordinario consenso di pubblico che ha accolto Io uccido presenta un carattere di eccezionalità ulteriore per l’assoluta estraneità del suo autore all’universo librario.
Nondimeno, va anche riconosciuto che il romanzo di Faletti è frutto di un impegno e un’ambizione compositiva che lo distingue dai molti, troppi successi trainati dalla popolarità televisiva. E, questa volta, la critica colta ha riconosciuto la differenza, eccedendo addirittura nelle attribuzioni di lode, al punto da sottacere i difetti che pure sono tutt’altro che trascurabili sul piano dello stile e, ancora più, su quello della strutturazione narrativa, obiettivamente pletorica e sovrabbondante.
E, però, su un altro punto che è necessario soffermarsi, e cioè sui tempi lunghi che Io uccido impiega per raggiungere le vette della graduatoria. Il romanzo fa per la prima volta la sua comparsa in classifica il 29 novembre 2002 con soli 16 punti (restando al di fuori della top ten dove l’ultimo piazzato ne ha 35). Il 6 dicembre balza a 65 punti, primo dei narratori italiani, quinto nella classifica generale (dietro a Garcia Màrquez, Allende, Grisham, Vespa). Il 20 dicembre è a 96, alle spalle della Littizzetto. Il 10 gennaio, ancora secondo, scende a 80; è quindi a 69 il 17 gennaio e a 33 il 24 gennaio. Solo il 31 gennaio, oltre due mesi dopo l’arrivo il libreria, conquista i 100 punti ponendosi alla testa alla top ten. Ma la settimana successiva ha già perso la posizione d’onore, a vantaggio di II volo del calabrone di Ken Follett. Recupera il primo posto il 14 febbraio e vi resta due settimane. Poi scende definitivamente, resistendo tuttavia nella classifica scorporata della narrativa italiana fino al 16 maggio.
E il modo di procedere consueto ai successi nati in virtù del passaparola, per un moto spontaneo dei lettori che, avendo trovato il libro degno di apprezzamento, ne parlano, lo consigliano, lo regalano. Ciò significa che l’effetto di trascinamento determinato dalla popolarità televisiva è un fattore secondario, tutt’al più agevolante, nella conquista del successo. Ma quel che più conta osservare è che il comportamento di Io uccido costituisce la regola dei successi italiani. L’unica eccezioni è rappresentata da Camilleri, che con la nuova avventura del commissario Montavano entra in classifica il 28 marzo ed è subito in prima posizione, posizione che mantiene di seguito fino al 30 maggio per ben nove settimane. Poi il rapido quanto lineare declino: 46 punti, 34, 29, 27, 23. Una parabola che avvicina II giro di boa ai grandi bestseller stranieri, che fanno il pieno dei punti nel breve termine per poi uscire in fretta di scena e lasciare il posto ad altri titoli.
La diversità delle strategie di conquista del favore del pubblico risalta ancor meglio calcolando la media fra i punti ottenuti e le settimane di presenza. Faletti totalizza 43,5 punti a settimana, Baricco 45,4, Mazzantini 32, Agnello 23,5, Ammaniti 22,3. Per contro Camilleri ne totalizza 77,2, Coelho la bellezza di 83, Allende 67,7, Cornwell 65, Garcia Màrquez 60, Follett 51. E a 46 arrivano Crichton e Cussler, che scavalcano la maggioranza dei competitors italiani da cui pure sono distanziati nella classifica generale. Queste osservazioni inducono a correggere le conclusioni ottimistiche che le cifre riportate all’inizio sembrerebbero giustificare: la prestazione dei nostri narratori è infatti gonfiata dalla scarsa rivalità interna che consente loro di raggranellare punti nella classifica scorporata anche dopo aver terminato il loro ciclo ed essere usciti dalla top ten.
L’unico ambito in cui gli italiani si dimostrano padroni pressoché assoluti è nel territorio di loro appannaggio da sempre, la saggistica. Su sessantasette titoli, quarantasette sono italiani (includendo nel calcolo anche Saddam di Magdi Allam e Berlusconi di Paul Ginsborg). La graduatoria dei primi dicci è la seguente: Buskashi di Strada, 496 punti; L’orda di Stella, 416 punti; La grande muraglia di Bruno Vespa, 298 punti; Stupid white men di Michael Moore, 288 punti; Piccolo Cesare di Giorgio Bocca, 278 punti; I figli dell’aquila di Giampaolo Pansa, 268 punti; Il vizio oscuro dell’occidente di Massimo Fini, 219 punti; Bravi ragazzi di Peter Gomez e Marco Travaglio, 190 punti; Idincredibile menzogna di Thierry Meyssan, 184 punti; Manuale dell’uomo domestico di Beppe Severgnini, 136 punti.
Stupisce, a fronte della mole di libri pubblicati dopo l’11 settembre 2001, la quasi completa indifferenza per il conflitto in Iraq, che pure aveva suscitato una reazione di massa di inconsuete proporzioni e, per venti giorni (dall’inizio delle operazioni militari alla presa di Baghdad), aveva monopolizzato la programmazione televisiva. Se si esclude l’agile dossier di Sergio Romano, Il rischio americano, che prende in esame il più generale problema della politica estera statunitense, l’unico saggio con un riscontro dignitoso è la biografia di Magdi Allam (peraltro appena quattordicesimo con 83 punti, ottantaseiesimo nella classifica generale), tesa a tracciare un ritratto partigianamente negativo del dittatore iracheno. Il più fruttuoso e storicamente ponderato La questione irachena di PierreJean Luizard si ferma a 19 punti con una sola presenza.
Senza avventurarsi in spiegazioni frettolose, sarà necessario considerare almeno il differente impatto emotivo esercitato sull’opinione pubblica dalla guerra decisa a caldo contro Osama Bin Laden (e il regime talebano) e quella progettata a lungo contro Saddam Hussein. All’origine della prima c’è infatti l’atterrito stupore provocato da un atto traumatico che, con il crollo delle Twin Towers, porta sulla ribalta internazionale un personaggio enigmatico quasi ignoto alla maggior parte degli italiani. E comprensibile che costoro, sentendosi impreparati a capire l’accaduto e le sue conseguenze, abbiano più fortemente avvertito la necessità di informarsi. Ed è altrettanto comprensibile che la stessa esigenza non sia stata avvertita nel secondo caso che ha avuto come deuteragonista una figura centrale nello scacchiere politico del Medio Oriente, perennemente sotto i riflettori dei media in virtù dell’importanza strategica che riveste per le sorti del pianeta.
Sta di fatto che la questione afghana e le sue scaturigini continuano a destare le attenzioni dei saggisti e dei lettori, come dimostrano il primo posto del diario che il fondatore di Emergency ha tenuto durante le settimane trascorse in Afghanistan nel periodo che va dal 9 settembre, due giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle, alla disfatta dei talebani, e il nono posto del dossier del francese Meyssan che, movendo da una serie di contraddizioni nella ricostruzione ufficiale, sostiene la tesi sconvolgente secondo cui nessun aereo sarebbe caduto sul terzo obiettivo dei terroristi, il Pentagono.
L’interesse più consistente si concentra tuttavia sui problemi di casa nostra: si tratti della carriera del Presidente del Consiglio (Piccolo Cesare e Bravi ragazzi) o della tensione crescente prodottasi tra maggioranza e opposizione (La grande muraglia). Anche gli avvenimenti del passato recente sono illuminati con uno sguardo attento alla cronaca e al corrente dibattito delle idee. E quanto accade in L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi di Stella, in cui l’emigrazione italiana viene ricostruita per contrastare i perduranti pregiudizi sull’immigrazione extracomunitaria, e I figli dell’aquila di Pansa, che torna a occuparsi dei giovani della repubblica di Salò in polemica con i tentativi assolutori del revisionismo contemporaneo.
L’ampio riscontro di pubblico di questi testi può essere lecitamente interpretato come il segno di una ritrovata passione politica degli italiani. Per contro, va dato il giusto risalto all’impetuoso desiderio di svago scanzonato soddisfatto dai libri comici, che occupano quasi per intero l’area della varia. A dominare, in questo ambito, sono i cabarettisti e i volti più noti dello spettacolo televisivo: Luciana Littizzetto, Anna Maria Barbera, Flavio Oreglio, Corrado Guzzanti, Gigi Proietti, Beppe Braida, Ezio Greggio, Claudio Bisio. Sulla loro scia si colloca, imprevedibilmente, il capitano della Roma Francesco Totti (ventunesimo nella classifica generale con 33 1 punti in quattro settimane: un punteggio per altri versi più che egregio), il quale firma una sconsolante raccolta delle barzellette in circolazione sui suoi impacci linguistici.
Certo, anche a questo livello, come in ogni serie letteraria, bisogna guardarsi dal fare di tutta l’erba un fascio. Quanto meno è doveroso distinguere tra i testi che ambiscono a una qualche dignità espressiva e quelli che si limitano a mettere insieme senza troppi sforzi le gag già sperimentate. D’altro canto, sarebbe inopportuno pretendere che l’industria editoriale si astenga dall’ottimizzare i profitti sfruttando le sinergie con gli altri settori della comunicazione: in linea di principio non c’è niente di disdicevole a sfruttare una formula già rivelatasi vincente altrove. La logica razionalizzatrice, anzi, non può che fare un gran bene all’asfittico mercato delle lettere in Italia, il cui sviluppo è stato storicamente rallentato semmai dal vizio opposto, e cioè un eccesso di volontarismo artigianale. Né si capisce perché le porte che vengono aperte di buon grado ai giornalisti dovrebbero rimanere serrate per i professionisti della risata.
Tuttavia, di fronte a tale valanga di freddure e gag grossolane, qualche preoccupazione è inevitabile coltivarla. Non solo perché anche i testi meno corrivi della Littizzetto e della Barbera dissolvono la pretesa di riflessione critica sui tic della contemporaneità in un’ilarità benevola e sostanzialmente consolatoria; ma, ancor più, perché la copiosa massa di libriccini comici lascia emergere per contrasto quello che è il fatto fondamentale: la totale rinuncia da parte degli scrittori tecnicamente più attrezzati a cimentarsi con i modi di un dignitoso umorismo letterario, che pure nel nostro paese ha alle spalle una tradizione fertilissima, da Achille Campanile a Vittorio Metz, da Giovanni Mosca a Giovanni Guareschi fino ai primi racconti di Paolo Villaggio.