Da Sesto San Giovanni a Globaltown

La memoria dei luoghi si intreccia a quella delle persone per raccontare la postmodernità industriale: succede in due delle più interessanti opere di narrativa in versi dell’ultimo anno, Gli impianti del dovere e della guerra e la Ballata dei tredici mesi. E se Antonio Riccardi ambienta a Sesto San Giovanni una vicenda familiare che è testimonianza della compresenza sofferta di fabbriche e natura, Daniele Gorret dispiega accenti apocalittici per contrapporre allo snaturamento dei luoghi il potere titanico della poesia. Il tema della memoria riaffiora carsicamente anche nella raccolta Folla sommersa di Fabio Pusterla: una memoria privata e collettiva, dolente e insieme salvifica nel suo recupero di quanto è nascosto allo sguardo.
 
Narrare in versi è una scelta che i nostri poeti continuano a prediligere poco, come restano opzioni di minoranza la trasparenza del dettato e l’inclinazione distesamente ragionativa, ossia le altre componenti principali della discorsività poetica. In questo quadro colpisce la programmazione di Garzanti che nel giro di un anno, dal maggio 2003 all’aprile 2004, pubblica due testi che adottano con decisione un impianto poematico, forse non a caso come strumento di una riflessione o colluttazione con la modernità industriale, la sua storia, il suo presente.
Gli impianti del dovere e della guerra di Antonio Riccardi ruota attorno a un luogo topico della nostra industria, Sesto San Giovanni con le sue fabbriche e altiforni. Il racconto attraversa il secolo, le guerre, gli anni trenta, i sessanta, e intreccia, all’insegna di una personalizzazione della pagina senza cedimenti intimisti, la storia collettiva – dai tempi dell’apogeo della fabbrica fordista all’affermarsi dell’automazione – alla vicenda familiare dei Riccardi: il padre, che a Sesto lavorava («vedeva gli organi e le ossa / degli uomini delle fabbriche»), tornando nei fine settimana alla casa di famiglia a Cattabiano nel Parmense, e il nonno, dragone caduto nella prima guerra mondiale per la quale le fabbriche sestesi preparavano strumenti bellici.
Il libro dà il suo meglio nell’evocazione dell’atmosfera industriale, di un orizzonte brunito e oleoso fatto di oggetti e materiali – la sirena, i forni e i laminatoi, i metalli di scarto, le terre da fonderia -, nel quale la presenza degli uomini si affaccia sinteticamente nominata, per lo più non descritta, affidata ad alcune designazioni collettive o a un velocissimo primo piano («loro davanti / le braccia conserte nel marzo ’43 / né salvi né morti ma in piena luce»), a suggerire la precarietà e subalternità della classe operaia nell’ingranaggio industriale, la fatica costante di un destino di dovere lavorativo e di servizio militare.
Ma Riccardi parla anche del canto animale «nel bosco della città dell’acciaio», di una caccia a una bestia incognita nella palude vicina alle fabbriche. Il suo mondo industriale è stretto alla natura in un abbraccio senza idillio: perché la natura resta ai bordi degli stabilimenti pronta, quando declinano, a riprendersi spazio, e perché nel mondo sociale agisce in altre forme la dinamica di lotta e sopraffazione che regge anche la vita della natura. E questa permanenza, resistenza, della natura, che caratterizza il modo di raffigurare la modernità di Riccardi, lo sforzo di scrivere della coesistenza, della compresenza antagonistica di naturale e artificiale nel nostro mondo metropolitano. Riccardi sceglie di dare a questa materia una stilizzazione sobria e controllata, opta per una pronuncia a voce bassa e concentrata: una presenza discreta, laterale, dell’io, una struttura ben disegnata ma leggera, articolata in sezioni staccate fatte di componimenti brevi, una scrittura che rifiuta ogni musicalità, con qualche eccesso di compassatezza.
A voce alta e spiegata è invece detta la Ballata dei tredici mesi. Daniele Gorret denuncia lo snaturamento dei nostri luoghi e modi di vita, a partire dalla sua Valle d’Aosta «stravolta dagli asfalti». Lo fa con una perentorietà confermata anche a livello strutturale da una decisa scelta per il «lungo» (tredici «capitoli», dedicati ciascuno a un mese e a un poeta, oscillanti fra i due e i trecento versi circa, di lasse diseguali ma per lo più ampie). La voce che parla dichiara di ricavare la propria forza da un abbassamento, dalla solidarietà con il «nonumano»: piante animali pietre («Mi abbatte il non essere cosa: mai forse in uomo il rifiuto di essere uomo / è stato più insistito e potente»). E il presupposto di un singolare «titanismo dal basso»: la rinuncia alle pretese dell’ottica antropocentrica e della logica del mercato permette infatti l’accesso alle fonti – natura e poesia – di un’altra potenza «non assurda-tirannica-vorace / ma benigna-generosa-bella». Il libro è insieme cupamente apocalittico nel rappresentare «il massacro e le rovine radicali» di un paesaggio, le fortune di «Milànodabere» e l’ascesa inarrestabile di «Globaltown», e vigorosamente energetico nel ribadire la vitalità del «potere strambo incandescente» della poesia, la sua forza di contestazione e capacità di testimonianza di un diverso possibile. Emblematica nel finale la sequenza che, in un futuro di neoplastiche, mostra un poeta vagante «cieco ma traslucido» dialogare con uno sterpeto superstite («O repubblica di tronchi rami spine, / che non libera ma ostinata qui resisti»): morirà poetando, congedandosi fiducioso sulla capacità della propria ballata di parlare ancora ad altri e oltre lui. In questa sceneggiatura tratti foscoliani e leopardiani (il cieco poeta e la resistenza degli arbusti) si mescolano a elementi distopico-fantascientifici, a ribadire un progetto di attrito fra contemporaneo e antico, fra presente e passato che attraversa il libro, sul piano dei contenuti, come su quello delle forme, dove lessico e sintassi della lingua poetica tradizionale offrono un’intelaiatura sulla quale si innestano scarti di registro, decisi spostamenti verso il basso (neoformazioni con largo uso di composti, alterati, stranierismi). Ne scaturisce una poesia non «snervata e slombata», ma tutta impostata sui toni emotivamente connotati della denuncia irata, del dileggio sarcastico, della partecipazione sentimentale, della perorazione profetica.
Potrebbe anche far pensare a un progetto poematico, Folla sommersa, il titolo dell’ultima raccolta di Fabio Pusterla. La notevole poesia eponima si interroga sulla morte a 107 anni dell’ultimo superstite della prima guerra mondiale Paul Hooghe, lanciere, per riflettere sui meccanismi del ricordare collettivo (su quanto «perdura memoria / viva che il mondo ha di sé») e si chiude sull’immagine di una galleria di figure che esigono la nostra attenzione e quasi aspettano un narratore: «tra un po’ ci sarà anche mio padre e tutti i suoi amici e nemici, / una grande folla sommersa che ci guarda in silenzio e ci attende». Nel libro il gesto del portare lo sguardo, del prestare cura a quel che viene dimenticato, che resta ai margini, escluso, è abituale, e si rivolge anche sulle caparbie piante pilota capaci di ripopolare le massicciate ferroviarie dopo un decennio di diserbanti, di germogliare «umilmente ! in quel posto impossibile / e nostro, solo nostro per sempre, e smemorato». Quel posto sono «le zone / di contatto di materiali diversi, come il ferro e l’asfalto»: di nuovo, come in Riccardi, ma su un altro registro emotivo ed esistenziale, un’attenzione per gli attriti natura-industria. In questa silloge nutrita (e a tratti un po’ disomogenea) dell’attività poetica di quattro anni, Pusterla però non pratica la via della narrazione articolata. Fa eccezione l’intensa sequenza dei Sette frammenti sulla terra di nessuno, che racconta ellitticamente del piccolo paese di Gondo sotto il Sempione travolto dall’alluvione, parla della terra e della gente, con tutta la consapevolezza della difficoltà di dire a fondo la catastrofe e la scelta o il destino di vivere in una «terra di nessuno / e di tutti», su una terra «che sfugge / sotto le scarpe, e pure sostiene». Sono storie di persone (dal Signor Nino parrucchiere con il suo socialismo involontario, agli immigrati di alcune poesie civili, agli amici morti delle liriche in memoria), e ancor più di animali – stambecchi, vespe, cinghiali, salamandre, vipere, gatti, castori – raffigurati quali distaccati osservatori, saltuari interlocutori del mondo umano, possibili temporanee guide, oppure colti in un destino esistenziale complessivo, nella morte incombente o avvenuta {Ritratto bovino, Morte del cinghiale) sempre senza scorciatoie simboliche semplificanti.
Le doti migliori della scrittura di Pusterla sono la nitidezza di sguardo e la limpidezza di dizione (medietà linguistica lavorata con asciutta eleganza, uso misurato e intenso delle figure retoriche, semplicità studiata e dinamica della sintassi): lo dimostrano le poesie di volo e di luce, fra le più belle del libro, come Casa illuminata e Due alianti su Lione, che «guardano verso di noi che stiamo al suolo, pesanti» e forse non ci vedono, «Ma noi, pensarli in volo, questo aiuta».