La sindrome di Re Mida

Ultima edizione del Campiello. Di nuovo, come l’anno passato, vince un outsider (Marco Santagata) supervotato dalla giuria «popolare» ma non altrettanto apprezzato dalla giuria «tecnica». Di nuovo, quindi, lo scollamento tra la cosiddetta critica militante e chi compra romanzi. Ma c’è anche un fenomeno di cui tener conto. Oggi il grande pubblico si lascia abbastanza facilmente sedurre da alcuni opinion-business makers, capaci di appassionarsi a un libro e, in forza del loro potere mediatico (televisivo e/o giornalistico), di far vendere migliaia di copie.
 
Settembre, ultima edizione del Campiello. Il giorno dopo la premiazione sono molti gli scontenti e i musi lunghi; tranne quello di Marco Santagata, ovviamente, raggiante vincitore a sorpresa dell’edizione 2003 con 11 maestro dei santi pallidi. A giugno era entrato in cinquina dopo un ballottaggio faticoso perché la giuria «tecnica» del premio – formata prevalentemente da critici e da alcuni responsabili di pagine culturali nazionali – non lo riteneva idoneo a far parte dei magnifici cinque. I voti dei trecento giurati «popolari», però, hanno sconfessato quelle laboriose selezioni e, ancora una volta, hanno premiato un outsider, essendo Santagata professore universitario e non uno scrittore professionista.
Era successo anche l’anno scorso con Franco Scaglia, piuttosto snobbato dall’establishment letterario, ma alla fine riconosciuto come buon narratore dai lettori del premio veneziano. Ora la storia si ripete. E quando un caso si ripresenta diventa un sintomo. Forse, non c’è bisogno di uno stuolo di analisti per proiettare il fenomeno che emerge dal più popolare dei premi – coincidenza non vistosa ma insinuante – in quella endemica crisi dei rapporti fra critica e pubblico, fra mediatore e consumatore, fra addetti ai lavori e lettori che da tempo caratterizza le patrie lettere. Il segnale che arriva è complesso ma abbastanza decodificabile: c’è uno scollamento in atto, e là dove la critica, quasi militantemente e spesso con un linguaggio poco accessibile, propone scrittori che ardiscono sperimentazioni linguistiche e rivendicano una forte autorialità, chi compra i romanzi risponde con scelte che privilegiano la leggibilità e le narrazioni strutturate senza troppo spericolate arditezze, i personaggi, i mondi raccontati, le storie offerte da una scrittura che non dimentica, o snobba, il destinatario. Non parleremo in questa sede del punto di vista degli scrittori responsabili ognuno del proprio prodotto. Segnaleremo, invece, lo spazio sempre più risicato che le pagine culturali assegnano alle recensioni, nonché gli scambi di «piccoli favori», o talune «punizioni esemplari» in forma di stroncature troppo palesemente personalistiche, che risicano sempre più la credibilità dei recensori.
In questa smagliatura «esterna» al testo – una falla che rischia di diventare voragine – ben s’inserisce un altro recente fenomeno che quasi sottolinea la consunzione di un legame.
Se ne può rintracciare la preistoria, e la versione televisivo primaria, nel D’Agostino di Quelli della notte che, ripetendo a tormentone il titolo, fece la fortuna de L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera e del suo editore, Adelphi. Poi venne il periodo in cui i libri vendevano se «passavano» al Maurizio Costanzo Show} però ben presto la regola prese a funzionare solo se l’autore accettava, o era capace, di diventare personaggio in grado di «bucare» il mezzo.
Ma per lo più le esplosioni improvvise delle tirature fra i titoli di narrativa, quando cioè non si trattava di bestseller annunciati che di solito erano stranieri, avvenivano per motivi tutto sommato misteriosi: erano una sorta di lapsus – significativi solo con il senno critico e analitico di poi -, un’esplosione improvvisa in un mercato che funzionava «in libertà»: scattava la molla del passaparola, insondabile e poco programmabile ante quem, e il merito delle vendite era tutto dei lettori.
Così è stato, ad esempio, per i due successi di fine millennio, Il nome della rosa e Va’ dove ti porta il cuore, le cui rilevanti tirature all’epoca scapparono di mano agli editori. E anche alla critica che almeno con la Tamaro fu pesantemente intransigente, soprattutto dal momento in cui cominciò a vendere molto. Probabilmente è stato quello il momento in cui le ragioni dei lettori, pur appartenendo a fasce culturali diverse, si sono fatte sentire con evidente, eclatante autonomia.
Da qualche tempo però, questo è il fenomeno nuovo, un fantasma, più accorto e consapevole, si aggira per il mondo dell’editoria: V opinion-business maker che, detto in italiano, significa un personaggio in grado di leggere un libro di narrativa, appassionarsene e, anche in forza del suo potere mediatico (giornalistico o televisivo), fargli vendere alcune migliaia di copie. Veste panni diversi, non ha sempre lo stesso nome, ma ogni volta si fa riconoscere. Ed è orgoglioso della sua forza.
E la primavera del 1998, e dalle pagine di «Sette», il supplemento del «Corriere della Sera», Antonio D’Orrico intervista Giuseppe Ferrandino, uno scrittore napoletano ombroso e «duro» come i guappi che racconta, in procinto di ripubblicare da Adelphi un romanzo che ha già avuto buon successo in Francia, Pericle il nero. «Sarà il caso letterario dell’anno», scrive nel pezzo, annunciando con sicurezza, sia pur pacata, quello che poi avviene. Il titolo è dedicato al protagonista letterario, non allo scrittore: «Che personaggio, quel camorrista!». Il lancio funziona, in molti si appassionano a Pericle e al suo linguaggio duro, gergale, noir. D’Orrico prende coraggio e promuove con maggior decisione anche il secondo lavoro di Ferrandino, Il rispetto (ovvero Pino Pentecoste contro i guappi), che però non si trattiene per troppo tempo in classifica.
Nello stesso periodo si dedica con fervore a segnalare il romanzo «milanese» di Gino e Michele, Neppure un rigo in cronaca. Ma anche in questo caso il riscontro in libreria non è rilevante, probabilmente perché storia, personaggi e scrittura non sono memorabili, e forse anche perché il pubblico dei due geniali impresari della comicità non è quello della narrativa. Tuttavia, di lì a poco, D’Orrico fa centro pieno: a ridosso del Natale 2000, da quella che da tempo è diventata la sua rubrica settimanale, annuncia che è uscito «il romanzo più bello dell’anno»: La versione di Barney di Mordecai Richler, pubblicato da Adelphi. Stavolta il titolo è secco, diretto. Il romanzo è in libreria da più di tre mesi – sarebbe quasi pronto per le rese -, ne hanno già scritto in parecchi, ma quel titolo e quella pagina su «Sette» si fanno notare. Anche per l’intransigenza e la «semplicità» del titolo.
Durante le festività natalizie un altro lettore forte, ancor più apodittico nella retorica, si innamora di Barney: Giuliano Ferrara dalle pagine del «Foglio» – quotidiano le cui tirature sono minime ma che, almeno in quel momento, fa molta opinione – se ne dichiara entusiasta: lo ha sedotto soprattutto la «scorrettezza», esistenziale prima che stilistica, di quell’ebreo smodato e autodistruttivo che è l’epico protagonista del romanzo di Richler. E lui di anticonformismo e di fronda se ne intende. Ferrara ha la forza di trasformare quel libro in un fenomeno di costume, Barney in un personaggio alla moda. Ne parla in televisione, lo consiglia, sul suo giornale crea addirittura una rubrica, Andrea’s version, e la affida all’irriverente penna di Andrea Marcenaro.
In libreria, le tirature si impennano: vi contribuisce anche la sigla editoriale che ha fatto uscire il romanzo di Richler, quella di Adelphi, da tempo garanzia di qualità à la page. Le forze, i marchi, i poteri culturali si intrecciano. Dimenticavo, il romanzo è bello e trascinante, segno che i lettori riconoscono il buon prodotto, al di là dei mediatori, della loro capacità persuasiva e dei mezzi di cui dispongono.
Quando dopo qualche mese morirà Richler, assisteremo a un esteso cordoglio dal quale non sarà esente perfino una piccola lotta per la primogenitura della scoperta. Curiosamente tutta maschile, dimenticando che se il libro ha superato la soglia delle 100 000 copie vendute, lo deve anche all’attenzione delle lettrici, acquirenti forti di narrativa.
Di lì a un po’, il settimanale «Panorama» sembra voler riparare al torto subito dal mondo femminile, così in autunno, quando esce La rabbia e l’orgoglio della Fallaci, spara in copertina, adottando un superlativo, roboante quanto un po’ patetico, «La più grande scrittrice italiana»: strilli del mondo giornalistico, talvolta riservati alla cultura invece che alla cronaca, come vuole una tendenza in atto.
Ma il bello deve ancora venire perché, intanto, le iperboli barneyane hanno fatto scuola. E ancora Antonio D’Orrico ad ardire. Il 21 ottobre 2002 «Sette» scopre, in copertina, il «più grande scrittore italiano», nella persona di Giorgio Faletti, autore di Io uccido, romanzo thriller di discreta fattura che entra subito in classifica e vi resta per molte, molte settimane.
Nel mondo letterario qualcuno storce la bocca, o addirittura si scandalizza, ritenendo che la drasticità dell’affermazione andasse spesa con maggiore cautela, magari rivolgendola a qualche autore di tradizione. I lettori, intanto, comprano Faletti, contenti di ritrovarlo come scrittore, dopo averlo già conosciuto come comico di Drive in. e come cantante al Festival di San Remo. Tutto valore aggiunto, direbbero gli uomini del marketing.
Da parte sua, D’Orrico ha ormai capito che un giocatore non abbandona il tavolo verde per portare a casa il gruzzoletto – quello lo fanno i dilettanti -, ma sta lì e rilancia. Il 16 gennaio 2003, il titolo su «Sette» è sempre più simpaticamente strafottente: «Avete letto Faletti? Bene, ora leggete Avoledo», e in una «cronaca di un bestseller annunciato» parla del romanzo «straordinario» di Tullio Avoledo, L’elenco telefonico di Atlantide, pubblicato da Sironi editore, new entry nel mondo della narrativa. In poco tempo Avoledo è in classifica e ci resta quanto basta per vendere più di 30 000 copie. Risultato eccellente.
Dopo il quale, però, i mugugni degli addetti ai lavori aumentano; ma D’Orrico proprio non se ne cura: si è inserito nella falla fra critica e pubblico e si rivolge decisamente a questo ultimo: di settimana in settimana intensifica il suo rapporto con i lettori che infatti gli scrivono, plaudono alle sue scelte, le criticano; e lui risponde, polemizza, gratifica. All’assenza di una critica letteraria che sia credibile strumento di servizio – di mediazione, di informazione, di riflessione -, risponde con l’aperta, provocatoria partigianeria dei propri gusti. Scelte che privilegiano una linea decisamente «narrativa» che va dall’«alto» (Philip Roth) al «medio» (Andrea Vitali), dall’epico al realistico, passando per il romanzo di genere di buona confezione (Faletti, Cacopardo), riservando le sue perplessità (talvolta perfino troppo aggressive) agli scrittori in punta di penna, agli «stilisti», sia nella loro versione «sublime» (Michele Mari) che in quella kitsch (Rosa Matteucci). Narrazioni, narrazioni, questo il suo slogan. I gusti del pubblico si tingono di cultura anglosassone. Com’è successo anche in laguna a settembre.